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domenica 22 novembre 2015

Un carrozzone spaziale

Gli alieni sono fra noi. Se state pensando all’avvio di un tipico romanzo di fantascienza, devo subito avvisarvi che siete fuori strada. L’invasione infatti è già avvenuta e in maniera massiccia, ma quasi nessuno se ne è accorto, e quei pochi che ne erano a conoscenza hanno saputo integrare gli extraterrestri negli ingranaggi della nostra società in ossequio al più assurdo consumismo. Il meccanismo è decisamente curioso e costituisce una delle molte chiavi che tengono tesa l’imprevedibile trama sviluppata da Alessandro Pozzetti.
Qualsiasi definizione di genere rischia di essere sminuente per Auro Ponchielli contro la fine del mondo, perché in effetti molti sono i generi mescolati fra loro, e nessuno di essi alla fine prevale sugli altri, ciascuno ha il suo spazio. Auro, pubblicitario con una certa qual verve, ha sempre vissuto a quota periscopio, senza grandi infamie e senza grandi lodi, osando meno di quel che forse potrebbe, con un profilo basso che non gli ha reso giustizia. Qualcosa tuttavia, lo si intuisce fin dalle prime pagine, si sta muovendo all’orizzonte, anzi sopra, molto sopra l’orizzonte. Nonostante il tono ironico, ecco dunque il racconto di formazione, e in effetti il nostro Auro vivrà pagina dopo pagina una trasformazione, una presa di coscienza che lo traghetterà verso un nuovo modo d’essere. Questa presa di coscienza avrà la forma di un vero e proprio impossessamento: uno spirito entrerà dentro Auro per guidarlo nel cammino, e non uno spirito qualunque, certo che no, sarà addirittura Clint Eastwood ad apparirgli un mattino riflesso nello specchio del bagno: lo sguardo a fessura, le labbra sottili pronte a distribuire massime intrise di saggezza.
A guidare il manipolo di uomini che, senza volerlo, si troverà a dover fronteggiare un’apocalisse acquatica, ci sarà anche Miki Zanetti, in arte Zanna, dj e scrittore che ci rimanda ad alcuni presenzialisti che infestano i nostri palinsesti televisivi. Zanna però è uno che ci sa davvero fare, e il suo Nonne che corrono con i lupi ha venduto oltre 400.000 copie, consentendogli di diventare l’uomo con maggiori probabilità di intrattenersi quotidianamente in rapporti sessuali completi con perfette sconosciute (percentuale attorno al 93,4% secondo uno studio del prof. Ringer dell’Università di Tubinga). In certe condizioni diventa facile eccedere nell’autostima, «sono in sintonia col cosmo. Sono in unione con ogni molecola dell’universo. Pervado la realtà delle cose» afferma Zanna (p. 73), senza sapere quanto premonitrici siano le sue parole; anche per lui infatti il destino ha previsto un nuovo livello di coscienza, stavolta in diretto rapporto con le menti aliene.
L’aspetto ironico, a tratti grottesco, non abbandona mai la narrazione, complici gli altri personaggi, eccentrici di per sé e in più coinvolti in situazioni assurde. Incontriamo allora una scimmia – anzi pardon, uno scimpanzé – dalla spiccata intelligenza e tanto loquace quanto manesco; la governante di Zanna, Teresa, una vecchina dall’aria innocua ma in realtà decisamente battagliera nel suo ruolo di Mata Hari meneghina; Marzia, la fidanzata di Auro, che suo malgrado si trova ad essere centro catalizzatore di una serie di eventi imprevisti con conseguenze altrettanto impreviste sui suoi capezzoli; un irresistibile nerd conosciuto con il nome di Padrepio che viene in possesso di un telecomando a forma di pinguino dal potere davvero spropositato; Luis Ferro, il capo, nonché cognato, di Auro, despota dai gusti sessuali alquanto stravaganti che subirà un meritato contrappasso; e così via, in una carrellata davvero pittoresca.
Bisogna riconoscere ad Alessandro Pozzetti il merito d’essere riuscito a distillare, in un’unica storia, personaggi e situazioni pescate da ambiti lontani anni luce gli uni dagli altri, combinando tutto in una struttura coerente, per nulla sgangherata, anzi quasi classica nel suo svilupparsi, benché affidata ad un gruppo di protagonisti che sono appunto una delle compagnie più strampalate che mi è capitato di trovare stipata in un romanzo. A fare da substrato, un immaginario che trae spunto da quella variopinta fucina sotto culturale che sono stati gli anni ’80-‘90, con riferimenti e citazioni che nonostante tutto continuano a far ridere, a maggior ragione se riproposti in modi e momenti del tutto inattesi. E poi, diciamola tutta, chi non si sentirebbe più al sicuro sapendo d’avere come guardia del corpo Bud Spencer? Pozzetti pesca dunque da un bacino ampio, e lo fa con garbo, senza perdere il suo stile e senza eccedere; riprende alcuni cliché, ma li sa rovesciare e sa servirsene a suo specifico vantaggio.
Una vicenda corale a cui forse poteva essere dato più respiro, c’erano ampi spazi oltre lo Spazio che giustamente raccoglie le scene finali, ma il destino del mondo si gioca in fondo fra due salotti. Paradossalmente la vicenda, che pur coinvolge il mondo intero, evolve attraverso scene di interni, dialoghi molto articolati e direi teatrali nella loro impostazione, ben condotti, ma che capita facciano perdere il ricordo di quanto sta accadendo in quell’istante nel resto della Terra. A volte il mondo rimane sullo sfondo, come un televisore dimenticato acceso in un angolo della cucina durante un litigio in famiglia. Quasi che si fosse spaventato della gigantesca macchina che ha saputo mettere in moto, Alessandro Pozzetti tiene insomma un po’ il piede sul freno, eppure ciò non è detto sia per forza un male. Alla fine infatti gli consente di puntare sempre le luci sui suoi strampalati personaggi, attori ai quali non si può fare a meno di affezionarsi e con cui ci si diverte con leggerezza, scordando che fuori dalla finestra si sta appropinquando l’apocalisse.

Alessandro Pozzetti, Auro Ponchielli contro la fine del mondo, Milano, NNE, 2015.

mercoledì 16 dicembre 2009

L'inquisitore nell'iperspazio

Una storia decisamente oltre il tempo e lo spazio, che prende le nostre dimensioni quotidiane e le strizza e stiracchia con gran godimento. Così dentro ci si trova di tutto: dalla dea Diana agli spazi interstellari, dall’inquisizione spagnola al laboratorio di fisica ultramoderno, da una monarchia medievale ad un fantafascismo. Senza voler con questo intendere che il risultato sia un guazzabuglio informe, tutt’altro.
Le tre storie che si intrecciano nel libro corrono parallele – a tratti vicinissime fino a toccarsi, benché nella sostanza lontane anni luce (e non è una metafora) una dall’altra – in un complessivo ordito dalla struttura precisa e tutto sommato compatta. Delle tre una fa la parte del leone e non a caso, oltre ad essere la più corposa, è quella che dà il titolo. L’ascesa di Nicolas Eymerich e la sua battaglia contro l’eresia riescono ad avvincere fino all’epilogo, con un ritmo e una sequenza incalzante di eventi abilmente incatenati. Anche l’ambientazione e i personaggi minori sanno essere all’altezza della trama, evitando la funzione di meri fondali, come a volte accade nelle storie nate per le collane seriali (il romanzo uscì originariamente negli “Urania”). Mancano insomma quasi del tutto sviste o leggerezze, trabocchetti in cui sarebbe stato facile cadere volendo giocare con un plot non semplice e dovendo mantenere viva l’attenzione del lettore.
Gli stessi meriti sono difficili da attribuire alle altre due storie, che invero faticano a reggersi da sole, soprattutto la prima, incentrata sulla figura del geniale e ribelle ricercatore Marcus Frullifer. La vicenda è quasi impalpabile e alcune scene fanno decisamente acqua, in particolare quando si tratta di far interagire Marcus e la bella Cynthia, stimolando la tentazione di saltare rapidamente al capitolo successivo. A conti fatti risulta abbastanza chiaro che l’unica vera funzione di questa parte del libro sia fornire i presupposti scientifici per spiegare quanto accade ad Eymerich e all’equipaggio della nave spaziale Malpertius, protagonista della terza storia. Alla fine forse sarebbe bastato un breve cappello introduttivo, con buona pace di Marcus Frullifer.
Ma a fare i pignoli si rischia a volte di perdersi del divertimento, e qualche pagina su cui corre re via in fretta, non condanna l’inquisitore Eymerich, personaggio che si fa ammirare e detestare come pochi, e la cui fortuna letteraria, da questo romanzo in poi, è andata man mano crescendo.

Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore, Milano, Mondadori, 2004.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: per ridare speranza all’amico che da anni progetta un viaggio temporale

giovedì 1 ottobre 2009

Su Marte o a Battipaglia

La fantascienza implica paradossi nuovi, situazioni ignote alle coor­dinate del nostro vivere quotidiano, e deve aprirsi per forza a prospettive inattese, basate su una sorta di geometria non-euclidea del raccontare. Chi non ne asseconda il naturale impulso, finisce per fare della fantascienza un uso maldestro e poco pregnante. Per scendere nel concreto, il pilota di una navicella spaziale non può assomigliare troppo ad un autista di tir sulla Salerno-Battipaglia, perché a quel punto tanto valeva rimanere sulla terra. Ecco il maggior peccato di questa raccolta di sette racconti: aver portato lontano – nello spazio, nel tempo o in entrambe le direzioni – delle storie pensando che ciò bastasse a dotarle di maggiore senso, di effettiva sostanza. Diceva Orazio che se corriamo al di là del mare, cambiamo cielo, non animo; lo stesso vale per le nostre storie.
Alle sett’albe non avrebbe nessun bisogno di essere ambientato su una stazione orbitante, anzi quella sorta di medico della mutua che è il protagonista sarebbe apparso molto più vero se avesse aperto lo studio in un piccolo paese di provincia. E Qualcuno dovrà è un dialogo fra nonno e nipote senza una reale consistenza, difetto non superabile solo per il fatto che i due vivono su Marte. In Atteone la situazione è abbastanza classica: un luogo poco abitato, sperduto nello spazio, improvvisamente smette di inviare segnali e un poveretto pieno di problemi e mezzo emarginato viene spedito ad indagare, con l'ovvia conclusione di un imprevisto scontro con l'alieno di turno. Alla fine della giostra (p. 48) salta fuori un po' a sorpresa una morale: «Pensava [...] all'enormità del cosmo e alla piccolezza angusta della limitata mente umana. Tutto cambia, tutto si trasforma e nulla rimane uguale a se stesso. Troppe forme di vita, troppe incognite». Ci voleva una chiusa così densa di senso, ma in base a quali ragionamenti si sia arrivati a tale riflessione è un altro mistero, si tratta di una morale tanto solenne quanto ingiustificata dagli eventi, da lasciar perplesso anche il buon Eraclito.
Insomma affondare radici in terre narrativamente friabili conduce a passi falsi: anacronismi (il navigatore spaziale che usa mappe cartacee e traccia le rotte a penna), innesti forzati (vedi le parti fantasy in Involontaria consegna), imprecisioni terminologiche (alle pp. 57-58 si legge che «l’Apollo numero 11 fu la prima astronave in grado di atterrare su un pianeta diverso dalla Terra», peccato che la luna non sia un pianeta). Lo spazio offre grandi silenzi, bisognerebbe approfittarne di più.

Fabio Centamore, Alle sett'albe, Roma, Ducas, 2009.

Le mie chiocciole: @

Da regalare: al patito di b-movies post-atomici

mercoledì 7 gennaio 2009

Il tempo mancato

L’ucronìa è un tempo che non c’è. Tipo quando si gioca “ma cosa sarebbe successo se...”. Se avete visto Sliding doors, avete capito cosa intendo. Ma qui il gioco è tutt’altro che semplice e molto delicato (soprattutto considerando che il romanzo uscì nel 1962), si tratta infatti di arrovellarsi a pensare come sarebbe il mondo se la Seconda Guerra Mondiale l’avessero vinta la Germania e il Giappone. Mica male come sfida per chi s’azzarda a sovvertire la rigida regola secondo cui la storia non si fa con i “se”, stabilendo fra l’altro che il mondo che si para davanti – tratteggiato quasi sempre in maniera indiretta, alle spalle della trama – non è per nulla manicheo. È un mondo strano, ambiguamente altro rispetto al nostro, eppure probabile. È un’esperienza da fare questo The Man in the High Castle, anche solo per provare a chiedersi dove stanno i buoni, e per i continui giochi di specchi fra finzione e realtà storica, apprezzabili ancor meglio se si legge – alla fine – l’introduzione di Carlo Pagetti. Non manca qualche forzatura: quella sorta di disumana freddezza fra i personaggi che nonostante tutto mal s’addice al nostro pianeta; tuttavia non ci si può aspettare molto altro da un mondo totalmente sovvertito (come in fondo è anche il nostro, nonostante la vittoria degli Alleati).

Philip K. Dick, La svastica sul sole, Roma, Fanucci, 2005, pp. 336.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al professore di storia, giustificando così la vostra ultima interrogazione