mercoledì 23 maggio 2012

Ultime parole


Gli scrittori non sempre hanno i modi o l’aspetto degli artisti. Alcuni assomigliano a dei ragionieri: sono molto metodici, dediti alla scrittura come fosse una qualunque attività lavorativa; altri sembrano dei vacanzieri, che scrivono per hobby, nei ritagli di tempo o dell’anno; altri ancora dei psicoanalisti, che scaricano tutto sulla carta, per poi vivere liberi e non pensarci più. Chissà quante categorie diverse troveremmo, mettendoci con un po’ di impegno. Si tratta di categorie tutte rispettabilissime, va detto, perché non c’è nessuna legge che imponga ad uno scrittore di attenersi ad un preciso cliché comportamentale. Ogni scrittore è libero di vivere come crede; diciamo che quello che conta sono i suoi libri, non come li scrive. Però ci sono i lettori, e i lettori, si sa, non possono che fantasticare. Fanno quell’operazione truffaldina di trasferire sull’autore le caratteristiche delle sue opere, dei suoi personaggi; oppure di credere che il disporre con maestria le parole sulla pagina sia un dono concesso obbligatoriamente ad un’anima eletta. Il risultato è la mitizzazione: si immaginano i propri scrittori preferiti come degli artisti, degli uomini pervasi dalla loro arte, la cui vita è posseduta e dipende in tutto e per tutto dall’arte. Qualsiasi loro gesto, qualsiasi parola dovrà allora presentarsi come frutto del sacro furore creativo. Persino la lista della spesa, scritta da loro, sarà un memorabile autografo, figuriamoci documenti di maggiore importanza, come, ad esempio, il testamento, il capitolo letterario estremo di una vita. Quale migliore occasione per apprezzare i veri scrittori, verrebbe da pensare.
In coda alle tante manifestazioni in ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia, fra febbraio e aprile del 2012 si è tenuta una mostra, presso l’Archivio Storico Capitolino a Roma, dedicata ai testamenti di alcuni “grandi italiani”, fra i quali ovviamente non mancavano gli scrittori. Mi sono quindi dilettato nella pratica feticistica di leggere le loro ultime parole, sperando in un’adeguata soddisfazione letteraria. Era una pretesa tutta mia, me ne rendo conto, ma i lettori sono fatti così. Manzoni, com’era attento alle faccende economiche riguardanti le sue opere – è notorio quanto soffrisse delle edizioni clandestine dei Promessi sposi –, così scelse di redigere un testamento che pare uscito fresco fresco da uno studio di notaio, pieno di postille e subordinate, articolato e rigoroso, insomma una delusione. Le cose non migliorano di molto con Giuseppe Gioachino Belli né con Giovanni Verga, Giovanni Pascoli o Antonio Fogazzaro, anche se per quest’ultimo vale la pena rilevare l’incipit, commovente, nel quale perdona chi gli «disse ingiuria» a causa delle sue idee religiose da cattolico progressista (i suoi libri finirono all’Indice). Hic manebimus optime: il buon D’Annunzio, solenne e latinista, si riconosce anche nel testamento, cita il «fratello d’Armi e compagno mio fedele Benito Mussolini» e si preoccupa della gestione delle sue opere (non so come interpretare il fatto che ad un certo punto esse siano giunte nelle mani di Silvio Berlusconi tramite la Mondadori: una seconda beffa della Storia?). Neppure Grazia Deledda ci diletta più che tanto, nonostante il suo Nobel, e a quel punto la frustrazione ha quasi avuto la meglio. Sennonché arriva una penna da Girgenti che racconta la sua morte in punti, un elenco che poteva essere freddo e desolato, e invece risuona come una poesia. Ecco, mi sono detto, dopo tanto cercare, ho finalmente trovato. Il mio capriccio di lettore si è acquietato. Non so come andò davvero, però sarebbe bello che così fosse stato il suo addio:
Mie ultime volontà da rispettare
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera di non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.
Luigi Pirandello

Foto: Agrigento © Stefano Liboni