giovedì 30 aprile 2009

La cafoneria della Frecciarossa

Dai tempi della Napoli-Portici, il treno è uno dei luoghi prediletti del lettore. Viaggiare su rotaia e sfogliare le pagine mentre i paesaggi si susseguono oltre il vetro, è un piacere difficile da non apprezzare. Per tale ragione non posso esimermi dall'esprimere un giudizio sul neonato fiore all'occhiello fra i mezzi ferroviari italici, la Frecciarossa. Scrivo in questo momento poggiandomi su uno dei suoi tavolini ripiegabili, nonché sfruttando la provvidenziale presa di alimentazione (le batterie durano sempre meno di quanto si vorrebbe o ci promettono). Il treno ha un giusto grado di ballonzolamento, niente di tragico, e la pressione nelle orecchie non è eccessiva, si può leggere senza rischi di mal di viaggio. Per la verità la differenza rispetto all'Eurostar è appena evidente, forse una fermata in meno, forse un biglietto un po' più caro, forse un quarto d'ora risparmiato, le carrozze mi sembrano le stesse. Insomma nessun salto di qualità utile a giustificare tutte queste righe. Se non fosse che rilevo una novità nei messaggi, in genere diffusi ad un volume quasi molesto, che annunciano l'apertura del bar o il pranzo servito nella carrozza ristorante. Non mi era infatti mai capitato di dover ascoltare un messaggio dedicato ai soli viaggiatori di prima classe, nel quale si elencano le delizie (una per una!) che quei pochi fortunati stanno per godere: biscotti, salatini, giornali, tè, caffè, spumante (con tanto di marca)..., tutto ovviamente compreso nel prezzo. Io fisso il mio tramezzino incartato comprato in stazione e mi chiedo perché la mia lettura debba essere interrotta da una voce che mi lusinga con prelibatezze a me negate. Stanno provando a farmi gola? I due inglesi vicino a me, visto che il messaggio è poi ripetuto anche nella loro lingua (nessuno sia escluso!), ridacchiano fra loro commentando qualcosa sulla suddivisione in classi. A me torna in mente quello che cantava De Gregori: «a noi cafoni ci hanno sempre chiamati...».

Post scriptum: la responsabilità diretta dell'annuncio potrebbe essere in realtà non di Trenitalia, ma di Chef Express, la società che gestisce bar e ristoranti nelle carrozze e che fa parte di Cremonini, un gruppo industriale per il quale la cafonaggine potrebbe essere solo uno - e neppure il peggiore - dei difetti. [27 giugno '09]

Foto: Freccia Rossa rel. 2 - from Milano Central Station © Clodhead

martedì 21 aprile 2009

L'uomo che cerca

Ci sono ingranaggi immensi sopra le nostre teste, ruote dentate grandi come Stati che stridono e stritolano, evidentemente manovrate da entità superiori, sfuggenti, intoccabili, contro le quali nulla è possibile. Eppure - a rifletterci siamo costretti ad ammetterlo - eppure quando fanno affondare una nave carica di rifiuti tossici, persino queste entità così potenti hanno bisogno dell’aiuto di tanti minimi esecutori, di singoli uomini che diano una piccola spinta all’ingranaggio. Allora è facile immaginare un portuale a La Spezia che osserva caricare la stiva, un impiegato della dogana che firma delicate autorizzazioni, un trasportatore che non si fa troppe domande, un marconista che finge di non capire certi messaggi, un capitano già pronto a lanciare l’SOS per una nave ancora attraccata, un armatore che quella nave non la sente più sua... Ognuno contribuisce con una piccola spinta, e la somma di esse costringe lo scafo mugghiante sott’acqua. O almeno così loro vorrebbero. Ma la nave si oppone, lotta disperata per non affondare, si appella ad una qualche legge d’Archimede e alla fine ce la fa, si spiaggia sulla costa calabrese come una balena morente.
Quello scafo inclinato nella sabbia solleva molte domande e a raccoglierle è pronto un altro uomo, ignaro della dannata matassa in cui si sta per infilare. Lucarelli ama seguire le orme di uomini travolti da vicende torbide e sempre troppo grandi per due sole spalle. Stavolta tocca al capitano di corvetta Natale De Grazia. Per raccontare la sua storia, purtroppo, non serve inventare nulla, bastano ritagli di giornale ed estratti da documenti ufficiali, basta mettere in fila i "fatti". Ciascuna frase potrebbe essere l’ultima, conchiusa e in sé innocua, sotto la penna di Lucarelli, ma la catena degli eventi viene di continuo riaperta, basta un dubbio, un avverbio, e tutto si rimette in discussione. È il modo caratteristico di rappresentare un mondo criminale fluido, sfuggente a qualsiasi tentativo di ingabbiamento. Per non smarrirsi meglio rimanere ai fatti, appunto, fatti nudi e crudi, ma affiancati uno all’altro con accortezza, sollevando così un nugolo di sospetti. Lucarelli non punta il dito, non accusa apertamente nessuno, ma lascia al lettore gli elementi necessari per poterlo fare. Dà tutti gli indizi senza svelare il mistero: quando si passa dalla fiction alla cronaca, si diventa giallisti al contrario.
Il capitano di corvetta Natale De Grazia è l’uomo che cerca. Colui che non si accontenta delle verità preconfezionate, che non sa far tacere la propria coscienza, che ascolta le domande della nave e per avere delle risposte ci gioca sopra tutta la sua vita. In questo racconto di “fatti” altri nomi noti vengono a galla, come quello di Ilaria Alpi, e con essi la memoria di vicende tristi non ancora chiarite. Navi a perdere non si cura di dare un quadro chiaro e completo, non ha tutte le risposte da calare come un poker alla pagina finale, semplicemente ci ricorda la necessità di tenere viva l’attenzione civile perché «gli uomini che cercano, finché continuiamo a farci le loro domande, non muoiono mai» (p. 102).

Carlo Lucarelli, Navi a perdere, Milano, Edizioni Ambiente, 2008, pp. 124.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi per pigrizia si oppone alla raccolta differenziata

domenica 5 aprile 2009

Parole ed eserciti

La politica italiana offre spesso spettacoli desolanti relativamente all’uso delle parole: affermazioni approssimative e fuorvianti, frasi azzannate dall’ovvietà e dal vacuo, sentenze esemplari che alla resa dei conti si contraddicono da sole. Pensare che la politica dovrebbe essere il sancta sanctorum delle parole, il luogo dedicato all’arte oratoria, l’ambito in cui discorso e racconto dovrebbero assumersi il compito fondamentale di dare una forma comprensibile al presente e di tratteggiare un’immagine del futuro, per­met­tendoci così di comprendere chi siamo oggi e quali possibilità vengono offerte al nostro domani.
Grande attenzione ha attirato su di sé Debora Serracchiani alla recente assemblea dei circoli del PD, con un intervento che, nella sua sostanza e per candida ammissione della stessa Serracchiani, non era nulla di memorabile. Diceva tutte cose poco più che ovvie e con grande semplicità, senza una particolare vis retorica. Però le diceva, evidentemente differenziandosi da molti altri colleghi di partito abituati a rigirare le parole senza dare loro il giusto posto e il giusto peso. Sull’altro fronte Silvio Berlusconi – personalità spesso in aperto conflitto con le parole, sue e degli altri – ha oramai istituzionalizzato la pratica dello smentire, che altro non è se non una versione aggiornata del classico “sasso lanciato, mano nascosta”. Ma lo stillicidio di fraintendimenti al quale il Cavaliere pare condannato si realizza nella sostanza tramite una costante imprecisione nell’uso delle parole (voluta o involontaria? Questa è un’altra faccenda).
Parole povere da un lato, parole imperfette dall’altro, mentre sempre più pressante si fa la convinzione di quanto sarebbe bello se la politica sapesse illuminare i discorsi e le pagine come fa una tenda scostata d’improvviso in un giorno d’estate; di quanto sarebbe giusto tacere quando non si ha nulla di vero da dire, tacere piuttosto che parlare solo per intorbidire le acque. Sarebbe tempo di prendere la responsabilità sia di ciò che si dice, sia di ciò che non si dice; sarebbe tempo di considerare che orecchie abituate a parole inconcludenti alla lunga divengono sorde, e orecchie colpite da parole improvvide, spesso non si curano di cogliere le successive smentite. La colpa è grave poiché – oltre a svelare una mancanza di rispetto per la parola, il primo strumento della politica – dimostra una colpevole ignoranza del potere che le parole possono avere sulle persone. Chi ha un ruolo istituzionale, nel momento in cui fa una dichiarazione o pubblica un testo, non dovrebbe mai scordare quanto diceva Paolo Sarpi: «La materia dei libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati».
Da lettore esigente mi viene naturale chiedere che le parole siano usate “bene”, ma non si tratta solamente dello sfizio di un pignolo, in gioco ci sono questioni ben più importanti. Se iniziamo a confondere le parole, finiremo per confondere i fatti, e alla resa dei conti il bene e il male saranno la stessa cosa. Peggio per voi se sarete dalla parte sbagliata.

Foto: Truppe italiane sotto la cattedrale di Asmara nel 1935 © Sauro911