domenica 21 dicembre 2014

Sfoglia un museo, visita un libro

Lo scrittore sfila dalla stampante l’ultima pagina, ricompatta la pila di fogli e soppesa la sua opera
appena compiuta. Deve decidere cosa farne ora, di quel romanzo su cui ha speso tante ore, su cui ha lavorato di lima e di fantasia per mesi se non per anni. Deve trovare il modo per dargli voce, per farlo diventare qualcosa che non sia solo una risma di carta. Da un’altra parte, in un deposito o in una cantina, una collezione di oggetti storici o artistici giace chiusa a chiave dietro ad una porta. Di per sé, nello stato in cui si trova, essa appare semplicemente come un insieme raccogliticcio di cose vecchie.
Qual è il tratto comune fra la risma di carta stampata e la collezione dimenticata? Sono entrambe esempi di un contenuto inespresso. Lasciamo da parte qualsiasi giudizio di merito, sappiamo molto bene che ci si può imbattere in contenuti per loro natura così poveri da non giustificare neppure la fatica di una rapida occhiata. Rimane tuttavia valido il principio, al di là del valore intrinseco, che senza un’azione di valorizzazione variamente declinata, un qualsiasi romanzo o una qualsiasi collezione sono contenuti inespressi, sono realtà mute. Lo si può dimostrare mettendo a confronto i due rispettivi ‘contenitori’, due luoghi simbolo della conoscenza: il libro e il museo.
Mi sono chiesto di recente se ci sia una diretta connessione fra il piacere che si prova nel leggere un libro e quello che si prova nel visitare una mostra d’arte. La risposta è da un lato evidente, sono attività con le quali si passa piacevolmente del tempo e si impara qualcosa, tuttavia c’è modo di individuare dei legami maggiormente caratterizzanti. Per esporre la questione distinguo innanzitutto due punti di vista: il primo è quello del visitatore-lettore, che chiamerò genericamente fruitore; il secondo quello del curatore-editore, che riunisco sotto la definizione di valorizzatore. Se tale accostamento di punti di vista, combinati due a due, si dimostrerà sensato, avremo come conseguenza la possibilità di assimilare il visitatore di una mostra al lettore di un libro, e il curatore di una temporanea d’arte all’editore di un’antologia. Dato questo assunto, ne deriverà che i luoghi/oggetti in cui quelle dinamiche si esprimono, sono nella loro sostanza di base accostabili, cioè che per certi versi un museo e un libro funzionano allo stesso modo.
Notate che volutamente ho escluso dal discorso l’autore; non considero l’artista o lo scrittore. Di fatto il loro mestiere è un altro: la creazione si colloca prima dell’esperienza del fruitore e sta su un altro piano. Il pittore al lavoro nel proprio studio non dialoga direttamente con l’appassionato d’arte che visita una sua personale. Nel mezzo c’è sempre il valorizzatore, colui che ha preso i quadri e ne ha fatto narrazione, efficace o meno che sia. Il mio intento è infatti di evidenziare dei ruoli, ma ciò non significa che uno scrittore non possa diventare editore (valorizzatore) di sé stesso, si tratta però di un cambio di ruolo, e non scontato. La testa è la stessa, ma il cappello cambia.
Il fruitore inizia la sua esperienza aprendo una porta oppure girando una pagina. Con questi gesti egli accede ad un contenuto che è stato strutturato per essere leggibile, nel senso più ampio del termine. Consideriamo infatti che il contenuto è sempre una narrazione nella quale il fruitore è disposto ad immergersi. A tale buona disposizione non si arriva solamente in virtù della altrettanto buona volontà del fruitore, quanto grazie alla capacità di avvincere della narrazione. Essa deve essere costruita in maniera che il fruitore sviluppi immediatamente il desiderio di esplorare il contenuto per intero, di andare oltre, sino all’ultima sala, sino alla parola fine. A quel punto, quando avrà concluso la lettura del libro o sarà uscito dal museo, il lettore sarà soddisfatto e racconterà agli amici della felice esperienza, divenendo il miglior vettore per la proliferazione dei fruitori.
L’obiettivo primo del valorizzatore è dunque costruire una narrazione che sia avvincente dal primo istante per chi vi si accosta, che non deluda nel suo svolgersi, che si concluda con piena soddisfazione del fruitore. Il luogo dove tutto ciò avviene, in maniera molto simile, sono il libro e il museo. Essi sono il luogo. Prima dell’intervento del valorizzatore, quei luoghi non esistono. Il libro va progettato, come oggetto fisico o come oggetto digitale, e palesato, reso visibile, distribuito, per usare il termine editorialmente più corretto. La collezione di un museo va catalogata, organizzata e collocata in un contesto, e solo in quel momento davvero esiste, dopo che il valorizzatore gli ha dato forma. Quello è lo spazio in cui il fruitore si muove, in cui sosta oppure passa via veloce, in cui si sofferma e viene stupito e interessato, in cui a volte si annoia. Voltare pagina o cambiare sala sono gesti affini in questa prospettiva. Il modo di pensare del valorizzatore, di costruire la narrazione attorno alle opere, è basata su meccanismi precisi, su regole che si studiano e che si apprendono con l’esperienza, e che alla fine dimostrano di rispondere a linee guida teoriche valide tanto per la museologia quanto per l’editoria.
Benché un’esposizione frequentata da più persone in contemporanea, all’interno di uno spazio delimitato, sia cosa ben diversa rispetto ad un oggetto da tenere in mano per essere sfogliato in solitudine, tuttavia i principi su cui si costruisce un museo o si progetta un libro sono molto simili. Chi entra in libreria o si accosta ad una biglietteria di una mostra, ha deciso di investire tempo e denaro in un’attività ludica e istruttiva, e chiederà ad essa di rispondere alle sue aspettative secondo alcune modalità precisamente definibili. Non è questa la sede per analizzare nello specifico tali modalità, per chiudere mi limito a suggerire che, per chiunque lavori nell’editoria o in ambito museologico, potrebbe essere interessante giocare sulle affinità tra i due luoghi: fermarsi un momento, in fase di progettazione, ad immaginare la mostra come fosse un libro, ad immaginare il libro come fosse una mostra.

domenica 10 agosto 2014

Il sangue che bagna la terra

Agapito è un carceriere involontario, incastrato dalla sorte in un ruolo che non ama, ma a cui non sa opporsi, anzi ci si affeziona perché paradossalmente, grazie a quel deprecabile compito, egli trova modo di esprimere la sua umanità inaridita, come un compassionevole sadico che infligge ferite per poterle poi curare quasi con amore. Flori è la prigioniera, una donna umiliata, ridotta ad animale di riproduzione nella meccanica di un commercio immondo e crudele. In un Molise a cui la povertà sembra aver tolto ogni barlume di sensatezza morale, il rapporto particolare di Agapito e Flori si sviluppa a forza di silenzi e di dialoghi spezzettati fra dialetto e ucraino, e trovando spesso come unico luogo d’incontro il gesto antico e universale del coltivare la terra. Sono due vittime, in fondo, che dunque non dovrebbero che condividere il proprio dolore e tendersi la mano nel momento della fuga. Se Flori è davvero l’innocenza pura violata, lo stesso non si può tuttavia dire di Agapito che nasconde alle spalle una storia torbida e che, pur con lo scopo di espiare il suo passato, si rende complice di un sistema criminale della peggior specie.
L’ambiguità di Agapito fa paura, perché assomiglia alla crudeltà dell’uomo saggio. A Stoccarda, dove era emigrato da giovane, era conosciuto come il Sacerdote, e da prete si comportava per la comunità italiana lì residente. Ai gesti e alle parole religiose, si accompagnavano però atti, se non cattivi, accondiscendenti con chi peccava con violenza e prepotenza. Di fatto c’è una dinamica che Agapito non può fare a meno di seguire prima in Germania e molti anni dopo nella terra natìa: quella dell’uomo piccolo, ingobbito dal timore, inerte rispetto agli eventi, una sorta di don Abbondio che fa fatica a confidarsi persino con Amalia, sua moglie, così come il personaggio manzoniano rifuggiva il confronto con Perpetua. La terra del sacerdote è la storia del tentativo di riscatto di un uomo che, negli ultimi anni della sua vita, si trova costretto a spalancare le ante dell’armadio in cui conserva un polveroso scheletro. 
Gli emigranti vivono spesso in condizioni estreme, costretti in comunità ghettizzate, osteggiati, privati degli affetti al punto d’inclinare verso la disumanità. È una conseguenza difficile da arginare e che nel corso dei secoli ha colpito le più diverse popolazioni nel momento in cui hanno dovuto sfuggire povertà e carestia. In quelle contingenze accadono cose a volte indicibili, e mi torna alla mente Il popolo degli abissi, il romanzo documento di Jack London, oppure le più recenti riflessioni di Gian Antonio Stella in L’orda, quando gli albanesi eravamo noi (ne abbiamo già scritto). È rimestando in quel torbido, nella realtà dura degli emigrati italiani in Germania, che Agapito ottiene la sua terra, la terra del sacerdote, più arida e avara di quanto aveva immaginato, forse proprio a causa del modo in cui è stata ottenuta, ma capace infine di fiorire, profittando della vicinanza della fanciulla ucraina, non a caso di nome Flori, e del ‘sacrificio umano’ che è all’origine del loro rapporto. Un cerchio si chiude in qualche modo: gli sfruttati nelle fabbriche tedesche diventano sfruttatori delle genti dell’est. Il circolo perciò si presenta vizioso, dalla sofferenza dei primi pare discendere solo un desiderio di riscatto a tutti i costi, esasperato sino al punto di calpestare il prossimo, come se dal dolore potesse nascere solamente altro dolore, e nessuna compassione.
Si è detto prima dell’ambiguità del personaggio, ma altrettanto ambiguo, in senso buono, è lo stile con cui Paolo Piccirillo racconta l’intreccio di questa e le altre vicende umane che costituiscono La terra del sacerdote. C’è l’ambiguità temporale e geografica fra quanto accade nel passato in Germania e lo svolgersi nel presente degli eventi molisani. C’è l’ambiguità di un punto di vista spesso volutamente laterale, lontano dall’oggetto o dalla scena su cui l’attenzione dovrà convergere, come se gli eventi fossero tanto accidentali quanto fatalmente inevitabili. Emblematico in tal senso il volo perlustrativo dell’airone cinerino in cerca di cibo per i suoi piccoli (pp. 206-207): il far passare più volte l’ombra sopra al corpo che scopriamo essere l’ennesimo triste cadavere; l’avvicinarsi cauto al sangue «che la terra lentamente assorbe». La sequenza asettica di movimenti dell’airone ci racconta, senza dirlo, quanto è successo qualche ora prima. Un’altra ambiguità capace di aumentare la forza comunicativa di un romanzo che non lascia indifferenti.

Paolo Piccirillo, La terra del sacerdote, Vicenza, Neri Pozza, 2013.

mercoledì 16 luglio 2014

Tre nubiani ben dotati


In un periodo non troppo lontano durante il quale ilVoltaPagine riusciva a recensire con una discreta frequenza, accadeva che gli editori inviassero qualche esemplare delle loro novità, chiedendo in cambio una lettura e un commento. In genere accettavo sempre, senza preoccuparmi troppo se fosse quello il modo migliore per impiegare il mio tempo. Ma fino a circa tre anni fa si trattava di ricevere in omaggio un libro cartaceo, ed era sempre e comunque una buona notizia per un feticista dell’oggetto libro. In seguito si passò alla versione digitale e la ricezione del pdf dimostrò tutta la sua natura di procedura tanto rapida quanto insipida. A quei libri avuti in allegato non riesco tuttora ad affezionarmi, non so dove salvarli, mi scordo d’averli, figuriamoci di leggerli. Uno solo ha fatto finora eccezione, dunque mi pare giusto tributargli qualche riga.

Lo strano caso dei tre nubiani ha galleggiato per mesi sul mio desktop e di tanto in tanto lo andavo a riaprire, leggevo un po’ riprendendo il filo, mi facevo due risate (grazie in particolare a qualche metafora fulminante) e chiudevo, non prima d’aver salvato il punto d’arrivo con un segnalibro virtuale. È stata una lettura che dire dilatata è dire poco, ma la colpa è mia, e soprattutto del mio rapporto difficile con il supporto digitale. La colpa è mia e non del romanzo che, a suo modo, ogni tanto riusciva a farmi ricordare della sua presenza. Dunque non ho rinunciato e clic dopo clic sono giunto all’epilogo dell’unico vero romanzo erotico/pornografico che mi è capitato di leggere nella mia vita. L’incertezza nella definizione risulta inutile se si pensa all’asserzione secondo cui la pornografia è l’erotismo degli altri, ma se il termine consueto credo sia appunto ‘erotico’, nel caso specifico mi parrebbe davvero di fare un torto all’autore, Francesco Signor, non utilizzando il vocabolo ‘pornografico’. Perché nello Strano caso la protagonista e narratrice Ana (già di questa scelta si potrebbe parlare) si dimostra ragazza senza peli sulla lingua, almeno in senso metaforico, e posseduta da fantasie che sconfinano decisamente nel genere suddetto. 
In un suo celebre saggio Umberto Eco segnalava, quale caratteristica peculiare della pornografia, la sostanziale futilità della trama. Seguendo tale prospettiva il romanzo in questione risulta essere molto meno pornografico di altre opere che si trovano impilate in bella vista in tante librerie. Ci sono infatti personaggi ben caratterizzati, caricaturali ma credibili, esemplari di un ambiente di periferia non solo cittadina ma anche umana, dove i comportamenti sono sempre al limite, eppure ogni evento alla fine è vissuto quasi con leggerezza, come se vedere quel limite così da vicino avesse reso meno spaventoso e spiacevole doverlo valicare. Non mancano pestaggi, turpiloqui, sodomizzazioni e chi più ne ha più ne metta, eppure appaiono quasi sempre giustificati rispetto alla vicenda che è un giallo in tono minore, una storia dalla suspense modesta ma non disprezzabile. L’autore insomma si voleva divertire e lo dimostra fin dalle prime righe, perché chiedergli di più?
Un dubbio mi rimane. Se Ana e la sua amica Cate, ragazze sboccate e allegramente ninfomani, non risentano troppo della mentalità maschile dell’autore. Appaiono infatti così ‘estreme’ da perdere sfumature, mentre le sfumature sono tratti tipicissimi del mondo femminile. Nel via vai circense a cui si assiste fra i rottami dell’autodemolizioni Grasso, direi che è proprio la femminilità a mancare, e d’altronde è quello che quasi sempre accade nel mondo della pornografia.

Francesco Signor, Lo strano caso dei tre nubiani, Campobasso, 'round midnight edizioni, 2013.

mercoledì 19 febbraio 2014

La fine del cavallo


Ho un metodo infallibile per stupire il mio interlocutore. Dirgli, senza mentire, che non possiedo un’automobile. Ho trovato il modo di farne a meno, mi muovo con altri mezzi, improvviso, sta di fatto che, nel bel mezzo di qualunque conversazione con persone recentemente conosciute, cerco sempre di infilarci questa informazione che fa davvero effetto, ed è pure un po’ snob, lo ammetto, ma abbiamo tutti le nostre debolezze. Il punto è però un altro: pensare ad una vita senza automobile è per molti davvero straniante. Facciamo fatica ad immaginarci privi di quella appendice meccanica perché le automobili sono divenute elemento costante e consueto del quotidiano, e ci stupiscono solo quando non ci sono (il fascino di Venezia è anche il fascino di una città senza automobili).
Gli attori di teatro conservano un’espressione che è eredità di un mondo antico. Prima dello spettacolo, per augurarsi il successo, si dicono a vicenda: “merda, merda, merda!”. Lo dicono ancora oggi, benché non abbia più molto senso, dato che l’escremento in questione era quello prodotto dai cavalli che conducevano le carrozze dei signori a teatro, e tanta merda voleva dire tanti cavalli, tante carrozze, tanti spettatori. Poco più di cent’anni fa le strade erano ancora territorio dei cavalli, e l’inquinamento era la puzza del loro sterco, fastidioso ma più sano, e i parcheggi brulicavano di mosche. Poi le cose cambiarono, il mezzo meccanico arrivò ad affascinare tutti e fece piazza pulita, anche fuor di metafora. Dopo la Grande Guerra – che oltre ad essere la prima guerra mondiale, fu la prima guerra di automezzi – il destino del cavallo quale mezzo usuale di trasporto apparve segnato. Ma la storia era iniziata ben prima, già alla fine dell’800.
Con l’accordo siglato a Vero Beach in Florida poco prima di capodanno, grazie al quale ha acquisito il controllo di Chrysler, la Fiat si è guadagnata una visibilità internazionale mai avuta prima. L’azienda, che nel 2004 era sull’orlo della bancarotta, oggi è la settima casa automobilistica nel mondo. Siamo al coronamento di una vicenda industriale longeva e gloriosa, l’ultima conquista di un marchio che è fra gli ambasciatori del made in Italy e dovrebbe rappresentarne il lato migliore. Ma a incombere sulla sua origine, c’è un mistero tragico che si dipanò proprio nel momento in cui avveniva il passaggio del testimone: quando l’automobile uccise la cavalleria.
È curioso che la vicenda romanzata da Giorgio Caponetti abbia come perno principale un personaggio che incarnò in sé entrambi i mondi. Emanuele Cacherano di Bricherasio è un nobile piemontese, ufficiale di cavalleria, amico fraterno di Federigo Caprilli forse l’ultimo campione di equitazione ad essere accolto in società come una star. Bricherasio nasce dunque aristocraticamente issato a cavallo, eppure ha idee progressiste, è affascinato dai progetti di sviluppo industriale e coltiva il sogno di fondare una casa automobilistica. Ci riesce nel 1899: nel suo palazzo torinese nasce la Fiat. Ma sulle strade attorno alla città sabauda un altro ex ufficiale di cavalleria si dimostra preda del fascino della velocità, è Giovanni Agnelli che gongola per i premi conquistati in gara. Torino in quel periodo è un gran fermento, e il romanzo è anche uno spassionato atto d’amore verso la città; le sue tradizioni e le sue atmosfere sono messe in scena con meticolosa devozione.
Bricherasio e Agnelli sono destinati ad incrociarsi, e alla fine a scontrarsi: troppo lontane le concezioni industriali, troppo diversi l’estrazione sociale e il retroterra culturale. Bricherasio ha la nobiltà del gesto, un gusto romantico dell’impresa; Agnelli è pragmatico, ansioso di raggiungere gli obiettivi, assolutamente privo di cavalleria (volendo giocare con le parole). Le due storie sono raccontate in parallelo, partendo da molto lontano e intrecciandole con altre, così Caponetti gestisce e dispiega una gran mole di informazioni, frutto di attente ricerche, con il rischio tuttavia di rallentare il ritmo, di eccedere nel didascalismo. Meglio correre avanti veloci, come cavalli lanciati al galoppo o auto in gara sulla pista, ansiosi di bruciare le tappe di una sfida a distanza dalla quale nascerà un marchio destinato a fare storia, nonostante gli eventi tragici e mai del tutto chiariti che accompagnarono i suoi primi anni.

Giorgio Caponetti, Quando l'automobile uccise la cavalleria, Milano, Marcos y Marcos, 2011.