venerdì 30 gennaio 2009

Il primo passo nella foresta

La sensazione che avvolge l’animo dell’esploratore mentre sosta al limitare della foresta, nell’attesa di compiere il primo passo e penetrare nel mistero di un luogo sconosciuto, è affine a quella del lettore quando stringe fra le mani un nuovo libro. Al di là della copertina, di un nome o di un titolo – tutti elementi che suggeriscono, sussurrano, a volte ingannano, ma in ogni caso non dicono, non possono dire, abbastanza – si apre un mondo inesplorato. L’emozione diviene viva e palpitante grazie alla speranza che ogni vero lettore ripone nel nuovo libro, la speranza di trovare in quelle pagine una storia che lo avvinca e lo commuova come solo poche altre hanno saputo fare in precedenza, ed è lì che sta il cuore dell’emozione, nel desiderio che la foresta in cui sta per penetrare lo risucchi in un vortice e lo trascini fino all’ultima riga, fino a valle, come un ciottolo trascinato da un torrente in piena.
Nessuna quarta di copertina, nessuna recensione, può rendere piena giustizia o ingiustizia ad un libro. Quindi averle lette prima non significa già conoscere il libro, tuttavia, io credo, un po’ di gusto si perde se si ha notizia della trama, dell’atmosfera, delle ispirazioni, senza aver ancora voltato una sola pagina. Nel caso dell’esploratore equivale ad avviarsi su un sentiero segnato anziché penetrare una foresta vergine. Diceva Elias Canetti: «Chi mi consiglia un libro me lo strappa di mano, chi me lo esalta me lo guasta per anni». Forse è un eccesso, ma rende l’idea.
Ecco perché il VoltaPagine, ligio al punto 3 del suo decalogo, divaga e insegue sollecitazioni centrifughe, per sfuggire alla tentazione di dire troppo: in modo da lasciare al lettore l’emozione del primo passo nella foresta.

Foto:
La foresta di "Sas Baddes" - Orgosolo © maskaphoto

lunedì 26 gennaio 2009

Uomini d'altri tempi

I grandi personaggi, quelli che segnano il passo della storia, dell’arte, delle scienze, sono in fondo persone comuni? A volte mi viene da pensare di sì, che a vederli da vicino non abbiano molto di particolare. Poi leggo certe storie e cambio idea. Non si può fare altrimenti scoprendo la leggerezza con cui quegli uomini sanno sopportare il mondo, farsene carico senza affondare. L’intellettuale José Ortega y Gasset – costretto ad anni di esilio – racconta con un mezzo sorriso l’episodio del signore sull’autobus a Madrid, durante la dittatura, che legge della morte di un tale “Francisco Franco y Pelo” e commenta: «Peccato, per un pelo...» (p. 24). Mi chiedo dove sono ora questi grandi, e se esistano ancora luoghi dove essi si incontrano, luoghi che a quel punto divengono mitici e irreali per l’aria che vi si respira. I nomi sono molti (politici, scrittori, musicisti) e Vittore Branca li chiama a raccolta, con lo sfondo dell’isola di San Giorgio, a Venezia, e la Fondazione Cini (ecco uno di quei luoghi, e viene in mente anche l’Olivetti di Ivrea ai tempi di Adriano). Sono ritratti abbozzati, quadri a volte scentrati, ma sempre fulminanti, pure nella complessità di alcuni. Sono storie che bisognerebbe tenersi care, per sollevarsi dalle miserie che ci invischiano: «[Paul Oskar Kristeller] ci mostrava pugnacemente che per rinnovare idee e linee storiografiche era necessario anzitutto vedere nuovi testi, liberare ancora uomini e idee dalle carceri dov’erano stati nuovamente sepolti dall’incuria degli uomini di cultura» (p. 140). Una bella galleria di istantanee, un’amara nostalgia per uomini già d’altri tempi.
Vittore Branca, Protagonisti nel Novecento, Torino, Aragno, 2004, pp. VI+442.
Le mie chiocciole: @@@
Da regalare: all’intellettuale che crede sia cosa buona isolarsi dal mondo


giovedì 15 gennaio 2009

La ridda selvaggia

Una volta hanno intervistato un gatto che aveva trascorso l’intera vita disteso nella sua cesta a fissare un comò e un vaso di begonie (finte). Gli chiesero quante cose avesse visto nel corso della sua lunga esistenza e lui rispose: «Due, un comò e un vaso di begonie»; gli chiesero allora cosa pensasse di quel comò e di quel vaso, e lui rispose: «Sono senz’altro quanto di più bello vi sia al mondo».
Ecco, noi siamo quello che vediamo, il nostro mondo è quello che ci mettiamo davanti agli occhi: più stretta sarà la visuale, più stretto il mondo. Converrebbe imparare presto a guardare oltre, senza accontentarsi di fissare inebetiti il piatto che giorno dopo giorno arriva sotto il nostro naso. Insegnarlo ai bambini è facile, sono spugne, non aspettano altro che qualcosa da assorbire, e sarebbe un vero peccato propinare loro sempre la stessa minestra, restringendo le prospettive nel momento in cui dovrebbero invece aprirsi. E tutto ciò, badate bene, vale anche per la lettura, perché persino i più accaniti lettori hanno iniziato “guardando le figure”.
Per i lettori in erba è importante cercare stimoli nuovi e inconsueti, poiché l’occhio e il gusto si educano fin dai primi passi. Sia chiaro: non è mia intenzione fare crociate contro la Disney o le Winx, vorrei semplicemente far presente che il mondo è anche altro, e spesso i bambini lo sanno più e meglio di tanti adulti. Dunque, venendo al nostro Sendak, non crediate che ci sia da spaventarsi dei mostri selvaggi, neppure se roteano tremendamente gli occhi. I bambini adoreranno il modo in cui Max saprà domarli e si chiederanno perché la loro stanza da letto non è ancora invasa dalle fronde. Quei disegni inconsueti a tutta pagina, coi tratti fitti di china, colori a tratti quasi cupi, sapranno conquistarli più di quanto vi aspetterete e toccherà pure a voi lanciarvi in una ridda selvaggia. Se qualcuno poi si stancherà, vi sarà sempre modo di tornare a casa e ritrovare il solito piatto che, sorpresa, sarà ancora caldo.

Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, Milano, Babalibri, pp. 40.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: al nipotino con l’animo dell’esploratore

mercoledì 7 gennaio 2009

Il tempo mancato

L’ucronìa è un tempo che non c’è. Tipo quando si gioca “ma cosa sarebbe successo se...”. Se avete visto Sliding doors, avete capito cosa intendo. Ma qui il gioco è tutt’altro che semplice e molto delicato (soprattutto considerando che il romanzo uscì nel 1962), si tratta infatti di arrovellarsi a pensare come sarebbe il mondo se la Seconda Guerra Mondiale l’avessero vinta la Germania e il Giappone. Mica male come sfida per chi s’azzarda a sovvertire la rigida regola secondo cui la storia non si fa con i “se”, stabilendo fra l’altro che il mondo che si para davanti – tratteggiato quasi sempre in maniera indiretta, alle spalle della trama – non è per nulla manicheo. È un mondo strano, ambiguamente altro rispetto al nostro, eppure probabile. È un’esperienza da fare questo The Man in the High Castle, anche solo per provare a chiedersi dove stanno i buoni, e per i continui giochi di specchi fra finzione e realtà storica, apprezzabili ancor meglio se si legge – alla fine – l’introduzione di Carlo Pagetti. Non manca qualche forzatura: quella sorta di disumana freddezza fra i personaggi che nonostante tutto mal s’addice al nostro pianeta; tuttavia non ci si può aspettare molto altro da un mondo totalmente sovvertito (come in fondo è anche il nostro, nonostante la vittoria degli Alleati).

Philip K. Dick, La svastica sul sole, Roma, Fanucci, 2005, pp. 336.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al professore di storia, giustificando così la vostra ultima interrogazione