mercoledì 16 dicembre 2009

L'inquisitore nell'iperspazio

Una storia decisamente oltre il tempo e lo spazio, che prende le nostre dimensioni quotidiane e le strizza e stiracchia con gran godimento. Così dentro ci si trova di tutto: dalla dea Diana agli spazi interstellari, dall’inquisizione spagnola al laboratorio di fisica ultramoderno, da una monarchia medievale ad un fantafascismo. Senza voler con questo intendere che il risultato sia un guazzabuglio informe, tutt’altro.
Le tre storie che si intrecciano nel libro corrono parallele – a tratti vicinissime fino a toccarsi, benché nella sostanza lontane anni luce (e non è una metafora) una dall’altra – in un complessivo ordito dalla struttura precisa e tutto sommato compatta. Delle tre una fa la parte del leone e non a caso, oltre ad essere la più corposa, è quella che dà il titolo. L’ascesa di Nicolas Eymerich e la sua battaglia contro l’eresia riescono ad avvincere fino all’epilogo, con un ritmo e una sequenza incalzante di eventi abilmente incatenati. Anche l’ambientazione e i personaggi minori sanno essere all’altezza della trama, evitando la funzione di meri fondali, come a volte accade nelle storie nate per le collane seriali (il romanzo uscì originariamente negli “Urania”). Mancano insomma quasi del tutto sviste o leggerezze, trabocchetti in cui sarebbe stato facile cadere volendo giocare con un plot non semplice e dovendo mantenere viva l’attenzione del lettore.
Gli stessi meriti sono difficili da attribuire alle altre due storie, che invero faticano a reggersi da sole, soprattutto la prima, incentrata sulla figura del geniale e ribelle ricercatore Marcus Frullifer. La vicenda è quasi impalpabile e alcune scene fanno decisamente acqua, in particolare quando si tratta di far interagire Marcus e la bella Cynthia, stimolando la tentazione di saltare rapidamente al capitolo successivo. A conti fatti risulta abbastanza chiaro che l’unica vera funzione di questa parte del libro sia fornire i presupposti scientifici per spiegare quanto accade ad Eymerich e all’equipaggio della nave spaziale Malpertius, protagonista della terza storia. Alla fine forse sarebbe bastato un breve cappello introduttivo, con buona pace di Marcus Frullifer.
Ma a fare i pignoli si rischia a volte di perdersi del divertimento, e qualche pagina su cui corre re via in fretta, non condanna l’inquisitore Eymerich, personaggio che si fa ammirare e detestare come pochi, e la cui fortuna letteraria, da questo romanzo in poi, è andata man mano crescendo.

Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore, Milano, Mondadori, 2004.

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Da regalare: per ridare speranza all’amico che da anni progetta un viaggio temporale

lunedì 7 dicembre 2009

Chiocciola bianca 2009


È finalmente giunto il momento che tutti i lettori esigenti, senza saperlo, stavano ansiosamente attendendo: l'assegnazione dell'ambita "Chiocciola bianca". Vi presento qui sotto la classifica dei cinque libri che ilVoltaPagine ha ritenuto essere i più interessanti fra tutti quelli presentati nell'anno appena trascorso. Si tratta ovviamente di un concorso sui generis, completamente parziale nei modi e nelle forme, che stila l'ordine finale seguendo un puro criterio di gusto, senza patemi e senza eccessive elucubrazioni critiche. Semplicemente una maniera ludica per suggerire qualche titolo da mettere sotto l'albero. Ecco allora i meritevoli:
1. Uomini e cani di Omar Di Monopoli (Isbn)
2. Venti sigarette a Nassirya di Aureliano Amadei e Francesco Trento (Einaudi)
3. L'eleganza del riccio di Muriel Barbery (e/o)
4. Il ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti (Feltrinelli)
5. L'entrata di Cristo a Bruxelles di Amélie Nothomb (Voland)

Foto: La chiocciola e la lavanda © Paolo Bertinetto

mercoledì 18 novembre 2009

Per non parlar del cane

Ogni autorità risulta in qualche modo ostile, quando ci si para di fronte. Il vigile urbano, il guardiaparco, i loro distintivi possono renderci improvvisamente nervosi, siamo pronti a cacciar fuori le unghie, fiutiamo nell’aria l’abuso, percepiamo teso e sofferente fra le dita il filo di rispetto per l’autorità che, ci hanno insegnato, non bisognerebbe mai spezzare. Ma ci sono terre aspre in cui quel filo ha davvero poca speranza di rimanere intero, in cui l’autorità – intesa in senso lato e comune – viene sbattuta dal vento come una bandiera stanca; in cui certi limiti vengono di continuo valicati; sono terre segnate da leggi non scritte che sanno di sputo, sangue e merda di cane.
Così appaiono certi angoli di Puglia, che a guardarli sembrano ancora oggi antichi, con le loro piane brulle interrotte da inattese foreste, con le case diroccate chiuse come pugni, il mare vivido sulle rocce e placido sulla sabbia. Sembrano antichi, come sembra antica questa storia, scandita in sette giorni infernali in un Sud ancestrale, dimentico di quasi tutte le regole del vivere civile, nelle mani di un’umanità primitiva. Eppure c’è tutto il nostro moderno ed evoluto mondo in Uomini e cani; allora a volte si deglutisce faticosamente, e ci si ripete che in fondo è solo finzione narrativa, è solo finzione, oppure no?
Sorvolando sui pochi luoghi comuni in merito all’abusivismo edilizio a danno delle aree protette o all’atmosfera pre-elettorale nel piccolo comune, risulta difficile scovare qualcosa di inessenziale nel romanzo di Omar Di Monopoli, nonostante un’inventiva lessicale che avrebbe potuto scivolare nel barocco e invece riesce senza fatica a far immaginare «un’umanità scalena e abnorme» (p. 33). In questo senso la vera punta di diamante sono i dialoghi, affogati in una prosa tagliente, ricca, ma appunto misurata. Pare davvero di sentirle tutte le voci malsane e sbilenche di quella selva di martiri e dannati che sono i personaggi che costellano il romanzo, personaggi buoni e cattivi, ciascuno a modo proprio schiavo di una terra che pare non lasciare scampo.
Uomini e cani è un libro straniante perché fa perdere molti dei naturali punti di riferimento del vivere comune, perché ci ricorda che il cane è il miglior amico dell’uomo, ma solo se non è incazzato.

Omar Di Monopoli, Uomini e cani, Milano, Isbn, 2007.

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Da regalare: al dog-sitter dei vicini

giovedì 12 novembre 2009

Non giriamo attorno al cespuglio (2)

Delle perplessità che Io sono Dio di Giorgio Faletti ha sollevato in alcune attente lettrici, ho già avuto modo di parlare. Di per sé non ci sarebbe stato motivo per tornare sulla faccenda, ma la risposta che lo stesso Faletti ha imbastito a sua difesa - pubblicata su «La Stampa» il 22 agosto 2009 - imponeva di tornare sul luogo del "delitto". Quella risposta mi sembra manifesti due principali difetti: da un lato non controbatte alle obiezioni sollevate; dall’altro presenta un tono ingiustificatamente aggressivo e poco elegante. In una tenzone cortese il rispetto dell’avversario dovrebbe essere la prima regola, a maggior ragione se l’avversario è una donna, invece è proprio in quella direzione che Faletti dimostra di volare davvero basso e in barba a qualsiasi forma di bon-ton si lascia andare ad affermazioni sprezzanti e offensive, forse senza immaginare che così facendo aumenta i sospetti nei suoi confronti e induce a ritenere egli non abbia a disposizione armi migliori, cioè più intelligenti, da usare a propria difesa. Ma andiamo con ordine.
«Se in un giallo [...] cinque frasi non funzionano, è un gran risultato» dice lui, e noi possiamo essere d’accordo, tuttavia il problema non sta nelle cinque frasi in sé - al di là del fatto che sono ben di più -, ma sta nel ruolo che tali frasi hanno quali indizi pesanti dello zampino di un ghostwriter di madrelingua inglese. Secondo Faletti la frase idiomatica "non girare attorno al cespuglio" ha un significato facilmente comprensibile anche per un lettore italiano (provate a fare un test fra i vostri conoscenti); scrivere "grandi" per dire "biglietti da mille dollari" va benissimo, dato che in italiano usiamo già una parola quale "verdoni" che non ha riscontro con la realtà, essendo verdi i dollari ma non gli euro (peccato che solo "verdoni" sia un termine che tutti comprendono); "non te ne devo una, ma mille" al posto di "ti devo un favore enorme" sarebbe un prestito da un modo di dire piemontese (ma il romanzo non è ambientato negli Usa?).
Insomma la difesa risulta perlomeno maldestra e si ferma solo su alcune delle obiezioni, cercando di ridicolizzare chi le ha sollevate e facendo ricorso, come dicevo, a modi riferibili al Vito Catozzo dei tempi d’oro piuttosto che al Giorgio Faletti dei giorni nostri: «risibile querelle estiva e premestruale». Per pudore mi fermo solo a risibile, perché in verità non c’è nulla di cui ridere. In questo caso, o abbiamo a che fare con un’operazione truffaldina mal congegnata, oppure stiamo scoprendo che un autore pubblicato in pompa magna, osannato per le 12 milioni di copie vendute, non sa valutare se sta scrivendo una frase che ha un significato chiaro e compiuto. A questo punto tutta la vicenda potrebbe rappresentare un altro complessivo, grande indizio: della bassissima capacità critica dei lettori italiani.

Foto: Duello al tramonto © Andrea Mucelli

giovedì 22 ottobre 2009

Perduti nell'indefinito

Il ristorante cinese è un luogo ambiguo. Si teme sempre di finire per ingoiare qualcosa di disgustoso o di esiziale per lo stomaco, però nel contempo il mistero agrodolce attrae, il sapore diverso non può che intrigare ed è quasi divertente pensare si tratti di una prova di coraggio sedersi su quel rosso laccato e aspettare di mangiare qualsiasi cosa improvvisamente navighi nel piatto. A leggere Dolce miele, decomposta, si scopre che il legame con quel luogo può diventare ossessione al punto di non distinguere più l’intossicazione dall’amore, e viceversa. L’unica via è lasciarsi sopraffare. Come accadrà al poliziotto all’altro capo del libro, impantanato in una situazione scomoda, combattuto fra dovere e piacere, immobile di fronte ad una finestra aperta sulla palude nella quale anche lui, prima o poi, affonderà.
Due piccoli gialli – in tutto “20 minuti” di lettura – dallo stile inquieto: scene montate con rapidi fotogrammi e con frasi smozzicate, una trama che si compone per progressivo affastellamento, con evidenti sbirciate al grande schermo. Storie lampo che vanno in dissolvenza verso un ricordo lontano e verso il mondo degli spiriti, a stemperare le crudezze di efferati assassini. Due uomini finiranno vittime degli incantamenti, perché incapaci di cogliere il confine fra reale e irreale. Due donne li condurranno oltre, in virtù della naturale e femminile attitudine per le sfumature. Anche Paola Ducci la possiede e lo si capisce da come lascia sospese le storie, fa sussurrare i finali, perché in fondo poco conta quello che accade, conta piuttosto come accade.

Paola Ducci, Il crudele si vende bene, Roma, Il caso e il vento, 2008.

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Da regalare: a chi trova indigesti gli involtini primavera

giovedì 15 ottobre 2009

La carta buona

Gli alberi sono le vedette silenziose della natura. Considerando il ruolo fondamentale da loro giocato nello smaltimento dell’anidride carbonica, e di conseguenza nell’arginare l’effetto serra, essi rappresentano il monito più efficace contro le ingiurie che seguitiamo a infliggere alla nostra povera Terra. Capita perciò, di tanto in tanto, al lettore esigente, di sentirsi terribilmente in colpa. Perché il lettore esigente è un feticista, un personaggio che con i libri ha un rapporto fisico, ama certe ruvidezze, certe plastificazioni; carezza gli spigoli, fa frusciare le pagine, annusa gli anfratti di colla e di carta. Ecco, la carta soprattutto. Il lettore esigente è ammaliato dal tocco della carta, non saprebbero farne a meno, ne vuole sempre di più. Ma per fare la carta ci vuole un albero, e tanti libri significano tante foreste abbattute.
Oggi, nel giorno che i blogger di tutto il mondo dedicano alla discussione sui cambiamenti climatici (www.blogactionday.org), forse allora dovrei starmene zitto e limitarmi ad un sommesso mea culpa. Fortunatamente gli attuali processi di produzione della cellulosa muovono da premesse nuove, e molte cartiere hanno fatto proprie le esigenze ecologiche e il rispetto dell’ambiente. L’applicazione di procedure "virtuose" nella fabbricazione della carta garantiscono ad esempio l’assenza di cloro e di metalli pesanti, oppure c’è la possibilità di rifornirsi di materia prima presso le cosiddette well managed forest. In queste foreste, non appena un albero viene tagliato ai fini della produzione di legno o carta, si provvede a piantarne un altro, in maniera da assicurare la sopravvivenza dell’eco-sistema nel suo insieme. Al processo di costante rimboschimento partecipano indirettamente anche i clienti, ossia nel nostro caso le cartiere. Anche in Italia i principali produttori si sono allineati a queste direttive, facendo sì che fare un salto in libreria oggi non significhi per forza abbattere un albero.
La buona notizia insomma è questa: il consumatore di libri non è per forza un criminale, e un piccolo contributo è possibile darlo, acquistando carta che presenti certificazioni ufficiali di sostenibilità ambientale e invitando i nostri editori preferiti a fare altrettanto.

Foto: abete 2 © F. Guarnieri

giovedì 1 ottobre 2009

Su Marte o a Battipaglia

La fantascienza implica paradossi nuovi, situazioni ignote alle coor­dinate del nostro vivere quotidiano, e deve aprirsi per forza a prospettive inattese, basate su una sorta di geometria non-euclidea del raccontare. Chi non ne asseconda il naturale impulso, finisce per fare della fantascienza un uso maldestro e poco pregnante. Per scendere nel concreto, il pilota di una navicella spaziale non può assomigliare troppo ad un autista di tir sulla Salerno-Battipaglia, perché a quel punto tanto valeva rimanere sulla terra. Ecco il maggior peccato di questa raccolta di sette racconti: aver portato lontano – nello spazio, nel tempo o in entrambe le direzioni – delle storie pensando che ciò bastasse a dotarle di maggiore senso, di effettiva sostanza. Diceva Orazio che se corriamo al di là del mare, cambiamo cielo, non animo; lo stesso vale per le nostre storie.
Alle sett’albe non avrebbe nessun bisogno di essere ambientato su una stazione orbitante, anzi quella sorta di medico della mutua che è il protagonista sarebbe apparso molto più vero se avesse aperto lo studio in un piccolo paese di provincia. E Qualcuno dovrà è un dialogo fra nonno e nipote senza una reale consistenza, difetto non superabile solo per il fatto che i due vivono su Marte. In Atteone la situazione è abbastanza classica: un luogo poco abitato, sperduto nello spazio, improvvisamente smette di inviare segnali e un poveretto pieno di problemi e mezzo emarginato viene spedito ad indagare, con l'ovvia conclusione di un imprevisto scontro con l'alieno di turno. Alla fine della giostra (p. 48) salta fuori un po' a sorpresa una morale: «Pensava [...] all'enormità del cosmo e alla piccolezza angusta della limitata mente umana. Tutto cambia, tutto si trasforma e nulla rimane uguale a se stesso. Troppe forme di vita, troppe incognite». Ci voleva una chiusa così densa di senso, ma in base a quali ragionamenti si sia arrivati a tale riflessione è un altro mistero, si tratta di una morale tanto solenne quanto ingiustificata dagli eventi, da lasciar perplesso anche il buon Eraclito.
Insomma affondare radici in terre narrativamente friabili conduce a passi falsi: anacronismi (il navigatore spaziale che usa mappe cartacee e traccia le rotte a penna), innesti forzati (vedi le parti fantasy in Involontaria consegna), imprecisioni terminologiche (alle pp. 57-58 si legge che «l’Apollo numero 11 fu la prima astronave in grado di atterrare su un pianeta diverso dalla Terra», peccato che la luna non sia un pianeta). Lo spazio offre grandi silenzi, bisognerebbe approfittarne di più.

Fabio Centamore, Alle sett'albe, Roma, Ducas, 2009.

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Da regalare: al patito di b-movies post-atomici

domenica 27 settembre 2009

Trilogia del PD

Il politichese è l’anti-letteratura per antonomasia. Dunque non saprei veramente spiegare per quale assurda forma di masochismo mi sia venuto in mente di leggere le tre mozioni e di arrivare persino a scriverne. Forse era meglio lasciarle dove stavano, a coprirsi di polvere fino a diventare documenti d’archivio, oppure a infilarsi nei pertugi senza fondo della cosiddetta letteratura grigia. Ma il dado è tratto ed ecco il risultato del divertissement. Leggere quei documenti politici come fossero strana narrativa di consumo forse non è servito a produrre chissà quali acute analisi, ma a fronte del gran dibattito sulla scelta del prossimo candidato per il maggior partito dell’opposizione, non ho resistito a comportarmi da lettore esigente, dopo aver scaricato i testi delle mozioni con cui Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini, Ignazio Marino si sono candidati alla guida del PD.

Mozione Bersani: è l’unica ad avere una copertina e denota in generale una cura grafica maggiore, non a caso è stata redatta con un Mac. Presenta un arioso logo, disegnato per l’occasione, in cui spicca il solo cognome (il nome proprio non ricorre mai in tutto il documento). Accanto campeggia lo stemma del PD, sfoggio che le altre due mozioni hanno scaramanticamente evitato. Le 13 pagine che la compongono sono strutturate a piccoli paragrafi dai titoli altisonanti – Il nuovo mondo, Democratici del XXI secolo, Abbiamo fiducia nel nostro Paese... – per far capire fin da subito che qui si parla di concetti alti, della necessità di un “ritorno alle radici dell’umanesimo” e dell’entrata in campo della “grande politica”. Era ora, verrebbe da dire. Si tratta insomma di un testo che la prende larga, che cerca di delineare un orizzonte ideologico, che vuole ispirare più che spiegare. Quando scende sul concreto, su un’Italia fratturata in diversi punti, si concentra soprattutto sul lavoro e parla di nuove forze sindacali, di fonti rinnovabili, di sperequazione della ricchezza e di staticità sociale; parecchio di sinistra, salvo invocare subito dopo una “nuova stagione di liberalizzazioni”. Il momento migliore, il passaggio con la maggiore vis retorica, è per me quello alle pagg. 8-9: “Dove la crescita dell’informazione, della cultura e della responsabilità personale e istituzionale [rispetto allo sviluppo scientifico e alla globalizzazione] non sono altrettanto veloci, queste straordinarie opportunità di progresso suscitano rapidamente un regresso civile e morale: demonizzazione dello straniero e del diverso, nuove forme di sfruttamento, oscurantismo, umiliazioni della dignità della donna, paura del progresso, nuovi fondamentalismi, chiusure identitarie”. Fa invece un po’ ridere vedere scritto “la laicità è la nostra bussola” (p. 9), quando l’unico testo citato in tutta la mozione è l’ultima enciclica papale (p. 2). La mozione più corta sembra in un certo senso molto sicura di sé, perché non ritiene necessario approfondire, è una “traccia di discussione da sviluppare”; d’accordo, però forse non sarebbe stato male capire come. Non ho ben compreso a che scopo siano stati aggiunti in appendice le definizioni di partito e di democratico. Sarebbe davvero preoccupante se fosse necessario ripartire da così a monte...

Mozione Franceschini: cinque parole come titolo e poi la mozione si srotola ininterrotta per ben quaranta pagine, anche se non fittissime, anzi piuttosto spezzettate in frequenti a-capo e frasi semplici ad effetto, un po’ alla Baricco, se avete presente lo stile. Benché priva di copertina, la mozione ha un simpatico logo tricolore che accompagna il nome e si ripete in alto in ogni pagina come un titolo corrente. Il tono è più confidenziale, Franceschini dice “io” e snocciola date, nomi e numeri (è l’unico a nominare Berlusconi). Eppure anche qui si sente la necessità di costruire una sovrastruttura filosofica alle proprie proposte, trasmettere una Weltanschauung compiuta e complessiva. Le citazioni però sono decisamente più laiche, da Victor Hugo a David Maria Turoldo (un sacerdote, è vero, ma praticamente esiliato e parecchio inviso alle gerarchie vaticane). Non a caso si arriva a parlare poi di rispetto per i diversi orientamenti sessuali, argomento assente nella mozione precedente, nonostante la sua attualità. Nella sostanza le prime due mozioni dicono suppergiù le medesime cose, ma quella di Franceschini fornisce indicazioni precise sui modi d’attuazione, fa esempi tangibili, argomenta senza far calare le parole dall’alto, con una sorta di umiltà sincera – forse più da coordinatore che da guida – e dà l’idea di crederci davvero: “l’Italia è la risorsa dell’economia italiana” (p. 30), più fiducia di così.

Mozione Marino: la contraddistingue una strutturazione interna piuttosto organica, una sorta di albero degli argomenti che man mano si ramifica (fino ad una serie di schede tematiche), avendo sulla cima un sentito invito ad una nuova sensibilità, ad un nuovo senso civico: “Noi italiani abbiamo il diritto di tornare ad essere orgogliosi del nostro paese. Perché l’Italia è migliore di quanto vorrebbero la retorica del cinismo e del disincanto” (p. 1). Il desiderio di rottura si manifesta anche nel logo, privo di tracce del tricolore e che rappresenta un movimento verso l’esterno, l’uscita da un luogo chiuso, oppure una fecondazione al contrario (se anche a voi ricorda una specie di spermatozoo). Il progetto si basa su cinque parole, esattamente come nella mozione Franceschini: una sola coincide (merito) ma alcune delle riflessioni sono affini. La mozione offre spunti inediti piuttosto nelle modalità di realizzazione del progetto, dando più delle altre l’impressione di non calcare i percorsi classici della politica nostrana. Se Bersani dice “un senso a questa storia”, Marino pare volere “una storia nuova (con qualche senso)”. Insomma, le proposte per la formazione continua, per un fisco non punitivo, per l’impegno civile degli anziani, per scuole con un chiaro ruolo sociale e di integrazione, per una trasparenza nell’uso delle imposte, appaiono nel complesso originali, meno soggette al fastidioso odore di naftalina. Ditemi, ad esempio, se questa definizione vi sembra appartenere alla politica a cui siamo abituati: “la laicità è un metodo: [...] significa non porsi nel dibattito pensando di possedere la verità o di avere ragione a priori” (p. 16). Are you italian?

Ponendo le tre mozioni una accanto all’altra, le differenze più nette si rilevano soprattutto nel modo di considerare la breve storia del PD sino ad oggi. Bersani soffre la corresponsabilità di un mancato raggiungimento degli obiettivi e vorrebbe essere colui che questo partito lo rifonda. Franceschini è più ottimista, sente di far parte di un processo in corso che darà i suoi frutti – pur ammettendo che il cammino rimane lungo e difficile – “perché il partito lo stiamo ancora costruendo” (p. 34). Al contrario Marino indietro non guarda proprio: per lui il partito ancora non c’è (con sonoro applauso dei soci fondatori delusi).

Foto: partito democratico © lutherblisset71

domenica 6 settembre 2009

La città senza grigi

Il signore delle mosche ha un antenato, e abita a Timpetill. Nel centro del paese non c'è una testa di maiale infissa in un palo, bensì la statua di san Matteo, eppure la domanda di fondo è la stessa: come agirebbe una comunità di bambini improvvisamente abbandonata a se stessa? Darebbe libero sfogo a tutti gli egoismi facendo prevalere la legge della giungla, oppure tenterebbe di darsi un ordine, delle regole, per creare una società senza prevaricazioni ed efficiente nella propria sussistenza? Se William Golding da qui era partito per dipingere un quadro pieno di sfumature, Henry Winterfeld, diversi anni prima, aveva scritto di Timpetill evitando decisamente i grigi: una divisione manichea contrappone i Pirati di Oscar Stettner al gruppo guidato da Tommaso Wank, cattivi contro buoni, e se i primi ricalcano perfettamente la fisionomia della classica banda di discoli, i secondi sono così buoni da apparire quasi falsi. Sfoggiano notevole lungimiranza, una dirittura morale al limite dello stucchevole, una saggezza tanto pacata da difettare di verosimiglianza.
C'è una smisurata fiducia nel prevalere della disciplina, nella soddisfazione che chiunque godrà nel sottostarvi, nella qualità delle scelte che le guide dei "buoni" faranno. Tutto procede per il meglio nel rapido cammino di crescita dei bambini, tanto che la conquista delle redini della città moderna - tratteggiata come luogo perfetto di progresso sociale e tecnologico - avviene a tratti in maniera didascalica, poco dinamica (il capitolo dedicato alle centrali elettrica e idraulica che alimentano la città, alle pp. 120-125, pare un piccolo manuale da Giovane Marmotta).
Col senno di poi è facile constatare quanto lontana da queste pagine sia la pedagogia, intesa nel senso di scienza che si interessa al bambino nella sua unicità e non come prototipo imperfetto dell'adulto. Nonostante manchino le efferatezze, la spietatezza, la disillusione del Signore delle mosche, il romanzo di Winterfeld è pervaso da un cinismo leggero che lo rende per certi versi ancor più crudele. A ben vedere quei ragazzini sono cavie di laboratorio, vittime di un esperimento involontario quanto irresponsabile. Perché tutto ha inizio quando il telefono azzurro è ben di là da venire e i genitori si permettono il lusso di giocare un tiro birbone, ma birbone davvero, ai propri figli. Sennonché la situazione sfugge loro di mano e ai bambini tocca diventare grandi molto in fretta.
Timpetill uscì nel 1933 e Carmine De Luca - nell'introduzione a questa nuova edizione del romanzo - si pone la nient'affatto banale questione del rapporto dell'opera con l'ascesa del nazismo. Non sarebbe improprio, ipotizza De Luca, vedere nei Pirati un "simulacro delle bande [...] agli ordini di Hitler" (p. 13), e quindi raffigurare Tommaso e compagni come ideali oppositori del folle regime. Per la verità mi pare altrettanto plausibile pensare l'esatto contrario. La volontà di organizzare e rendere comune ogni aspetto della vita sociale, l'imposizione dall'alto di ruoli e incarichi, la spinta allo sfruttamento delle macchine (si veda l'episodio del tram), sono alcuni degli aspetti che fanno aleggiare attorno ai "buoni" un alone oggi perlomeno sospetto. Quelle pattuglie della riserva che girano armate di bastoni evocano certo qualcosa. Ci sarebbe da indagare e l'esito della ricerca potrebbe essere paradossale, considerando soprattutto che lo stesso Winterfeld cadde vittima delle leggi razziali e dovette lasciare la Germania poco tempo dopo l'uscita del romanzo. Chissà se nella vicenda non vi sia posto per della fiducia mal riposta e poi delusa.
Rimane il fatto che alcuni dei nostri nonni sono cresciuti leggendo e rileggendo le avventure raccontate da Henry Winterfeld e al libro sono ancora affezionati, come è il caso di Tullio De Mauro che firma la presentazione. Nulla di strano; sappiamo bene che alle storie della nostra infanzia perdoniamo ogni cosa: comunque rimarranno per sempre la storie più belle al mondo.

Manfred Michael (Henry Winterfeld), Timpetill. La città senza genitori, Perugia, Edizioni Era Nuova, 2008.

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Da regalare: alla mamma eccessivamente apprensiva.

martedì 18 agosto 2009

Non giriamo attorno al cespuglio

Il ghost writer – o quello che più prosaicamente da noi si chiamava “negro” – non è una leggenda metropolitana. Più spesso di quanto si immagini persone abili con la penna vengono ingaggiate per scrivere un’opera che non sarà mai loro attribuita. In genere si tratta di un lavoro d’équipe: c’è chi progetta, investe e coordina (un editore, un agente, ecc.); c’è chi ci mette la faccia, ovviamente meglio se già nota e famosa, e la firma in copertina; c’è chi batte sui tasti come un forsennato per consegnare in tempo il best-seller commissionato. E' un po’ come l’utero in affitto, con la sola variante che nel caso letterario qualcuno viene bellamente preso in giro. Io almeno, da lettore, scoprendolo lo vivrei come una sorta di tradimento. Per tale ragione ho parecchio insistito e discusso con l’amico a cui è capitato di fare da ghost writer, e anche per un autore di una certa fama. Ho cercato di estorcergli il nome, ma fedele al contratto firmato con l’editore lui non ha ceduto. È stata la prima occasione per mettere il naso in un mondo clandestino che getta tristi ombre, spesso in ossequio al business, sulla “sacra” figura dello scrittore.
Una recente vicenda ha forse alla radice proprio un caso del genere. Mi riferisco alle stranezze rilevate da Eleonora Andretta – lettrice esigente, nonché amica del VoltaPagine – nell’ultimo successo di Giorgio Faletti, Io sono Dio. Delle sue perplessità, riprese anche dal «Corriere della Sera» e da «Oggi», si può leggere sul blog di Beppe Severgnini. In sostanza il nuovo thriller che imperversa sulle spiagge nostrane manifesta un’evidente e curiosa dipendenza dall’anglo-americano con effetti abbastanza stranianti: modi di dire tradotti letteralmente («girare intorno al cespuglio», invece di «menare il can per l’aia»; «te ne devo una» anziché «ti devo un favore»), frasi incomprensibili («una ventina di grandi vi avrebbero fatto comodo», dove grands, nello slang dei neri d’America, sta per mille dollari), termini imprecisi (come «eccitato» in luogo di «emozionato», evidente calco da excited). Il sospetto è allora che Io sono Dio sia in realtà il frutto del lavoro di un ghost writer americano che ha sviluppato un’idea (forse) di Faletti, sulla base di uno schema classico da thriller. L’operazione non è complicata e vi sono regole abbastanza fisse per riuscire a produrre un romanzo che rientri nei canoni del libro da spiaggia, al resto ci pensano pubblicità e marketing. Magari per problemi di ispirazione, magari per mancanza di tempo, può essere che si sia scelto di commissionare il romanzo a qualcuno d’oltreoceano, affidandosi poi però ad un maldestro traduttore. Gli indizi sarebbero molti. Rita Cenni su «Oggi», dimostrando una certa pavidità, chiude l’articolo affermando che senz’altro si tratta di vezzi dell’autore. Io credo si possa parlare di vezzo quando c’è qualcuno che lo può interpretare come tale. Nel caso di Faletti le cattive traduzioni o non si comprendono o fanno sorridere chi ne deduce l’origine americana. Comunque nulla a che vedere con il vezzo letterario.

Foto: After you went away © Zazie

mercoledì 29 luglio 2009

La morte ci aspetta, ah ah!

Solo lo sciocco non lo sa, che ci aspetta la morte. Tutto è vacuo, inconsistente, al cospetto della falce rabbiosa; tutto svapora al solo pensiero, ancora prima del suo arrivo. Chi avrà dunque l'illusione di sopravviverle? Lo sciocco di natura (o reso tale dal vino); gli amanti eternamente abbracciati; il filosofo. Gli altri sono smarriti nella notte del trapasso, guardano il cielo al passaggio della cometa, in preda al terrore si fanno domande a cui nessuno risponde. Niente sanno dire il re e i suoi consiglieri, la loro pochezza, che è pura esteriorità, si palesa e diventa impietosa critica: «Dov’è il Principe (...) ?» «Con il vostro permesso, credo che, sofferente alle budella, sia andato a riflettere in un luogo ove i principi vanno senza seguito», «Su un trono» (pp. 109-110).
L’ubriaco Porponaso si salva, perché annebbia lo sguardo e prende tutto con leggerezza, e viene preso in simpatia, anche se ciò non basta a sollevarlo dalla peggior tortura: «Non avrai più sete» gli viene promesso, «Niente sete?» risponde il nostro stringendo il collo della bottiglia «Monsignore, parlavate di morte, non di castigo!» (p. 72). Accusato d’essere stupido, così dice a Necrozotaro, al Grande Macabro: «Rendetelo sensato, sì, e l’umanità potrà contare su un cattivo in più» (p. 68). Insomma ad essere sobri non ci si guadagna nulla, la scelta si restringe fra divenire malvagi o affondare nella disperazione. Per sua natura l'uomo cerca soluzioni alternative, ma anche la ninfomane Salivane è sconsolata: aver sposato due filosofi ha trasformato la sua vita in un calvario. Eppure nemmeno il sesso sfrenato può salvarla, perché esso rende ansiosi, dipendenti, incapaci di trovare pace.
Il desiderio di rileggere La ballata del Grande Macabro mi è sorto grazie all'opera quasi omonima di Gyorgy Ligeti, messa in scena qualche settimana fa al Teatro dell'Opera di Roma (con disappunto di qualche spettatore tradizionalista che, fra un atto e l'altro, ha gridato: «Viva Verdi!»). C'era una donna enorme sul palcoscenico, inattraente, debordante, fatta per essere penetrata da un esercito di uomini alla disperata ricerca di un’eternità apparente. Il suo seno era il sepolcro, come se ciò che era stato creato per nutrire la vita, si fosse trasformato in un ricettacolo di morte. In realtà il «sepolcro (...) è una camera per metamorfosi» (p. 62), si tratta di dare una nuova forma alla vita. E questa è forse la prospettiva finale delle pièce di Michel de Ghelderode.
Confesso un debole per il teatro irreale, cosiddetto assurdo, di Beckett, di Pinter o di Ionesco, un teatro affidato ad improbabili personaggi: il guardiano che fissa un secchio vuoto; i compari che attendono all’infinito presso un albero; il pompiere sempre sul punto d’andarsene. È un teatro che sembra anni-luce lontano dalla realtà, eppure in esso la realtà è distillata, spremuta, come se le avessero tolto ogni orpello per offrirla nella sua essenza più pura. Nello svolgersi della lettura tutto appare un po’ insensato ma, nel momento di lasciare l’ultimo atto, davanti ai nostri occhi il velo si straccia e la realtà è davvero lì, visibile, più vera di prima.

Michel de Ghelderode, La ballata del gran macabro, Torino, Einaudi, 1975 (pubblicato in coppia con Magia rossa, nella "Collezione di teatro"; oggi è fuori catalogo e non credo sia stato più ristampato)

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Da regalare: all'avventore abituale del bar sotto casa

venerdì 3 luglio 2009

Il buco al centro del mondo

Anche se insidiata dalle metropoli d’Oriente, New York rimane nel nostro immaginario il centro del mondo, e la Grand Central Station è uno dei suoi luoghi simbolo, una sorta di centro del centro. Milioni di persone transitano attraverso di essa, tra una partenza e un ritorno, nell'attesa di un amico o di un amore, tutti disposti ad abitarla, ma solamente per lo stretto necessario. Nell’avversa fortuna lo stretto necessario a volte si allunga indefinitamente, ed è così che senzatetto e barboni finiscono per eleggere la Grand Central Station come dimora stabile: nella sua grande pancia sotterranea svernano gli esclusi, e fra loro c’è pure Lee Stringer. Vagando tra i cunicoli ha scovato un buco e l’ha fatto suo, un anfratto disumano dove può solo leggere o dormire, perché se vi porta del cibo finisce per soccombere ai ratti.
In tutta sincerità lo ignoravo, ma una matita può avere almeno due usi principali e, per uno come Stringer, scrivere è solo il secondo. Una matita è lo strumento ideale per fare pressione sui filtri prima di farsi di crack; inoltre ha il grosso vantaggio di risultare del tutto innocua quando la polizia te la trova addosso. Questa è la sola ragione per cui Lee Stringer, stagione dopo stagione, si porta dietro la sua matita, almeno finché arriva la rivelazione: una matita può anche scrivere.
Se ci fate caso, molti autori americani contemporanei paiono arrivare alla scrittura attraverso un progressivo processo di sottrazione, e non solo in senso stilistico, ma anzi soprattutto in senso esistenziale. Mentre alle nostre longitudini lo scrittore è uno che si ingozza di impegni, letture, storie, oltre oceano lo scrittore realizza d’essere tale quando perde tutto, quando nessuno lo chiama più, quando il futuro è azzerato, quando sembra davvero che sul fondo del barile non vi sia oramai nulla da raschiare. Penso a Carver che spende il suo ultimo cent in una lavanderia a gettoni e fissa l’oblò chiedendosi cosa fare; penso a Augusten Burroughs mentre guarda inebetito il pavimento del suo salotto completamente occupato da bottiglie vuote; penso a Lee Stringer che vive in un buco al centro del mondo. Uomini all’apparenza condannati al definitivo fallimento o ad una devastante ed esiziale dipendenza.
Il meccanismo salvifico della scrittura trasforma le loro tragiche esperienze personali in bacini preziosi di idee, sublima l’abiezione in arte e, appunto, li salva. D’altronde si sa che ai margini della società, nei luoghi dei reietti, si trovano spesso i migliori personaggi, racconti di vite costellate da situazioni paradossali. Chi scende fino a lì e poi riesce a risalire, porta con sé un bagaglio necessariamente ricco. Ora però – ed è questa la maggior pecca nell’Inverno alla Grand Central – non tutto quello che abbiamo sentito e vissuto può divenire de plano materia di romanzo. C’è una sorta di presunzione narrativa nella costruzione di questo libro: l’idea che bastino frammenti di storia per assemblare una trama, che basti raccontare di gente vera, di fatti reali, per toccare un lettore. La medesima presunzione colpisce l’autore/protagonista Stringer e lo rende, se non antipatico, perlomeno lontano. Qual è il viaggio dell’eroe? Egli è sempre uguale a sé stesso, non soffre, si bea d’essere a suo modo arrivato: ero un barbone, ora sono uno scrittore. Che bravo!
È curioso che Kurt Vonnegut, nella benevola ma smilza introduzione, citi Jack London. Perché il primo mio pensiero, nel leggere, è andato proprio ad un’opera di Jack London, a quella sorta di docu-fiction che è Il popolo degli abissi: l’esperienza di travestirsi da marinaio per affrontare nel 1902 i sobborghi di Londra, per vivere miserabile tra i miserabili e ricavarne alla fine un racconto frastornante e a tratti attualissimo. Ho visto delle affinità, ma la penna (non la matita) è un’altra.
Stringer ha a volte uno sguardo cinico sul mondo di cui scrive, distaccato al limite del disprezzo, come se lo studiasse ma avesse scordato d’averne fatto parte. La sua è una cronaca fredda, con uno stile adatto a Street News – il giornale di strada che divenne la sua “casa” dopo essere uscito dal buco –ma che tende ad appiattire tutto sullo stesso piano. Diverso era lo spirito di Jack London. Quando lo ammonivano: «Dicono che ci sono luoghi nei quali la vita di un uomo non vale un soldo», lui rispondeva: «Sono proprio i posti che voglio vedere».

Lee Stringer, Inverno alla Grand Central, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 272.

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Da regalare: alla zia maniaca dell'ordine e della pulizia


domenica 28 giugno 2009

Torino salvata dai ragazzini

C’è chi sostiene non abbia più senso che sia Torino ad ospitare la più importante fiera nazionale del libro, in quanto città troppo poco rappresentativa della realtà editoriale italiana, soprattutto dopo il trasloco dell’Einaudi. Per parte mia non la vedo come una necessità impellente. Questa ansia di concentrare tutto fra Milano e Roma – in una malcelata battaglia sostanzialmente politica – rischia di affogare le due “capitali” e nel contempo di impoverire la culturalmente ricca provincia dello Stivale. Significherebbe poi gettare alle ortiche una lunga tradizione, togliendo alla città sabauda uno degli eventi in cui maggiormente e con fierezza si riconosce. E' perciò comprensibile che le autorità locali, nonché ovviamente gli organizzatori, ci tengano a diffondere i dati dell’ultima edizione, fra i quali ad esempio il 5% di incremento del numero dei visitatori, segnale a quanto pare di un bel successo, in particolare in un momento complessivamente non facile per il mercato. Tuttavia, per rispondere adeguatamente a chi rema contro Torino, andrebbe valutato come questo successo è stato ottenuto.
Passeggiando fra gli stand della Fiera, una delle maggiori attrazioni era la torma variopinta di scolaresche che sciamavano da un padiglione all’altro, frotte di bambini chiamati a raccolta dai quattro angoli del Nord-Ovest e scaricati nel piazzale del Lingotto. Sono «felicemente tornate in massa le scolaresche» si dice, e mi trovo a supporre che quel 5% si debba in gran parte proprio a loro. Felicemente per chi? Quanto senso può avere aumentare il numero dei biglietti staccati a colpi di gite scolastiche? Il ritorno giova alla Fiera, o alla fin fine porta acqua al mulino di vorrebbe allontanare la manifestazione da Torino?
Le fiere sono prima di tutto appuntamenti per professionisti. Nel nostro caso editori, distributori, tipografi, librai, scrittori, lettori esperti vi cercano occasioni di scambio e d’affari, informazioni e contatti, partner per nuovi progetti. E lo fanno soprattutto nei giorni feriali, quando l’ambiente permette un minimo di tranquillità nella gestione degli appuntamenti e dei colloqui, prima insomma della ressa del fine settimana, che fa senz’altro bene alla cassa ma inibisce qualsiasi altra attività. Ma è proprio nei giorni feriali che si incrociano un po’ ovunque i gruppi di alunni che vagano con sguardo smarrito fra pile di libri, del tutto incapaci di discernere se non per merito di qualche brava e volenterosa insegnante. Per non parlare di quanto accade ai bimbi delle elementari: considerando che in tutti i padiglioni le sedie degne di tale nome si contano su una mano, dopo al massimo due ore i piccoli stramazzano al suolo e il professionista li trova accampati ad ogni voltata d’angolo, mentre rosicchiano la merendina portata da casa. Uno spettacolo che a tratti commuove, ma che c’entra poco con una Fiera, non agevola chi è lì per lavorare, non si può considerare efficace ai fini di una reale educazione alla lettura.
A quell’età molti neppure sanno cosa sia veramente un editore e la sfilata di stand appare loro come una sequenza indistinta, dalla quale emergono i pochi grossi marchi, qualche nome famoso, i titoli con alle spalle il maggiore battage pubblicitario. Lì finiranno gli euro avuti dalla mamma, immolati all’acquisto di Io sono Dio di Giorgio Faletti o successi simili, libri che ha poco senso cercare in una Fiera, essendo presenti ovunque, dal supermercato alla posta. Alla fine della giostra la gran parte dei ragazzi penserà d’aver visitato niente più che una mega-libreria.
Un 5% così guadagnato non contribuisce a caratterizzare la fisionomia dell’evento e dà uno spessore solo apparente, bersaglio facile alle critiche. Non possono essere i ragazzini a salvare Torino. Come giudicare altrimenti quanto avviene alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna (e dico “per ragazzi”!) dove per entrare è necessario essere maggiorenni?

Foto: Torino - Fiera del libro #4 © Loredana Valenzano

mercoledì 17 giugno 2009

L'agente degli scrittori

In uno dei suoi disarmanti anacoluti, Forrest Gump dice: «La vita è una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita». E questo, nel bene e nel male, mi piace un sacco. Mi piace pensare a Erich Linder, eroe di guerra austriaco d’origine ebraica nato in Polonia che diventa il più potente agente letterario italiano del dopoguerra. Vero è che le vite di quegli anni sono spesso rocambolesche: quando non c’è più nulla, puoi inventarti tutto; per chi ha iniziativa, ogni strada è aperta.
Linder, grazie ai suoi contatti con l’estero, al lavoro indefesso, alle conoscenze linguistiche, all’esperienza di traduttore, impiantò in Italia un mestiere altrimenti sconosciuto, di marca anglosassone. Non a caso molti dei primi contatti sono con gli autori americani e inglesi, autori banditi dalla penisola per diverso tempo e di cui il pubblico sente, senza saperlo, la mancanza. Si legge molto, al tempo, e gli scrittori sono stelle tanto quanto gli attori del cinema. Linder intesse le trame e fa man bassa, finendo per rappresentare praticamente tutti: Arbasino, Calvino, Morante, Sciascia, per citare solo quattro fra i connazionali. Una ricca carrellata di personalità poste sotto un proiettore inusuale che illumina pretese, fissazioni, difficoltà.
Per non parlare degli editori, l’altro capo del filo, che nella seconda metà del Novecento sono quasi tutti procacciatori di cultura dall’elevato spessore intellettuale, fieramente avulsi – ma solo fino ad un certo limite – dal concetto odierno di marketing. È curioso indagare certi meccanismi, scoprire come a volte dietro ad un libro non vi sia solo la mano dell’autore. Biagi costruisce una biografia sfaccettata, a tratti troppo aneddotica e quindi arrancante, ma con spunti di rilievo. Molto il materiale inedito, forse avrebbe dovuto essere masticato più a lungo prima di pensare ad una biografia a tutto tondo, tuttavia può essere un invito per nuove ricerche: c’è ancora da scavare e riflettere. Un appunto alle citazioni nelle note: disturba un po’ che non sia riportata la città di edizione, come si fa nelle buone bibliografie. Linder avrebbe tirato le orecchie sia all’autore sia all’editore.

Dario Biagi, Il dio di carta. Vita di Erich Linder, Roma, Avagliano, 2007, pp. 204.

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Da regalare: all’appassionato di gossip letterario

martedì 2 giugno 2009

Bambini assoldati

Nella tragica e apparente irresolvibilità del conflitto arabo-israeliano, trova spazio anche la storia di un pesciolino e di uno squalo scritta nel 1997 da Gilad Shalit, un bambino di quinta elementare. Immaginate il maestro che dalla cattedra legge When the Mouse and the Snake First Met (storia tradizionale ebraica raccolta da Shelley Elkayam), poi si rivolge agli alunni e chiede loro di inventare una storia simile, una storia di due vicini che devono odiarsi per forza. La classe si mette all’opera e fra gli altri Gilad che con la fantasia si immerge in un mare grande, pericoloso, nel quale lui si sente forse come un «pesce piccolo e delicato». Nove anni dopo quello stesso bambino, soldato di leva dell’esercito israeliano, viene catturato e condotto come prigioniero nella Striscia di Gaza. I genitori di Gilad, ancora oggi in attesa del suo ritorno, si ritrovano un giorno fra le mani quella storia e non possono fare a meno di leggerci un triste presagio dell’esperienza del figlio, e ad essa tuttavia si aggrappano, volendo credere nella medesima speranza di pace.
Nasce più o meno così questo racconto semplice e lineare, genuino come lo sono le voci dei bambini. La pubblicazione originale è dovuta dall’Associazione Keren Maor, cui sono devoluti i profitti delle vendite anche dell’edizione italiana, fondata allo scopo di giungere rapidamente alla liberazione dei «figli di Israele». All’iniziativa partecipa pure l’associazione degli illustratori israeliani, con un corredo di disegni originali di mano di trenta diversi artisti. Ciascuno ha interpretato l’incontro fra pesce e squalo secondo il proprio stile, dando vita ad una galleria di variazioni grafiche stimolanti anche per i lettori più giovani.
Nello sfogliare le pagine del libro, nel guardarne le figure, è inevitabile sentirsi, perlomeno umanamente, partecipi. A quel punto la curiosità porta a cercare altre notizie, a indagare più a fondo la vicenda di Gilad, a rivolgere domande all’Associazione Keren Maor presente all’indirizzo www.habanim.org. Ed è allora che l’incanto si rompe. L’atmosfera che aleggia attorno ai testi, una certa retorica da proclama, vari elementi stonano in un racconto che vorremmo fosse solamente umano. Invece la vicenda del giovane ferito e trascinato fuori da un carro armato per essere fatto prigioniero, della favola che aveva immaginato nove anni prima, della sofferenza dei suoi cari, tutto ciò sembra passare in secondo piano. Echeggiano «l’idea di territorio sovrano, di assedio costante, di inimicizia» (rubo le parole a Giovanni Fontana, con cui a tal proposito discussi tempo fa). Improvvisamente Gilad è un simbolo, un’icona senza volto, un’altra arma di opposizione al nemico oscuro, mai direttamente nominato. Sul sito della Keren Maor c’è una preghiera: si chiede a Dio di far tornare Gilad, lo si chiede a Dio perché ormai egli non è più un semplice prigioniero di una guerra infinita, Gilad è un bambino caduto nelle tenebre del demonio, nell’antro del male. Mi spaventa il modo di cercare l’affermazione di uno Stato contro e nonostante tutti; paradossalmente si finisce per credere che qualcuno voglia fare di Gilad un martire per forza, come se la sua sorte, in realtà, non importasse più. Ma per fortuna i bambini, mentre ascolteranno dell’amicizia fra lo squalo e il pesciolino, di tutto ciò non sapranno nulla; e rimarrà viva l’intenzione che mosse Aviva e Noam Shalit nel trascrivere quella storia dal vecchio quaderno: riportare a casa loro figlio.

Gilad Shalit, Quando il pesciolino e lo squalo s’incontrarono per la prima volta, Firenze, La Giuntina, 2008, pp. 48.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: ad un bambino (senza provare a spiegare)

sabato 23 maggio 2009

Il buon recensore

Succede, a volte, di incappare in parole scritte da altri per altri che all'istante percepiamo invece come assolutamente nostre. Ce ne appropriamo senza pudore, magari sorridiamo idealmente all'autore a mo' di ringraziamento, allunghiamo una mano nel vuoto come a dire "non dovevi disturbarti...".
Ho provato tale sensazione leggendo, nel Domenicale del «Sole 24 Ore» del 26 aprile 2009, l'articolo di Alvar González-Palacios: «La critica d'arte – dico la critica, non la storia – sta finendo di esistere in buona parte del mondo civile non esclusa l'Italia. Sembra che i recensori di libri o di mostre non abbiano più il tempo di leggere e di vedere, e perlopiù si limitino a riassunti diligenti, a volte banali, di quel che dovrebbero vedere e leggere».
Peccando di immodestia, ritengo che ilVoltaPagine stia ingaggiando la sua minima battaglia per tenere fede al primo comandamento del buon recensore: leggere. Immergersi nella lettura lasciando da parte ogni possibile distrazione: ciò che si dice dell'autore, la quarta di copertina, la fama dell'editore, il battage pubblicitario, il parere "esperto", il sentir comune..., e arrivare a mettere sulla carta le sensazioni, le atmosfere, buone o cattive, con tutta la libertà possibile. La pratica richiede dedizione e implica il concreto rischio di far sorgere antipatie (spero di non arrivare mai a dover dire odi), ma questo è lo scotto da pagare per il buon recensore. Alla fine l'unica vera preoccupazione del VoltaPagine è la soddisfazione dei suoi lettori; auspicando che prossimamente fra essi vi sia anche Alvar González-Palacios.

Foto: Letter writing is a dying art © Linda Cronin

venerdì 22 maggio 2009

Le sirene del manager

La porta di casa è diversa da tutte le altre, è l’unica che ha sempre qualcuno dietro pronto ad aprire quando bussi. Dopo una vita vissuta sempre a cento all’ora, a nuotare fra gli squali, che altro può volere Enrico Metz, se non tornare a casa? Inconsciamente lo capisce fin dall’inizio anche se fatica a focalizzare, ma ciò non lo turba. Il mondo vuole scuotere l’ex rampante avvocato, lo pungola, lo provoca, eppure lui sa rimanere indifferente alle tante sirene che gli nuotano attorno. Si accontenta di camminare senza meta sotto i portici di una città sonnacchiosa; di picchiettare la terra attorno ad una ortensia; di addormentarsi la sera sul divano. Finalmente ai sensi di Enrico Metz tutto arriva a piccole dosi.
Da lettori smaniosi di storie sarete indispettiti da Metz che nulla coglie e niente fa, che scaccia lontano qualunque evento. Vi chiederete perplessi dove voglia condurvi, ma già in quell’istante le lievi spire vi avranno avvolto e sarete dentro, oramai incuranti del senso, coinvolti nella dolce apatia, nella soddisfazione dei minimi gesti. Il sottile filo del racconto si srotola fluido, senza picchi, eppure senza che la tensione cali. Tutto è retto dalle tante donne che con il loro affetto circondano Enrico Metz nella sua incipiente senilità; egli pare poterle amare tutte e placidamente lasciarsi amare. Così resta nella bocca la saliva impastata di un sonno che si fa sempre più lungo e porta con sé un retrogusto sospeso fra il dolce e l’amaro; quasi a far venire voglia d’invecchiare.

Claudio Piersanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Milano, Feltrinelli, 2006.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: allo zio che non si decide ad andare in pensione

sabato 16 maggio 2009

Toppare la traduzione


I jeans con lo strappo sono meno di moda ma, in questi tempi di crisi, di buttarli non se ne parla neppure, l'unica alternativa logica sembra davvero l'applicazione di una toppa. Mia figlia, ancora piccola, non protesta ma coglie l'occasione per avanzare una richiesta: va bene la toppa, ma con le Winx! La ricerca si rivela abbastanza facile, ormai il marketing aggredisce ogni tipo di prodotto (a quando lo sturalavandini di Dragon Ball?). Insomma eccomi qui con in mano la toppa termoadesiva delle Winx, assolutamente ignaro della barriera linguistica che sta per frapporsi fra me e la corretta applicazione della toppa.
Tutto ha inizio con la lettura delle istruzioni. Ci sono in spagnolo, inglese, francese e italiano, ovviamente mi affido a quest'ultimo, piccandomi di poterlo decifrare, ma mi sbaglio di grosso. Ecco cosa leggo (non modifico né taglio nulla, giuro): «Attaccare la parte nel luogo desiderato / Passare la piastra attraverso tutta la parte durante i 10 secondi / Ha riparato la parte per rivestire di ferro dal misfortune durante i 30 secondi / Per non usare l'articolo fino a che non sia completamente fredda / Ammesso che i giorni spesi uno aumenta, poco calore li ha applicati. Insistere ancora con la piastra / Abbiamo suggerito non lavarci in asciutto / Per non rivestire di ferro al vapore».
Ora mi chiedo: fra non tradurre e tradurre in tal modo, qual è la soluzione più sensata? Francamente preferirei vedere la mia lingua ignorata, piuttosto che bistrattata in maniera così palese. La cattiva abitudine di sottovalutare il lavoro del traduttore, affidandosi a non professionisti improvvisati (o addirittura agli ancora comici traduttori automatici), produce effetti ridicoli, a volte anche in pubblicazioni più serie e meno "volatili". Un lettore esigente sa bene quanto fastidioso sia ritrovarsi fra le mani un libro tradotto malamente, zeppo di imprecisioni, di riferimenti mancati, di frasi claudicanti. Dopo qualche pagina l'istinto è quello di servirsene per usi non ortodossi, in particolare avendo a disposizione un caminetto.
Mia figlia mi tira una manica: «è pronta la toppa?». Io la guardo perplesso. Quasi quasi è meglio lo strappo.

Foto: Another Jeans Shot © bdgamer

domenica 3 maggio 2009

Il duello dei liquidi

L’acquasanta e lo sperma sono liquidi salvifici per l’umanità: la prima, marmorea e cristallina, la preserva dalla dannazione; il secondo, appassionato e vischioso, le assicura un domani. Tuttavia, pur stando idealmente dalla stessa parte, i due liquidi rappresentano perfettamente la lotta incessante e inevitabile che nell’essere umano contrappone il lato evoluto, costituito da sovrastrutture complesse di fede e pensiero, e il lato primordiale, che è istinto puro sottratto ad ogni razionalità. Negli Esercizi materiali di Domenico Loddo lo scontro è epico ed epocale, e l’autore ci forza a scegliere per chi parteggiare, tifando peraltro in modo spudorato per l'impulso vitale intrattenibile che non conosce limiti (non può farlo: l'alternativa sarebbe la morte), e suggerendo di non sottoporsi ad insegnamenti e regole sentiti quasi sempre come imposizioni cupe e oscurantiste. Pare proprio che la Chiesa abbia inflitto all’autore delle offese mortali, per reagire alle quali egli non possa far altro che venirle in faccia. L'antagonista, si badi bene, è proprio la Chiesa, e non Gesù di Nazareth, figura che si intuisce invece ammirata, né Dio, a cui al contrario Loddo vuole «un gran bene, anche se so che un giorno io sarò la sua vittima sacrificale e lui il mio feroce assassino» (p. 19).
Nella bagarre si confrontano morte, rabbia, violenza, mescolate una all’altra con leggerezza disarmante, con un’ironia beffarda che non risparmia niente e nessuno, nemmeno lo stesso autore. Ecco il grande vantaggio di Loddo: non si prende sul serio, deride le sue storie più tragiche, e ciò gli dona una grande libertà, gli consente di dare sfogo ad ogni intuizione, ad ogni pensiero imprevisto, correndo così il rischio – e a volte pagandone le conseguenze – di un passo più lungo della gamba. La disomogeneità di questa raccolta di racconti brevi, brevissimi, alterna garbate piccole perle (Il custode dei venti) a superflui virtuosismi (La parola innamorata), a storie inconsistenti (L’innocenza). Un libro schizofrenico, con lampi di genio, da cui si sarebbe potuto scartare qualcosa o si sarebbe potuto attendere per aggiungere dell’altro.
L’afflato di fondo è quello di una ricerca simil-filosofica, che trova i suoi punti di svolta nei personaggi femminili: donne senza via di mezzo, materne puttane e mogli tiranniche, sempre eccessive, a partire dalle rotondità di seni e cosce. In esse ritorna il cinico gioco del dare e del togliere la vita. Alla fine rimangono delle urgenze teleologiche verso le quali ogni risposta appare deficitaria e che producono un costante aumento del senso di solitudine interiore. Fino al punto di dire Ho perso la testa (ma sto bene anche senza). E non è un caso se sia di Domenico Loddo uno degli aforismi più intensi e amari sul senso del nostro essere: «Non si viene nella vita per guadagnare qualcosa, ma solo per smarrire tutto poco a poco».

Domenico Loddo, Esercizi materiali. Letture per sale da tè, d'attesa e da bagno, Ravagnese (RC), Città del Sole, 2007.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: all’ex insegnante di catechismo

giovedì 30 aprile 2009

La cafoneria della Frecciarossa

Dai tempi della Napoli-Portici, il treno è uno dei luoghi prediletti del lettore. Viaggiare su rotaia e sfogliare le pagine mentre i paesaggi si susseguono oltre il vetro, è un piacere difficile da non apprezzare. Per tale ragione non posso esimermi dall'esprimere un giudizio sul neonato fiore all'occhiello fra i mezzi ferroviari italici, la Frecciarossa. Scrivo in questo momento poggiandomi su uno dei suoi tavolini ripiegabili, nonché sfruttando la provvidenziale presa di alimentazione (le batterie durano sempre meno di quanto si vorrebbe o ci promettono). Il treno ha un giusto grado di ballonzolamento, niente di tragico, e la pressione nelle orecchie non è eccessiva, si può leggere senza rischi di mal di viaggio. Per la verità la differenza rispetto all'Eurostar è appena evidente, forse una fermata in meno, forse un biglietto un po' più caro, forse un quarto d'ora risparmiato, le carrozze mi sembrano le stesse. Insomma nessun salto di qualità utile a giustificare tutte queste righe. Se non fosse che rilevo una novità nei messaggi, in genere diffusi ad un volume quasi molesto, che annunciano l'apertura del bar o il pranzo servito nella carrozza ristorante. Non mi era infatti mai capitato di dover ascoltare un messaggio dedicato ai soli viaggiatori di prima classe, nel quale si elencano le delizie (una per una!) che quei pochi fortunati stanno per godere: biscotti, salatini, giornali, tè, caffè, spumante (con tanto di marca)..., tutto ovviamente compreso nel prezzo. Io fisso il mio tramezzino incartato comprato in stazione e mi chiedo perché la mia lettura debba essere interrotta da una voce che mi lusinga con prelibatezze a me negate. Stanno provando a farmi gola? I due inglesi vicino a me, visto che il messaggio è poi ripetuto anche nella loro lingua (nessuno sia escluso!), ridacchiano fra loro commentando qualcosa sulla suddivisione in classi. A me torna in mente quello che cantava De Gregori: «a noi cafoni ci hanno sempre chiamati...».

Post scriptum: la responsabilità diretta dell'annuncio potrebbe essere in realtà non di Trenitalia, ma di Chef Express, la società che gestisce bar e ristoranti nelle carrozze e che fa parte di Cremonini, un gruppo industriale per il quale la cafonaggine potrebbe essere solo uno - e neppure il peggiore - dei difetti. [27 giugno '09]

Foto: Freccia Rossa rel. 2 - from Milano Central Station © Clodhead

martedì 21 aprile 2009

L'uomo che cerca

Ci sono ingranaggi immensi sopra le nostre teste, ruote dentate grandi come Stati che stridono e stritolano, evidentemente manovrate da entità superiori, sfuggenti, intoccabili, contro le quali nulla è possibile. Eppure - a rifletterci siamo costretti ad ammetterlo - eppure quando fanno affondare una nave carica di rifiuti tossici, persino queste entità così potenti hanno bisogno dell’aiuto di tanti minimi esecutori, di singoli uomini che diano una piccola spinta all’ingranaggio. Allora è facile immaginare un portuale a La Spezia che osserva caricare la stiva, un impiegato della dogana che firma delicate autorizzazioni, un trasportatore che non si fa troppe domande, un marconista che finge di non capire certi messaggi, un capitano già pronto a lanciare l’SOS per una nave ancora attraccata, un armatore che quella nave non la sente più sua... Ognuno contribuisce con una piccola spinta, e la somma di esse costringe lo scafo mugghiante sott’acqua. O almeno così loro vorrebbero. Ma la nave si oppone, lotta disperata per non affondare, si appella ad una qualche legge d’Archimede e alla fine ce la fa, si spiaggia sulla costa calabrese come una balena morente.
Quello scafo inclinato nella sabbia solleva molte domande e a raccoglierle è pronto un altro uomo, ignaro della dannata matassa in cui si sta per infilare. Lucarelli ama seguire le orme di uomini travolti da vicende torbide e sempre troppo grandi per due sole spalle. Stavolta tocca al capitano di corvetta Natale De Grazia. Per raccontare la sua storia, purtroppo, non serve inventare nulla, bastano ritagli di giornale ed estratti da documenti ufficiali, basta mettere in fila i "fatti". Ciascuna frase potrebbe essere l’ultima, conchiusa e in sé innocua, sotto la penna di Lucarelli, ma la catena degli eventi viene di continuo riaperta, basta un dubbio, un avverbio, e tutto si rimette in discussione. È il modo caratteristico di rappresentare un mondo criminale fluido, sfuggente a qualsiasi tentativo di ingabbiamento. Per non smarrirsi meglio rimanere ai fatti, appunto, fatti nudi e crudi, ma affiancati uno all’altro con accortezza, sollevando così un nugolo di sospetti. Lucarelli non punta il dito, non accusa apertamente nessuno, ma lascia al lettore gli elementi necessari per poterlo fare. Dà tutti gli indizi senza svelare il mistero: quando si passa dalla fiction alla cronaca, si diventa giallisti al contrario.
Il capitano di corvetta Natale De Grazia è l’uomo che cerca. Colui che non si accontenta delle verità preconfezionate, che non sa far tacere la propria coscienza, che ascolta le domande della nave e per avere delle risposte ci gioca sopra tutta la sua vita. In questo racconto di “fatti” altri nomi noti vengono a galla, come quello di Ilaria Alpi, e con essi la memoria di vicende tristi non ancora chiarite. Navi a perdere non si cura di dare un quadro chiaro e completo, non ha tutte le risposte da calare come un poker alla pagina finale, semplicemente ci ricorda la necessità di tenere viva l’attenzione civile perché «gli uomini che cercano, finché continuiamo a farci le loro domande, non muoiono mai» (p. 102).

Carlo Lucarelli, Navi a perdere, Milano, Edizioni Ambiente, 2008, pp. 124.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi per pigrizia si oppone alla raccolta differenziata

domenica 5 aprile 2009

Parole ed eserciti

La politica italiana offre spesso spettacoli desolanti relativamente all’uso delle parole: affermazioni approssimative e fuorvianti, frasi azzannate dall’ovvietà e dal vacuo, sentenze esemplari che alla resa dei conti si contraddicono da sole. Pensare che la politica dovrebbe essere il sancta sanctorum delle parole, il luogo dedicato all’arte oratoria, l’ambito in cui discorso e racconto dovrebbero assumersi il compito fondamentale di dare una forma comprensibile al presente e di tratteggiare un’immagine del futuro, per­met­tendoci così di comprendere chi siamo oggi e quali possibilità vengono offerte al nostro domani.
Grande attenzione ha attirato su di sé Debora Serracchiani alla recente assemblea dei circoli del PD, con un intervento che, nella sua sostanza e per candida ammissione della stessa Serracchiani, non era nulla di memorabile. Diceva tutte cose poco più che ovvie e con grande semplicità, senza una particolare vis retorica. Però le diceva, evidentemente differenziandosi da molti altri colleghi di partito abituati a rigirare le parole senza dare loro il giusto posto e il giusto peso. Sull’altro fronte Silvio Berlusconi – personalità spesso in aperto conflitto con le parole, sue e degli altri – ha oramai istituzionalizzato la pratica dello smentire, che altro non è se non una versione aggiornata del classico “sasso lanciato, mano nascosta”. Ma lo stillicidio di fraintendimenti al quale il Cavaliere pare condannato si realizza nella sostanza tramite una costante imprecisione nell’uso delle parole (voluta o involontaria? Questa è un’altra faccenda).
Parole povere da un lato, parole imperfette dall’altro, mentre sempre più pressante si fa la convinzione di quanto sarebbe bello se la politica sapesse illuminare i discorsi e le pagine come fa una tenda scostata d’improvviso in un giorno d’estate; di quanto sarebbe giusto tacere quando non si ha nulla di vero da dire, tacere piuttosto che parlare solo per intorbidire le acque. Sarebbe tempo di prendere la responsabilità sia di ciò che si dice, sia di ciò che non si dice; sarebbe tempo di considerare che orecchie abituate a parole inconcludenti alla lunga divengono sorde, e orecchie colpite da parole improvvide, spesso non si curano di cogliere le successive smentite. La colpa è grave poiché – oltre a svelare una mancanza di rispetto per la parola, il primo strumento della politica – dimostra una colpevole ignoranza del potere che le parole possono avere sulle persone. Chi ha un ruolo istituzionale, nel momento in cui fa una dichiarazione o pubblica un testo, non dovrebbe mai scordare quanto diceva Paolo Sarpi: «La materia dei libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati».
Da lettore esigente mi viene naturale chiedere che le parole siano usate “bene”, ma non si tratta solamente dello sfizio di un pignolo, in gioco ci sono questioni ben più importanti. Se iniziamo a confondere le parole, finiremo per confondere i fatti, e alla resa dei conti il bene e il male saranno la stessa cosa. Peggio per voi se sarete dalla parte sbagliata.

Foto: Truppe italiane sotto la cattedrale di Asmara nel 1935 © Sauro911

lunedì 30 marzo 2009

Sulla durata dell'amore

Gli anziani sono protetti da una scorza, indurita dal tempo, contro la quale le domande rimbalzano deviate lontano. Verrebbe da insistere, perché si sa che dietro la pelle rugosa c’è una vita lunga, ci sono personaggi, ci sono storie; ma a volte è davvero difficile aprire una breccia in quella scorza. Il silenzio dei vecchi oppone una strenua resistenza, per ritrosia, per stanchezza, o per il conquistato gusto del tacere. Bisogna essere spinti dalla più impellente curiosità per arrivare a conoscere i sogni lontani di una donna nel declino, ancora aggraziata da una bellezza antica, che passa i giorni perdendo lo sguardo sul mare di Ostenda.
La narrazione piana e senza scossoni di Schmitt ci conduce a conoscere il cuore nascosto di Emma Van A., le sue emozioni non sopite oltre l’involucro della vecchiaia, il suo erotismo vivace, ancora malizioso, eppur sempre garbato. Diversamente da quanto accade in Mal di pietre di Milena Agus, dove le parentesi di inattesa sessualità risultano quasi sempre dissonanti, forzate in un tono complessivo che mal le sopporta. Il parallelo ha un senso, poiché La sognatrice di Ostenda è un racconto che condivide varie affinità con Mal di pietre, si potrebbe anzi dire raccontino nella sostanza la medesima storia. Un uomo del passato, ricordi frammentati come puzzle, indizi lasciati da una donna anziana che fino alla fine non si comprende se stia ingannando gli altri o sé stessa. Senza voler andare a caccia di plagi (non è questo l’intento) può essere interessante osservare come il punto di vista e lo stile possano prendere una stessa trama e farne due libri molto diversi.
La letteratura si basa sulla menzogna, ammette Schmitt (p. 75), «i racconti che non si nutrono di realtà ma di fantasticherie, di scene auspicate, di desideri abortiti, di brame ripetute mi danno molto di più che i fatti veri». La menzogna e l’amore che vanno a braccetto, giocano a rimpiattino fra loro, si inseguono, si prendono, si annullano una nell’altro. Nel buio di un cinema, smarrito a Revolutionary road, ho sentito dire che in amore, col tempo, si impara solo a mentire meglio. Tutta questa amara consapevolezza non vince con la sognatrice di Ostenda, non c’è nessuna dissoluzione pessimistica, la bugia non affoga l’amore, serve piuttosto a preservarlo dal male del mondo: nel buio che sale, una piccola luce rimane sempre accesa.
Di tali piccole luci parlano i cinque racconti che compongono il libro: di un amore per la gran parte solo sognato, ma tenace oltre la morte; di un amore così bello da non poter durare; di un amore nato per sacrificarsi alla vita... Di fronte alla fiducia incondizionata concessa da Schmitt all’amore, alla fine siamo persino disposti a lasciarci convincere che non bisogna essere gelosi, «perché ogni relazione è unica e irripetibile» (p. 153), e gli perdoniamo lo scarso spessore dell’ultimo racconto (La donna con il bouquet), se non altro perché, in quell’attesa oltre ogni ragionevolezza, riconosciamo la comune e inevitabile sudditanza alla sublimità dell’amore.

Eric-Emmanuel Schmitt, La sognatrice di Ostenda, Roma, e/o, 2008, pp. 208.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al disincantato avvocato divorzista

mercoledì 18 marzo 2009

Squilibrato

Mi figuro i lettori di Antonio D’Orrico come gli adepti di una setta che ogni giovedì sosta davanti ad un’edicola (non votiva) in attesa di una illuminazione. Si fidano ciecamente, accolgono il consiglio di lettura come fosse un precetto per il sabato ebraico o una sura del Corano. Sono lettori in affannosa ricerca di certezze: non chiedono spiegazioni, vogliono risposte. Non stupisce perciò siano dogmi quelli che il nostro si premura di far calare dall’alto della sua rubrica sul Corriere Magazine. Prendiamo, a titolo d’esempio, la recensione al romanzo Almeno il cappello di Andrea Vitali (nr. 9, 5 marzo 2009, pp. 102-103). Bastano due brevi citazioni, una relativa all’autore («non è un grande scrittore. È un grandissimo scrittore») e una riferita all’opera («è il romanzo perfetto»), per farmi sobbalzare. Tale sicurezza tutta stondata, senza possibilità di replica, mi rende sospettoso. So già che leggerei il libro con lo spirito del vivisezionatore, a caccia di una qualche imperfezione solo per una malsana, lo ammetto, soddisfazione personale. Solo per il gusto di imbrattare – è pura invidia, lo ammetto di nuovo – il lindo ritratto, troppo «perfetto». Ah, non c’è niente di meglio di una massiccia dose di great expectations per rovinare qualcosa. Insomma non leggerò. E mi spiace per Vitali, ma soprattutto perché si scopre caricato di una responsabilità inattesa: riuscirà in futuro a dimostrare ancora d’essere un grandissimo scrittore? Avrà il coraggio di rimettere mano alla penna dopo cotanto capolavoro? Ma in fondo sono problemi suoi. Beati noi che leggiamo D’Orrico, perché troveremo il libro perfetto.

Foto:
Caduta © Francesco C.