venerdì 28 gennaio 2011

La schiavitù del telaio

Negli anfratti della città di Tlemcen, in Algeria, sopravvivono due miserabili etnie: i mendicanti e i tessitori. Il lavoro è ciò che li distingue. I mendicanti l’hanno perduto; costretti ad abbandonare la campagna non hanno più campi da coltivare né armenti da allevare, cosicché una deriva incessante li sospinge ad occupare i vicoli della città, il grande ventre brulicante tanto diverso dalle distese vuote a cui i loro occhi sono abituati, e lì elemosinano quanto basta, o forse nemmeno, per non morire. In evidente contrapposizione, i tessitori al lavoro si aggrappano come all’unico legno nel disastro di un naufragio umano che pare aver scordato ogni dignità. Quest’unico fondamentale privilegio dovrebbe togliere loro il diritto di lamentarsi, ma l’officina tessile vibra di insofferenza e malcontento; così ogni giorno che passa, ogni giorno inesorabilmente più simile al precedente, non fa che accumulare amarezza nel cuore dei tessitori.
Ci sono questioni attuali nel libro di Mohammed Dib: c’è il nord Africa, oggi in subbuglio, con le sue contraddizioni in riva al Mediterraneo; ci sono le prove di forza fra padroni e operai, il braccio di ferro fra chi può garantire il lavoro – e a volte abusa del potere che ne deriva – e chi del lavoro non può fare a meno; c’è l’angoscia di una prospettiva di vita senza respiro, a cui si oppone come unica barriera il discutere incessante, nel tentativo di immaginare un futuro migliore, verso il quale però quasi nessuno sa muovere davvero un passo. Infine c’è l’oggetto che simboleggia tutto ciò, il telaio, che rimanda ad antiche lotte di lavoratori sfruttati, al luddismo e a tutte le forme di rivolta che dalle officine hanno preso le mosse.
Fra i tanti personaggi sconfitti, spicca per contrasto il saggio e silenzioso Ocacha, l'unico che non parla di sé con disgusto. Egli conosce la ragione della miseria dei tessitori: «Bisogna accordare agli uomini il rispetto a loro dovuto. Perché il mondo è diventato qualcosa su cui non si desidera rivolgere lo sguardo? È mancanza di rispetto»; per gli europei, Mahi Bouanane – il loro padrone – «è l’arabo, l’individuo senza ideali sprofondato nel sudiciume e nella trascuratezza», e per lui, «noi [tessitori] siamo degli affamati senza ideali, più simili alla bestia che all’essere umano» (pp. 130-131).
La massa lamentosa dei mendicanti è improvvisamente cresciuta fino ad occupare le strade, e gli abitanti di Tlemcen faticano a trovare un atteggiamento coerente nei loro confronti, prima li ignorano, poi li riconoscono esseri simili caduti in disgrazia, infine provano ad aiutarli mentre l'autorità non sa far di meglio che espellerli periodicamente, provocando il riflusso incessante di un’umanità negletta. Ma sono esseri umani questi? In una delle taverne in cui Omar, il giovane protagonista, vede entrare un vecchio consunto dall'elemosina, un commerciante si alza e apostrofa il povero: «La carestia non può averla vinta su qualcuno che lavora!» (p. 126). Il vero cruccio è questo: quando la sera risali dal sottoscala a cogliere l’ultima luce del giorno, ritrovi i mendicanti, e ti chiedi se davvero qualcosa ti distingua da loro. Dentro un racconto che si bea della propria lentezza e della propria ciclicità, emerge alla fine una sconsolata amarezza: «Qui, la vita è sabbia: te ne riempi le mani ma non ti resta niente» (p. 173).

Mohammed Dib, Il telaio, Milano, Epoché, 2007.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al commesso della Fruit of the Loom.

domenica 23 gennaio 2011

Va' pensiero

Perché le cose sono come sono? Dio esiste ma è occupato? Il potere spetta ai bravi o ai furbi? Conviene mangiare salsiccia a colazione? Ponete le vostre domande 'gravi' alla rubrica Va' Pensiero; a cercare le risposte ci si è messo Tommaso Codignola.

Il gatto è un topos
Questo è un libro d’altri tempi. Non per gli argomenti che affronta, quanto mai attuali e dibattuti, né per gli strumenti e le letture cui ricorre, anch’esse aggiornate fuor di ogni possibile dubbio, ma per l’impostazione generale. Sembra il libro di uno di quei medici (leggasi, fisici, matematici, ‘filosofi naturali’), che fiorirono particolarmente in terra di Francia tra il XVII e il XVIII secolo e sul cui lavoro poté ergersi l’edificio maestoso e sublime della filosofia francese di quel periodo, da Montaigne a Pascal e Descartes, da Montesquieu a Voltaire, da Diderot a Rousseau. Si respira nelle pagine la stessa ricerca disinteressata di conoscenza e comprensione, la stessa ariosa lontananza dal clima forzatamente un po’ asfittico degli studi dei professionisti del sapere, delle ponderose monografie critiche, vi è qui il gusto nobile dell’hobby presente in così tante e importanti delle vere opere di filosofia di ogni tempo e nelle vite dei loro autori, spesso filosofi a tempo perso, con scarsa o nulla collocazione accademica, e però dediti al gioco serissimo della filosofia. Tra i libri più recenti, questo di Baldereschi me ne ricorda uno uscito pochi anni fa per Adelphi, che ho avuto il privilegio di tradurre, L’immagine del mondo nella testa di Valentin Braitenberg, lui sì effettivamente medico per formazione, ma poi studioso tutta la vita del cervello. Quasi li si potrebbe leggere en pendant: Braitenberg su fisica e biologia, Baldereschi su linguaggio e matematica. E veniamo così al punto: di che parla questo libro? Di linguaggio e di matematica, come detto, o forse meglio di linguaggi naturali e di linguaggi formali, tanto che il volume è anche graficamente diviso in due parti: nella prima filosofia del linguaggio, nella seconda filosofia della matematica.
Non si tratta, però, di una mera giustapposizione, di due interessi dell’autore riuniti per l’occasione in corpo unitario. C’è invece una questione comune, un’unica questione, che attraversa le pagine da cima a fondo, ed è questa: fino a che punto i segni possono allontanarsi dalla rappresentazione senza perdere di significato? O anche, in altri termini: di quanta autonomia gode il linguaggio, su quali presupposti extralinguistici e nondimeno afferenti al nostro sistema cognitivo esso riposa? Si tratta niente di meno che del tema centrale su cui si è consumata la svolta fregeana (il ben noto linguistic turn) nei confronti della semantica tendenzialmente pittorialista della prima modernità: un conto è il significato (Sinn), oggettivo e pubblico, altra cosa la rappresentazione (Vorstellung), soggettiva e privata, che con quello non ha nulla a che fare. Semantica (e logica) da un lato, psicologia del pensiero dall’altro sono campi da distinguere con tutta la nettezza possibile: la rappresentazione non è il significato, la psicologia del pensiero come sapere meramente descrittivo non ha nulla a che vedere con la logica e la semantica in quanto discipline normative. Ebbene, la posizione di Baldereschi è esattamente contraria: la rappresentazione è il significato, o almeno vi concorre in maniera determinante, in particolare in quei compiti referenziali, cioè di applicazione dei nomi al mondo, costruiti sull’atto cognitivo primigenio: il riconoscimento. Qualcosa, una x, è riconosciuto come qualcosa, l’elemento della classe individuata da un concetto (nome comune) o come se medesimo (nome proprio). A più riprese, e non senza ragione, l’autore si dice consapevole che una posizione di questo tipo è oggi minoritaria: in particolare presso gli studiosi di orientamento analitico l’idea appare un inaccettabile passo indietro verso forme di razionalità che si credevano ormai superate, riapre la porta a entità metafisicamente dubbie ed epistemologicamente opache (non accessibili a controllo intersoggettivo) come le rappresentazioni mentali, non rende conto degli elementi normativi del significato, cui Frege prima, al prezzo pur alto del suo platonismo, e Wittgenstein poi, col discioglimento cognitivo del significato nelle prassi linguistiche di una comunità culturale, sembravano aver saputo offrire una spiegazione. Ma il fronte degli analitici non è più così compattamente antirappresentazionale, mentre al contempo dalla psicologia cognitiva è venuto un potente impulso a ridiscutere da capo, e in forma anche radicale, i termini della questione: si pensi a uno psicologo come Johnson-Laird, a linguisti come Lakoff, Langacker e Talmy, a filosofi come Mark Johnson.
D’altronde Baldereschi ha una risposta al quesito: se il significato è la rappresentazione, di dove l’intersoggettività? Ed è una risposta di buon senso: non è necessario, come vuole Frege e gli analitici con lui, che i significati siano identici, basterà che siano abbastanza simili da permetterci l’intesa ai fini pratici delle nostre comunicazioni. Una nozione che nel gergo tecnico viene chiamata oggi convergenza semantica e che trova sempre più sostenitori (lo stesso Chomsky, cui pure non vanno le simpatie teoretiche di Baldereschi).
Questo del rapporto tra significato e rappresentazione, cioè tra linguaggio e sua capacità semantica, è in effetti il filo conduttore, ma niente affatto l’unico tema affrontato dal libro, che tocca invece il rapporto tra le nostre capacità cognitive e quelle degli animali a noi filogeneticamente più vicini (e neppure troppo ‘vicini’, se l’esempio più ricorrente è quello di un gatto, il gatto dell’autore, animale filosofico par excellence, come ci ha ricordato Benedetto XVI), e poi le forme delle memoria (acustica, visiva, olfattiva, ecc.), l’apprendimento linguistico, l’ontologia del numero, le difficoltà della teoria degli insiemi, alcune riflessioni davvero sottili su identità e uguaglianza, nonché in chiusura una bellissima (e plausibile) congettura sulle origini della nozione di ‘peccato’ dalla danza. C’è però un aspetto, per tornare all’inizio, che rende il libro effettivamente particolare al di là delle singole tesi, cioè che esso, come i libri autentici di filosofia, a conclusione di ogni paragrafo quasi costringe chi legge a chiudere un istante il volume tra le mani e a domandarsi: ha ragione, stanno davvero così le cose?
(post di Tommaso Codignola - dalla prefazione al volume)


Guido Baldereschi, Discorrendo della sapienza di Homo sapiens. Appunti, spunti e congetture per una storia naturale dell'umanità degli uomini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: alla tenutrice della colonia felina comunale.

giovedì 20 gennaio 2011

La lettura punitiva

Non so se Christoph Mangelsdorf condivida l’idea che la lettura abbia una notevole carica educativa, intendendo proprio ‘educativa’ e non semplicemente istruttiva. Eppure mi sembra palese il suo essere paziente maestra a cui non è dato usare la voce, ma che sa parlare col silenzio. La lettura insegna a stare fermi, a concentrarsi; insegna il gusto di arrivare con lentezza al cuore di una storia, con il medesimo metodico passo di chi sale ad una vetta. Nel leggere c’è un’evidente educazione sia mentale sia fisica.
Non so appunto se questo sia stato il primo pensiero di Mangelsdorf, giudice minorile di Fulda, quando ha deciso di infliggere ad alcuni giovani colpevoli di piccoli reati, la pena di leggere romanzi. Anziché le classiche ore di lavoro socialmente utile, una poltrona e un libro, con l’obbligo d’arrivare sino all’ultima pagina. Come ha dichiarato in un’intervista alla radio tedesca (qui il testo completo), il giudice ha intravisto in questo sistema la strada per ottenere dei risultati altrimenti non raggiungibili, cercando cioè non solo di «punire ma anche di educare». Era infatti emerso come i vari generi di condanne fino ad allora applicate, non aiutavano i ragazzi ad affrontare i problemi da cui scaturiva il loro disagio sociale, rischiavano anzi di aumentare la frattura tra il loro modo di comportarsi e i modelli imposti dagli adulti. La lettura poteva invece permettere di dare una spiegazione ai loro errori.
Il libro funziona allora come una sorta di cavallo di Troia che penetra nella comprensibile diffidenza di chi viene condannato in giovane età ed è spesso privo dei mezzi per dare un corretto giudizio di ciò che gli accade. Per accentuare l’effetto, la scelta delle opere è stata fatta escludendo testi pedagogici o di esplicito indirizzo educativo, preferendo romanzi di successo – come ad esempio La fabbrica del male di Jan Guillou – vicini ai gusti attuali dei ragazzi e che sollevassero domande del tipo “cosa avrei fatto io in quella situazione?”. Non a caso il progetto prevede una procedura in diverse fasi: dopo la lettura, da completare entro un certo periodo, è necessario stendere una breve sintesi e poi rispondere ad una serie di domande. Maggiormente interessante è tuttavia la fase successiva che consiste nello stimolare una discussione, un dialogo al fine di indurre a confidarsi, a far venire a galla i pensieri più reconditi.
Nel progetto si intravvede dunque una valenza psicologica non indifferente, e a conferma di ciò va sottolineato come la scelta di subire questa punizione rispetto ad un’altra, è del tutto volontaria. I ragazzi possono scegliere di leggere, mai esservi obbligati; è un’alternativa che devono loro stessi preferire, facendo pensare appunto a uno dei principi cardine della psicanalisi, ovvero la volontà del soggetto a sottoporvisi. I primi risultati, a sentire Mangelsdorf, sono stati incoraggianti, viene però da chiedersi se in questo modo non si rischi di far odiare la lettura, di trasformarla in uno ‘strumento di tortura’. Spesso il libro è un oggetto alieno per i giovani che hanno problemi con la giustizia, l’averci a che fare si presenta quale esperienza quasi inedita. Personalmente credo possa accadere, in qualche caso, come avviene con certi sciroppi per la tosse grassa. I bambini vi si accostano diffidenti, storcono le labbra, fanno spuntare la punta della lingua a saggiare il cucchiaino, raccolgono una goccia e a volte scoprono che non è poi così male, che, toh, sa di fragola. Il progetto tedesco, che è l’esito in verità di diverse precedenti esperienze, potrebbe perciò produrre positive ripercussioni in diverse direzioni e offrire un modello da imitare, magari anche nel nostro paese.

Foto: Sbarre azzurre © Serena Groppelli

sabato 8 gennaio 2011

Bookends

"Scrivere di musica è come parlare di scopate" diceva John Lennon, ma la nuova rubrica Bookends è pronta a dimostrare che a leggere di musica ci si diverte assai; ad accordare la penna ci pensa Gabriele Maiolo.

Esplosione e implosione del punk
Una casa discografica che assegna numeri di catalogo a oggetti immaginari. Un gruppo di ex hippies dell’Ohio che inscena una grottesca rilettura della società occidentale. Il vulcanico manager che sogna di trascinare una delle più importanti major del vinile in uno scandalo di pedopornografia, fermandosi a un passo dal traguardo. E soprattutto, il perfetto villain-hero: un teppistello, magicamente trasformato in rockstar maudit, che scopre il bluff e decide di gestire la propria carriera da sé.
Questi personaggi, insieme a una miriade di altri, non popolano un romanzo ma un eclettico e rigoroso saggio di Simon Reynolds sulla scena musicale britannica e statunitense all’indomani dell’esplosione – e relativa, quasi immediata, implosione – del fenomeno punk. La grande complessità e frammentazione di stili, influenze e matrici ispirative del post-punk viene affrontata con decisione e semplicità: una serie di micro-storie nelle parole dell’autore, ma che sono a tutti gli effetti dei racconti brevi. La linearità della struttura lascia con naturalezza il campo a un’indagine profonda, che riserva un congruo spazio all’analisi stilistica e dei riferimenti storici degli artisti dell’epoca. Con qualche sorpresa dietro l’angolo, al punto che in molte occasioni è facile rintracciare più legami che cesure con le forme rock e pop degli anni e delle epoche precedenti.
Il racconto di Reynolds restituisce artisti, discografici, manager e addetti ai lavori (i più disparati) nei loro luoghi reali senza concedere nulla alla classica, leccata iconografia dello show-biz. Le città, le loro scene culturali e artistiche, i loro paesaggi sofferenti in anni di crisi economica, e in qualche caso anche il grottesco, a tratti teratologico degrado ambientale, come nel caso di Cleveland, non sono cornice ma ambiente – nel senso più completo – del lavoro del musicista. All’interno di questo scenario il ricorso all’aneddotica è frequente ma garbato – e meritoriamente funzionale.
Se il panorama artistico è a dir poco variegato – si pensi alla distanza tra il rock «rinato» degli ancora imberbi U2 e gli agghiaccianti rumorismi industrial dei Throbbing Gristle, o al manierismo neo-mod dei Dexy’s Midnight Runners a fronte dell’ermetismo sacrilego dei Residents –, non meno sorprendente è il panorama discografico: al fianco di tycoon giovani (ma tragicamente conservatori) come Richard Branson, già all’epoca saldamente al timone della Virgin, o lo scaltro e patinatissimo produttore Trevor Horn, che saltella dai Buggles ai redivivi Yes prima di lanciare nel mondo new pop i Frankie Goes To Hollywood, scalpita un gruppo di appassionati entusiasti che tirano su dall’oggi al domani la loro etichetta, ridefinendo e spesso ribaltando i concetti di strategia di vendita e direzione artistica. A questi è riservata una delle micro-storie più godibili e illuminanti, Autonomy in the UK.
Post-punk: 1978-1984 ha tra i suoi meriti maggiori quello di reinserire l’analisi critica sul punk e le sue variopinte discendenze in un contesto perfettamente rigoroso, in particolare per quanto riguarda le scelte compositive, di arrangiamento e di produzione, e l’onnipresenza ormai evidente delle tecniche di comunicazione non solo nella promozione, ma spesso anche nella genesi stessa di un gruppo o di un sottogenere musicale. E di ricordarci che di norma è grazie all’accortezza e al senso progettuale dell’artista che una storia che appare già scritta prende traiettorie imprevedibili, con buona pace dei profeti del marketing inteso come ideologia.
(post di Gabriele Maiolo)

Simon Reynolds, Post-punk: 1978-1984, Milano, Isbn, 2006 (reprint tascabile 2010).


Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a chi non ha ancora abbassato la cresta.