domenica 30 ottobre 2011

La colpa è come il fele nella gola

a F.B., avvocato e papà

 Quando la luce che entra dalla finestra va a illuminare una serie infinta di soldatini intagliati nel legno, le uniche parole che escono dalla bocca dell’avvocato Bastianu Satta (sì, proprio lui!) risuonano quasi banali: «Sono bellissimi». Piove che dio la manda nella Sardegna barbaricina di fine ’800. È una pioggia che non lava per mostrare. I dettagli, invece, sono nascosti dalle incerate, dai cappelli a falde e dagli ombrelli. È pioggia, ma sembra Sangue dal cielo.
La terra di Barbagia è atavica e taumaturgica. Vibra «come una scarica di pura elettricità» e corre «alle gambe e agli inguini e poi ai lombi e allo stomaco sino alle spalle» (p. 70). Su quella terra corrono istinti primigeni: dolore, menzogna, colpa, paura, amore. E morte. Quella che si avvicina, misteriosa, a tre fratelli, già orfani, Elias, Ruggero e Filippo Tanchis. Elias scolpito nella durezza di una parete umida, unta e fredda di un mattatoio, Ruggero ritratto nell’«attrazione ipnotica delle mani tozze, incallosite» (p. 81) quando queste volteggiano seguendo la melodia della musica e Filippo dipinto in un corpo debole e in una mente fragile. A Bastianu, tuttavia, quella morte ambigua non gli torna. Sogna in quelle notti scivolose. Sogna dei nonni, jaju e bisaju Gungui. Sembra di vederli, come dèi penati, l’uno «piccolo e secco come il tronco di ginepro spellato», l’altro «con quel viso di pietra sbugnata a scalpello» (p. 10). E sogna del padre, che silenzioso siede in cucina. Non c’è pace su quella terra e non ve n’è per Bastianu. Soltanto la Musa e i versi lo consolano. Forse una donna in attesa a uno spettacolo di jongleries, dove il trucco si confonde col reale.
La Barbagia è mito, è leppa e coltello, è cartucciere e doppiette. Ma è anche terra di parola, di giuramenti e di onore. Ha giurato Franceschina Pattusi e ha giurato Cosimo Ruju. A quei patti non verranno meno. La parola va più a fondo del coltello, buca più in profondità dello sparo. È lasciapassare per richieste impossibili. Quando non detta, talvolta, rende più semplice il sonno, e il sogno. 
(post di Salvatore Sansone)

Marcello Fois, Sangue dal cielo, Torino, Einaudi, 2010.

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Da regalare: a chi non ama la pioggia

sabato 22 ottobre 2011

Non allacciate quelle stringhe!

Una teoria unificata della fisica. Una teoria che «intessa la trama delle forze e l’ordito dei costituenti della materia in un unico arazzo». Einstein vi dedicò, invano, gli ultimi trent’anni della sua vita. Di più: una teoria che sani anche il conflitto esistente, in cosmologia, tra Relatività e Meccanica Quantistica… Forse oggi l’abbiamo: è la teoria delle superstringhe, o M-teoria, o Teoria del Tutto (TdT). È la più ambiziosa teoria della fisica contemporanea e Brian Greene, uno dei principali esponenti e sostenitori, ce ne racconta nascita (1968) e sviluppi, fino al 1999. Contrariamente a quanto normalmente accada per i saggi divulgativi, non si parla qui di una teoria completamente definita, con solide conferme sperimentali e largamente accettata dalla comunità scientifica, ma di una teoria in fieri: della cui creazione veniamo resi, in certo modo, partecipi.
Capitoli brevi, introduzione di ogni argomento per problemi, esempi tratti dalla quotidianità, puntuali sintesi di ciascun discorso affrontato. Ad un’esposizione divulgativa eccezionalmente chiara – ma scientificamente rigorosa – della Teoria della Relatività e della Meccanica Quantistica, segue la presentazione della TdT. «Per la TdT, gli ingredienti fondamentali del mondo non sono particelle puntiformi, ma sottili filamenti – simili ad elastici infinitamente piccoli – che vibrano continuamente: le stringhe. (…) Come i diversi modi di vibrazione di una corda di violino danno origine alle varie note musicali, così i diversi modi di vibrazione di una stringa danno origine a varie particelle, la cui massa e carica sono determinate dalle oscillazioni della stringa stessa. (…) La stessa idea si applica alle forze: ogni particella mediatrice di forza è associata ad un particolare modo di vibrazione. (…) Tutte le forze e tutta la materia sono le note che le stringhe suonano».
Elegante come promette il titolo, ma per niente facile non appena si scenda poco più in profondità. Innanzitutto la TdT prevede lo stravolgimento totale della concezione di spazio-tempo lasciataci in eredità da Einstein (già di per sé così lontana dal nostro senso comune): si parte dal rimettere in discussione il numero di dimensioni del nostro universo, quindi la sua geometria, per giungere inevitabilmente a porsi domande, di carattere scientifico-filosofico, sui limiti della conoscenza umana. La matematica che sottosta alla teoria poi è molto complessa, nonostante presentata in questa sede in maniera divulgativa: mediante disegni e esemplificazioni tratte dalla quotidianità (il lettore esperto troverà nelle note soddisfazione alla sua sete di conoscenza). Per chi non si lascia scoraggiare dalle difficoltà (o per chi le aggiri), in premio gli ultimi, affascinanti, tre capitoli che trattano in maniera approfondita di buchi neri, teoria del Big Bang e cosmologia in genere; presentando le soluzioni proposte dalla TdT e i problemi che restano tuttora aperti. Per molti versi questo libro costituisce infine un’occasione rara per gettare uno sguardo all’interno della comunità scientifica e scoprirne metodologie, abitudini, e vezzi.
Tutto bello dunque? Mica tanto. Rimanere ammaliati dalle parole di Greene rischia di far perdere lucidità nell’espressione del proprio giudizio. C’è chi sostiene infatti che L’universo elegante non è che un prodotto propagandistico, ben fatto, del potente gruppo di ricerca che sostiene la TdT. Un gruppo potente ma che comunque ha bisogno di consenso, anche di pubblico, per dirottare verso di sé una notevole mole di denaro, a scapito di altri gruppi di ricerca meno affermati. Tuttavia la TdT, sinora, non ha avuto alcun riscontro sperimentale. E questo è un fatto abbastanza grave per una teoria fisica, perché la fisica è una scienza sperimentale. Le teorie non sono monoliti né sono vere a priori: esse dovrebbero fornire descrizioni di fenomeni conosciuti e consentire la previsione di fenomeni non conosciuti. A quanto risulta la TdT non ha consentito, a tutt’oggi, niente di tutto ciò. Allora, cosa abbiamo letto?
(post di Alessandra Angelucci)

Brian Greene, L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Torino, Einaudi, 2003.

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Da regalare: a un calzolaio estroso

mercoledì 12 ottobre 2011

Come toccare il fondo, ridendoci su

Ad un certo punto uno accende il televisore e sente dire, testuale: «Più in alto vuoi andare, più devi passare sui cadaveri (…) chi è onesto non fa il business (…) se vuoi guadagnare devi scendere in campo e vendere tua madre». La conclusione poi, è magistrale: «… ed è giusto sia così». A parlare è la escort Terry De Nicolò, colei che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo trovando il coraggio di sollevare i veli sull’ipocrisia. Perché uno sente dire queste cose e pensa fra sé: «Finalmente ci siamo arrivati, finalmente abbiamo di fronte l’esito estremo e inevitabile dell’accettare tutto un sistema di cose». Ora la letteratura – come spesso accade – riesce a indovinare il futuro, soprattutto perché non ha paura di eccedere, di inseguire l’inverosimile; un inverosimile che un po’ alla volta, in qualche caso, diventa persino troppo vero.
Che la festa cominci è un susseguirsi di scene e vicende volutamente oltre il limite del sensato,  un racconto rocambolesco come non t’aspetteresti da Ammaniti, e che strappa ancor più qualche applauso. Solo tentare di descrivere i protagonisti basta ad introdurci in un mondo comico e surreale: da un lato un satanista all’amatriciana, Saverio Moneta detto Mantos, dall’altro Fabrizio Ciba, uno scritttore-vip dilaniato dal dilemma se ritirarsi in una torre d’avorio alla J. D. Salinger o tuffarsi del marasma del bel vivere sulle orme di Briatore. Entrambi si soffermano pensosi, a tratti, provocando riflessioni come la seguente: «Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico. Se non esistono più regole etiche ed estetiche le figure di merda decadono di conseguenza» (p. 187)
Il luogo dell’azione è simbolico, Villa Ada, uno dei parchi pubblici più noti di Roma, nella finzione divenuto giardino privato di uno schifosamente ricco palazzinaro, una sorta – ma sì, inutile nascondersi – di proiezione capitolina della tenuta di Arcore, con annessi e connessi all’ennesima potenza. Viene organizzata una grande festa a cui “non si può mancare”, con un’imperdibile sfilata di gente quasi totalmente inutile, buona appena ad esibirsi seminuda sulle copertine dei rotocalchi. Ma deve essere, nelle intenzioni dell’organizzatore, una faccenda enorme e memorabile, qualcosa da raccontare a figli e nipoti, la festa del secolo. La grandeur è spinta tanto oltre che, alla fine, tutto sfugge di mano e crolla rovinosamente, trascinando gli invitati, ‘crema’ della società occidentale, ad un livello di indicibile bestialità. Questa grande sarabanda, questo circo irrefrenabile, e soprattutto l’epilogo della vicenda, rappresentano forse la tabula rasa dei valori del nostro tempo? Forse. Tuttavia rimane il sospetto che il peggio non sia un dato oggettivo, quanto piuttosto un grottesco ripiego all’amarezza della solitudine, alla pena per l’amore mancato, sensazioni di cui tutti i personaggi (tutti noi?) sembrano soffrire.
Uomini e donne affondano nel fango sotto il peso dello sfoggio, sino a trasformarsi paradossalmente in ciò che erano quando vivevano in uno stato primitivo, anzi uno dei leit-motiv della serata è proprio la caccia, d’ogni tipo, dalla volpe alla tigre, fino anche all’uomo. Eppure, quella che sembra la definitiva pietra tombale di una società civile, potrebbe essere – suggerisce Ammaniti – ‘solo’ il necessario purgatorio per una nuova migliore età. C'è da sperarlo, anche se, ad ascoltare Terry De Nicolò...

Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Torino, Einaudi, 2009.

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Da regalare: all'aspirante velina