lunedì 30 marzo 2009

Sulla durata dell'amore

Gli anziani sono protetti da una scorza, indurita dal tempo, contro la quale le domande rimbalzano deviate lontano. Verrebbe da insistere, perché si sa che dietro la pelle rugosa c’è una vita lunga, ci sono personaggi, ci sono storie; ma a volte è davvero difficile aprire una breccia in quella scorza. Il silenzio dei vecchi oppone una strenua resistenza, per ritrosia, per stanchezza, o per il conquistato gusto del tacere. Bisogna essere spinti dalla più impellente curiosità per arrivare a conoscere i sogni lontani di una donna nel declino, ancora aggraziata da una bellezza antica, che passa i giorni perdendo lo sguardo sul mare di Ostenda.
La narrazione piana e senza scossoni di Schmitt ci conduce a conoscere il cuore nascosto di Emma Van A., le sue emozioni non sopite oltre l’involucro della vecchiaia, il suo erotismo vivace, ancora malizioso, eppur sempre garbato. Diversamente da quanto accade in Mal di pietre di Milena Agus, dove le parentesi di inattesa sessualità risultano quasi sempre dissonanti, forzate in un tono complessivo che mal le sopporta. Il parallelo ha un senso, poiché La sognatrice di Ostenda è un racconto che condivide varie affinità con Mal di pietre, si potrebbe anzi dire raccontino nella sostanza la medesima storia. Un uomo del passato, ricordi frammentati come puzzle, indizi lasciati da una donna anziana che fino alla fine non si comprende se stia ingannando gli altri o sé stessa. Senza voler andare a caccia di plagi (non è questo l’intento) può essere interessante osservare come il punto di vista e lo stile possano prendere una stessa trama e farne due libri molto diversi.
La letteratura si basa sulla menzogna, ammette Schmitt (p. 75), «i racconti che non si nutrono di realtà ma di fantasticherie, di scene auspicate, di desideri abortiti, di brame ripetute mi danno molto di più che i fatti veri». La menzogna e l’amore che vanno a braccetto, giocano a rimpiattino fra loro, si inseguono, si prendono, si annullano una nell’altro. Nel buio di un cinema, smarrito a Revolutionary road, ho sentito dire che in amore, col tempo, si impara solo a mentire meglio. Tutta questa amara consapevolezza non vince con la sognatrice di Ostenda, non c’è nessuna dissoluzione pessimistica, la bugia non affoga l’amore, serve piuttosto a preservarlo dal male del mondo: nel buio che sale, una piccola luce rimane sempre accesa.
Di tali piccole luci parlano i cinque racconti che compongono il libro: di un amore per la gran parte solo sognato, ma tenace oltre la morte; di un amore così bello da non poter durare; di un amore nato per sacrificarsi alla vita... Di fronte alla fiducia incondizionata concessa da Schmitt all’amore, alla fine siamo persino disposti a lasciarci convincere che non bisogna essere gelosi, «perché ogni relazione è unica e irripetibile» (p. 153), e gli perdoniamo lo scarso spessore dell’ultimo racconto (La donna con il bouquet), se non altro perché, in quell’attesa oltre ogni ragionevolezza, riconosciamo la comune e inevitabile sudditanza alla sublimità dell’amore.

Eric-Emmanuel Schmitt, La sognatrice di Ostenda, Roma, e/o, 2008, pp. 208.

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Da regalare: al disincantato avvocato divorzista

mercoledì 18 marzo 2009

Squilibrato

Mi figuro i lettori di Antonio D’Orrico come gli adepti di una setta che ogni giovedì sosta davanti ad un’edicola (non votiva) in attesa di una illuminazione. Si fidano ciecamente, accolgono il consiglio di lettura come fosse un precetto per il sabato ebraico o una sura del Corano. Sono lettori in affannosa ricerca di certezze: non chiedono spiegazioni, vogliono risposte. Non stupisce perciò siano dogmi quelli che il nostro si premura di far calare dall’alto della sua rubrica sul Corriere Magazine. Prendiamo, a titolo d’esempio, la recensione al romanzo Almeno il cappello di Andrea Vitali (nr. 9, 5 marzo 2009, pp. 102-103). Bastano due brevi citazioni, una relativa all’autore («non è un grande scrittore. È un grandissimo scrittore») e una riferita all’opera («è il romanzo perfetto»), per farmi sobbalzare. Tale sicurezza tutta stondata, senza possibilità di replica, mi rende sospettoso. So già che leggerei il libro con lo spirito del vivisezionatore, a caccia di una qualche imperfezione solo per una malsana, lo ammetto, soddisfazione personale. Solo per il gusto di imbrattare – è pura invidia, lo ammetto di nuovo – il lindo ritratto, troppo «perfetto». Ah, non c’è niente di meglio di una massiccia dose di great expectations per rovinare qualcosa. Insomma non leggerò. E mi spiace per Vitali, ma soprattutto perché si scopre caricato di una responsabilità inattesa: riuscirà in futuro a dimostrare ancora d’essere un grandissimo scrittore? Avrà il coraggio di rimettere mano alla penna dopo cotanto capolavoro? Ma in fondo sono problemi suoi. Beati noi che leggiamo D’Orrico, perché troveremo il libro perfetto.

Foto:
Caduta © Francesco C.

lunedì 16 marzo 2009

Il filo a piombo

Le pagine di De Luca si potrebbero misurare con il calibro. Persino i margini e gli a-capo paiono collocati sulla carta con l’ausilio del filo a piombo. Vengono alla mente tutte le metafore di un lavoro d’artigiano paziente, che conosce l’importanza di ogni gesto al fine d’arrivare all’opera compiuta. «Le parole sono pietre» diceva Carlo Levi, qui più che mai, perché le parole hanno peso, sono entità fisiche concrete, malleabili ma non troppo. Sono parole che hanno alle spalle una storia, una sapienza quasi biblica, e parlando di De Luca, del suo rapporto con i testi sacri, il riferimento è fin troppo facile.
Tuttavia non vi è mai pesantezza, piuttosto densità. Gli sguardi dal “pianoterra” si fermano spesso su eventi minimi, che all’occhio comune senz’altro sfuggirebbero, mentre in Pianoterra scintillano di senso e sollevano problemi universali. L’ansia di comunicare quanto conti avere una coscienza vigile, che non si lasci addormentare, che onori (dall’ebraico, dare peso) l’uomo e la vita. Pensieri, ricordi, piccole storie, disposti uno dopo l’altro senza un preciso ordine, come semi lasciati cadere nella scia dell’aratro. Qualcosa nascerà.
La speranza si azzera però, almeno in un punto (p. 44), parlando dei giovani che «docili (...) accettano, (...) nuotano in superficie e a vista della costa, indifferenti ai fondali, all’abisso che regge in controspinta la loro leggerezza». Meglio non avrei saputo dire, eppure mi intristisce incocciare nella credenza diffusa di generazioni sterili a confronto di altre; è una convinzione che da sempre mi lascia almeno dubbioso.
Inutile cercare trame, dire di cosa si parla, il succo è puro stile, scolpito nella pietra, descrizioni pungenti sino al nocciolo, ignare di qualunque fronzolo, a volte acide, a volte taglienti. Se è uno scrittore che non conoscete, probabilmente questo non è il libro ideale per avvicinare Erri De Luca; romanzi come Tre cavalli o Tu, mio farebbero meglio al caso. Queste sono invece pagine da leggere nel modo in cui si incontra un vecchio amico, condividendo del pane e una bottiglia di vino. Allora cosa ci si racconta non ha molta importanza: è il modo di raccontare che ci fa piacere ritrovare.

Erri De Luca, Pianoterra, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 104.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al volontario impegnato in zone di guerra

domenica 8 marzo 2009

Le leggerezze degli editori

Sono assillato dal dubbio che ai grandi editori non piaccia più pubblicare libri. Si inventano di tutto per sfuggire all’impegno: organizzano eventi, producono audiovisivi, collezionano gadget; e quando davvero non possono farne a meno, quando gioco forza devono mandare qualcosa in tipografia, lo fanno distrattamente, senza gusto, e il risultato ne è spesso la prova più evidente. Ho l’impressione che in molte delle case storiche dell’editoria italiana sia scemato l’entusiasmo per il libro, che si continui a produrre per inerzia e per la pagnotta – contando forse su un pubblico di lettori sempre meno esigenti? – ma di fatto pare svanita la passione per il lavoro acuto e certosino che dovrebbe stare dietro ad ogni libro.
Non saprei spiegarmi diversamente gli inciampi, le figuracce, gli imbarazzi, che sempre più di frequente i libri causano ai propri editori. Penso alle opere di Sylvia Browne su Atlantide o i Templari, pubblicate da Mondadori: devo credere che nessuno in redazione abbia percepito sul collo lo sguardo del povero Arnoldo mandando alle stampe le pagine di pseudo-scienza di un’autrice che giunge alle sue conclusioni grazie all’aiuto di uno “spirito-guida” di nome Francine? Penso a Curzio Malaparte trasformato in Maltese (e non in senso geografico) nella recente Storia europea della letteratura italiana di Einaudi a cura di Alberto Asor Rosa: possibile che nessun correttore di bozze o curatore dell’indice abbia avuto il sospetto che un pur bravo giornalista di «Repubblica» difficilmente poteva essersi già conquistato la presenza in un’opera di tal genere? Penso al tanto discusso volume Pasque di sangue di Ariel Toaff edito dal Mulino: è davvero accaduto che tutti si siano lanciati in crociate contro o in difesa del libro, e in casa editrice nessuno abbia realizzato che il problema era a monte, ovvero che il volume è inficiato da una serie quasi infinita di errori di traduzione, citazione, comprensione, tali da rendere quasi inutile discuterne le tesi esposte? Penso, a livello più generale, allo sbracamento indecente, all’esposizione di vergogne, a cui si assiste nell’imminenza dei periodi natalizio ed estivo, tali che qualunque lettore degno di questo nome vorrebbe entrare in libreria in tenuta da disinfestazione.
Oggigiorno le case editrici sono prima di tutto aziende, e il diritto di guardare al fatturato credo sia inviolabile. Ma il marketing non dovrebbe far scordare che il libro è comunque un portatore di contenuto, e che la forma esteriore, il suo lancio commerciale, non sono che orpelli. Rivoltare il fuori con il dentro, significa dimenticare che il libro rimane uno dei vettori culturali principali della nostra società, uno degli strumenti attraverso i quali i cittadini e le loro coscienze crescono e si formano. C’è una grande responsabilità dietro al pubblicare libri, una responsabilità che non dovrebbe ammettere leggerezze.

Foto:
Libri © areldos

mercoledì 4 marzo 2009

Mondi di cristallo

Il male dei nostri tempi è un’angoscia sottile, simile a ciò che si prova a camminare sull'argine di un fiume fangoso. Abbiamo variegate paure, intime e profonde, a cui spesso non sappiamo dare un volto, perché un vero volto forse non ce l’hanno. Un intruso in casa, un incidente stradale, il gesto estremo di una persona cara. Tutto terribile, scioccante, ma nell’economia delle cose. La scrittura piana ed elegante risucchia in piccoli mondi di cristallo, un attimo prima che il cristallo si infranga. Ma è un cristallo opaco, di una trasparenza avara: a Elena Varvello piace dire e non dire, alludere sempre e comunque. La letteratura è maestra in questo, tuttavia in genere, senza dire, essa dice molto; qui invece a volte il messaggio è persino troppo sfumato, come una polaroid non abbastanza asciugata. Insomma stare sul ciglio va bene, ma ogni tanto si vorrebbe essere trascinati e fare quel benedetto salto nel vuoto, sentire il cristallo infrangersi, vedere l’intruso nell’angolo buio, raccogliere i rottami dell’incidente... La sottile angoscia che senz’altro masochisticamente ci fa correre avanti, ad esempio nel racconto Vieni con me, poteva rafforzarsi in uno sviluppo più compiuto, perché il respiro c’era. Per il futuro, una sola richiesta: cerchiamo di lasciare fuori dalle pagine certi luoghi comuni... non si può davvero leggere che la tavoletta alzata è ancora motivo letterario di dissidio fra coniugi!

Elena Varvello, L’economia delle cose, Roma, Fandango, 2007, pp. 152.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: all’amica sensibile convinta che la vita ce l’abbia con lei