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mercoledì 18 gennaio 2012

Per provare a capirci qualcosa

«...tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari...». Due anni fa litigavo al telefono con un amico riguardo le effettive possibilità d’incidere positivamente (di ‘incisioni’ negative quante se ne vuole) nella vita dei ragazzi per un(’)insegnante decente che, per definizione, è portatore di un sistema di valori minoritario in seno alla società e in confronto ai grandi media (pubblicità incluse). Valori che – non tutti, diciamolo – sono proprio necessari alla formazione di un cittadino consapevole. Io mi battevo per il , lui ostinatamente per il no e, a sostegno della sua tesi, mi invitò a leggere questo libro.
Leggendolo sono rimasta della mia idea e l’ho rafforzata. Ma andiamo con ordine: di cosa si parla in I barbari? Nientepopodimenoché della mutazione culturale in atto nel mondo occidentale a partire, grossomodo, dal dopoguerra. Ora, Baricco può anche non piacere: è antipatico e i suoi romanzi, in alcuni, ispirano il lancio sul muro non oltre la decima riga, ma questo volume – una raccolta di articoli usciti su «Repubblica» fra maggio e ottobre 2006 – non si può non trovarlo molto interessante – anche non condividendone tesi e impostazione.
È norma parlare di questa mutazione culturale occupandosi di singoli aspetti, di evenienze isolate: grandi librerie, fast-food, reality show, politica in televisione, ragazzini che non leggono, ecc. Baricco invece propone un’analisi organica e approfondita, con lo scopo dichiarato di scuotere chi di dovere – politici, artisti, insegnanti, custodi della cultura, divulgatori, ma anche semplici cittadini – dalla superificialità delle chiacchiere da bar, dalla paralisi, dall’isolamento, dalla tentazione di erigere muraglie che a nulla servono e sono mai servite (se non a dare l’illusione a chi le erige di salvaguardare la propria identità), per cercare di «decidere cosa del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo (...) I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo sentire ancora pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione...».
Baricco ha un’opinione precisa sia di quali siano i tratti distintivi della mutazione sia delle sue cause, e sceglie un  metodo di presentazione delle sue tesi che sembra seguire i passi classici del metodo scientifico: osservazione, stesura di una tesi provvisoria, verifica sperimentale (mediante esperimenti mentali: vale!) e – a seguito della conferma sperimentale – sistemazione della tesi stessa e suo utilizzo per interpretare altri fenomeni. Il saggio è suddiviso in: Inizio; Epigrafi; Saccheggi (effetti ‘visibili’ della mutazione e modus operandi dei barbari. In particolare riguardo: vini, calcio e libri. Se e come è mutato il concetto di qualità, in particolare in relazione alla commercializzazione); Respirare con le branchie di Google (Google come summa del sistema valoriale dei barbari; ritratto dei mutanti e delle loro caratteristiche principali; come sono mutati i concetti di idea e di esperienza); Perdere l’anima (genesi storico sociale della mutazione; nascita e morte dei ‘valori’ borghesi); Ritratti (i barbari a confronto con: spettacolarità, nostalgia, passato, democrazia, autenticità, educazione); Epilogo.
Alcuni degli aspetti della mutazione che non possono essere liquidati con uno storcer di bocca: smettere di considerare la fatica un valore in sé, piuttosto che un mero effetto collaterale dell’impegno, del perseguire un obiettivo che ci sta a cuore; riconsiderare il rapporto piacere-fatica; smettere di avvertire l’esigenza di concetti quali l’anima o la spiritualità [magari...]; prestare maggiore attenzione al processo che al prodotto; spostare l’attenzione dall’artista – in senso lato – al fruitore (molto interessante considerare questo spostamento in seno alla didattica: sono 40 anni che se ne parla ma alcuni insegnanti ancora non se ne sono accorti!); cercare correlazioni fra cose e concetti piuttosto che ambire a specializzarsi in un unico ambito; «...insegu[ir]e il senso là dov’è vivo...».
«È il paradosso che denunciano gli sguardi smarriti dei ragazzi a scuola: hanno bisogno di senso, di semplice senso della vita, e sono disposti anche ad ammettere che Dante, per dire, glielo fornirebbe: ma se il cammino da fare è così lungo, e così faticoso, e così poco congeniale alle loro abilità, chi gli assicura che non moriranno per strada, senza arrivare mai alla meta...?». Chi trova una risposta facile alla domanda precedente, non si rende conto della portata dell’intera faccenda...
La scuola è infatti uno degli attori della battaglia culturale in atto e non può e non deve tirarsi indietro rispetto al proprio compito. Compito che consiste, come per gli altri attori, nel determinare quali fra le istanze del ‘nemico’ accogliere, su quali cercare una mediazione, quali rifiutare sdegnosamente. Esponenti di rilievo della ricerca in didattica (della matematica, almeno) non fanno che confrontarsi su queste questioni. E alcuni senza neanche averlo letto, il saggio di Baricco.
(post di Alessandra Angelucci)

Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano, Feltrinelli, 2008

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a tutti coloro che non si chiamano fuori

mercoledì 12 ottobre 2011

Come toccare il fondo, ridendoci su

Ad un certo punto uno accende il televisore e sente dire, testuale: «Più in alto vuoi andare, più devi passare sui cadaveri (…) chi è onesto non fa il business (…) se vuoi guadagnare devi scendere in campo e vendere tua madre». La conclusione poi, è magistrale: «… ed è giusto sia così». A parlare è la escort Terry De Nicolò, colei che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo trovando il coraggio di sollevare i veli sull’ipocrisia. Perché uno sente dire queste cose e pensa fra sé: «Finalmente ci siamo arrivati, finalmente abbiamo di fronte l’esito estremo e inevitabile dell’accettare tutto un sistema di cose». Ora la letteratura – come spesso accade – riesce a indovinare il futuro, soprattutto perché non ha paura di eccedere, di inseguire l’inverosimile; un inverosimile che un po’ alla volta, in qualche caso, diventa persino troppo vero.
Che la festa cominci è un susseguirsi di scene e vicende volutamente oltre il limite del sensato,  un racconto rocambolesco come non t’aspetteresti da Ammaniti, e che strappa ancor più qualche applauso. Solo tentare di descrivere i protagonisti basta ad introdurci in un mondo comico e surreale: da un lato un satanista all’amatriciana, Saverio Moneta detto Mantos, dall’altro Fabrizio Ciba, uno scritttore-vip dilaniato dal dilemma se ritirarsi in una torre d’avorio alla J. D. Salinger o tuffarsi del marasma del bel vivere sulle orme di Briatore. Entrambi si soffermano pensosi, a tratti, provocando riflessioni come la seguente: «Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico. Se non esistono più regole etiche ed estetiche le figure di merda decadono di conseguenza» (p. 187)
Il luogo dell’azione è simbolico, Villa Ada, uno dei parchi pubblici più noti di Roma, nella finzione divenuto giardino privato di uno schifosamente ricco palazzinaro, una sorta – ma sì, inutile nascondersi – di proiezione capitolina della tenuta di Arcore, con annessi e connessi all’ennesima potenza. Viene organizzata una grande festa a cui “non si può mancare”, con un’imperdibile sfilata di gente quasi totalmente inutile, buona appena ad esibirsi seminuda sulle copertine dei rotocalchi. Ma deve essere, nelle intenzioni dell’organizzatore, una faccenda enorme e memorabile, qualcosa da raccontare a figli e nipoti, la festa del secolo. La grandeur è spinta tanto oltre che, alla fine, tutto sfugge di mano e crolla rovinosamente, trascinando gli invitati, ‘crema’ della società occidentale, ad un livello di indicibile bestialità. Questa grande sarabanda, questo circo irrefrenabile, e soprattutto l’epilogo della vicenda, rappresentano forse la tabula rasa dei valori del nostro tempo? Forse. Tuttavia rimane il sospetto che il peggio non sia un dato oggettivo, quanto piuttosto un grottesco ripiego all’amarezza della solitudine, alla pena per l’amore mancato, sensazioni di cui tutti i personaggi (tutti noi?) sembrano soffrire.
Uomini e donne affondano nel fango sotto il peso dello sfoggio, sino a trasformarsi paradossalmente in ciò che erano quando vivevano in uno stato primitivo, anzi uno dei leit-motiv della serata è proprio la caccia, d’ogni tipo, dalla volpe alla tigre, fino anche all’uomo. Eppure, quella che sembra la definitiva pietra tombale di una società civile, potrebbe essere – suggerisce Ammaniti – ‘solo’ il necessario purgatorio per una nuova migliore età. C'è da sperarlo, anche se, ad ascoltare Terry De Nicolò...

Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Torino, Einaudi, 2009.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: all'aspirante velina