mercoledì 29 luglio 2009

La morte ci aspetta, ah ah!

Solo lo sciocco non lo sa, che ci aspetta la morte. Tutto è vacuo, inconsistente, al cospetto della falce rabbiosa; tutto svapora al solo pensiero, ancora prima del suo arrivo. Chi avrà dunque l'illusione di sopravviverle? Lo sciocco di natura (o reso tale dal vino); gli amanti eternamente abbracciati; il filosofo. Gli altri sono smarriti nella notte del trapasso, guardano il cielo al passaggio della cometa, in preda al terrore si fanno domande a cui nessuno risponde. Niente sanno dire il re e i suoi consiglieri, la loro pochezza, che è pura esteriorità, si palesa e diventa impietosa critica: «Dov’è il Principe (...) ?» «Con il vostro permesso, credo che, sofferente alle budella, sia andato a riflettere in un luogo ove i principi vanno senza seguito», «Su un trono» (pp. 109-110).
L’ubriaco Porponaso si salva, perché annebbia lo sguardo e prende tutto con leggerezza, e viene preso in simpatia, anche se ciò non basta a sollevarlo dalla peggior tortura: «Non avrai più sete» gli viene promesso, «Niente sete?» risponde il nostro stringendo il collo della bottiglia «Monsignore, parlavate di morte, non di castigo!» (p. 72). Accusato d’essere stupido, così dice a Necrozotaro, al Grande Macabro: «Rendetelo sensato, sì, e l’umanità potrà contare su un cattivo in più» (p. 68). Insomma ad essere sobri non ci si guadagna nulla, la scelta si restringe fra divenire malvagi o affondare nella disperazione. Per sua natura l'uomo cerca soluzioni alternative, ma anche la ninfomane Salivane è sconsolata: aver sposato due filosofi ha trasformato la sua vita in un calvario. Eppure nemmeno il sesso sfrenato può salvarla, perché esso rende ansiosi, dipendenti, incapaci di trovare pace.
Il desiderio di rileggere La ballata del Grande Macabro mi è sorto grazie all'opera quasi omonima di Gyorgy Ligeti, messa in scena qualche settimana fa al Teatro dell'Opera di Roma (con disappunto di qualche spettatore tradizionalista che, fra un atto e l'altro, ha gridato: «Viva Verdi!»). C'era una donna enorme sul palcoscenico, inattraente, debordante, fatta per essere penetrata da un esercito di uomini alla disperata ricerca di un’eternità apparente. Il suo seno era il sepolcro, come se ciò che era stato creato per nutrire la vita, si fosse trasformato in un ricettacolo di morte. In realtà il «sepolcro (...) è una camera per metamorfosi» (p. 62), si tratta di dare una nuova forma alla vita. E questa è forse la prospettiva finale delle pièce di Michel de Ghelderode.
Confesso un debole per il teatro irreale, cosiddetto assurdo, di Beckett, di Pinter o di Ionesco, un teatro affidato ad improbabili personaggi: il guardiano che fissa un secchio vuoto; i compari che attendono all’infinito presso un albero; il pompiere sempre sul punto d’andarsene. È un teatro che sembra anni-luce lontano dalla realtà, eppure in esso la realtà è distillata, spremuta, come se le avessero tolto ogni orpello per offrirla nella sua essenza più pura. Nello svolgersi della lettura tutto appare un po’ insensato ma, nel momento di lasciare l’ultimo atto, davanti ai nostri occhi il velo si straccia e la realtà è davvero lì, visibile, più vera di prima.

Michel de Ghelderode, La ballata del gran macabro, Torino, Einaudi, 1975 (pubblicato in coppia con Magia rossa, nella "Collezione di teatro"; oggi è fuori catalogo e non credo sia stato più ristampato)

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: all'avventore abituale del bar sotto casa

venerdì 3 luglio 2009

Il buco al centro del mondo

Anche se insidiata dalle metropoli d’Oriente, New York rimane nel nostro immaginario il centro del mondo, e la Grand Central Station è uno dei suoi luoghi simbolo, una sorta di centro del centro. Milioni di persone transitano attraverso di essa, tra una partenza e un ritorno, nell'attesa di un amico o di un amore, tutti disposti ad abitarla, ma solamente per lo stretto necessario. Nell’avversa fortuna lo stretto necessario a volte si allunga indefinitamente, ed è così che senzatetto e barboni finiscono per eleggere la Grand Central Station come dimora stabile: nella sua grande pancia sotterranea svernano gli esclusi, e fra loro c’è pure Lee Stringer. Vagando tra i cunicoli ha scovato un buco e l’ha fatto suo, un anfratto disumano dove può solo leggere o dormire, perché se vi porta del cibo finisce per soccombere ai ratti.
In tutta sincerità lo ignoravo, ma una matita può avere almeno due usi principali e, per uno come Stringer, scrivere è solo il secondo. Una matita è lo strumento ideale per fare pressione sui filtri prima di farsi di crack; inoltre ha il grosso vantaggio di risultare del tutto innocua quando la polizia te la trova addosso. Questa è la sola ragione per cui Lee Stringer, stagione dopo stagione, si porta dietro la sua matita, almeno finché arriva la rivelazione: una matita può anche scrivere.
Se ci fate caso, molti autori americani contemporanei paiono arrivare alla scrittura attraverso un progressivo processo di sottrazione, e non solo in senso stilistico, ma anzi soprattutto in senso esistenziale. Mentre alle nostre longitudini lo scrittore è uno che si ingozza di impegni, letture, storie, oltre oceano lo scrittore realizza d’essere tale quando perde tutto, quando nessuno lo chiama più, quando il futuro è azzerato, quando sembra davvero che sul fondo del barile non vi sia oramai nulla da raschiare. Penso a Carver che spende il suo ultimo cent in una lavanderia a gettoni e fissa l’oblò chiedendosi cosa fare; penso a Augusten Burroughs mentre guarda inebetito il pavimento del suo salotto completamente occupato da bottiglie vuote; penso a Lee Stringer che vive in un buco al centro del mondo. Uomini all’apparenza condannati al definitivo fallimento o ad una devastante ed esiziale dipendenza.
Il meccanismo salvifico della scrittura trasforma le loro tragiche esperienze personali in bacini preziosi di idee, sublima l’abiezione in arte e, appunto, li salva. D’altronde si sa che ai margini della società, nei luoghi dei reietti, si trovano spesso i migliori personaggi, racconti di vite costellate da situazioni paradossali. Chi scende fino a lì e poi riesce a risalire, porta con sé un bagaglio necessariamente ricco. Ora però – ed è questa la maggior pecca nell’Inverno alla Grand Central – non tutto quello che abbiamo sentito e vissuto può divenire de plano materia di romanzo. C’è una sorta di presunzione narrativa nella costruzione di questo libro: l’idea che bastino frammenti di storia per assemblare una trama, che basti raccontare di gente vera, di fatti reali, per toccare un lettore. La medesima presunzione colpisce l’autore/protagonista Stringer e lo rende, se non antipatico, perlomeno lontano. Qual è il viaggio dell’eroe? Egli è sempre uguale a sé stesso, non soffre, si bea d’essere a suo modo arrivato: ero un barbone, ora sono uno scrittore. Che bravo!
È curioso che Kurt Vonnegut, nella benevola ma smilza introduzione, citi Jack London. Perché il primo mio pensiero, nel leggere, è andato proprio ad un’opera di Jack London, a quella sorta di docu-fiction che è Il popolo degli abissi: l’esperienza di travestirsi da marinaio per affrontare nel 1902 i sobborghi di Londra, per vivere miserabile tra i miserabili e ricavarne alla fine un racconto frastornante e a tratti attualissimo. Ho visto delle affinità, ma la penna (non la matita) è un’altra.
Stringer ha a volte uno sguardo cinico sul mondo di cui scrive, distaccato al limite del disprezzo, come se lo studiasse ma avesse scordato d’averne fatto parte. La sua è una cronaca fredda, con uno stile adatto a Street News – il giornale di strada che divenne la sua “casa” dopo essere uscito dal buco –ma che tende ad appiattire tutto sullo stesso piano. Diverso era lo spirito di Jack London. Quando lo ammonivano: «Dicono che ci sono luoghi nei quali la vita di un uomo non vale un soldo», lui rispondeva: «Sono proprio i posti che voglio vedere».

Lee Stringer, Inverno alla Grand Central, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 272.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: alla zia maniaca dell'ordine e della pulizia