giovedì 28 gennaio 2010

Un'insensata pruderie

Ad anticipare di qualche giorno la giornata della memoria, è arrivato il polverone sul Diario di Anne Frank. Se nel nostro paese il dialogo latita, molto lo si deve all'uso invalso di sparare prima di chiedere “chi va là”. Ciò accade ad esempio con quasi ogni esternazione di cui si faccia portavoce un esponente della Lega Nord. La levata di scudi è immediata e furibonda, con il risultato di agitare minacciosi stendardi a volte senza sapere bene perché e soprattutto senza entrare davvero nel merito della questione. Quando il deputato Paolo Grimoldi, assillato da un gruppo di animosi genitori, ha presentato un'interpellanza al ministro della pubblica istruzione contro la scuola elementare “Lina Mandelli” di Usmate Velate, deve aver pensato di avere dalla sua tutte le sacrosante ragioni, e mai si sarebbe aspettato una reazione tanto virulenta da produrre un titolo quale  «Abominevole lega», apparso in qualche testata on-line. Ecco: prima sparare – e sparare pesante – poi magari pensare. In effetti ci sono diverse ragioni per ritenere “abominevole” un aggettivo usato in questo caso del tutto a sproposito.
La colpa della scuola in questione sarebbe stata quella d'aver previsto per i propri alunni la lettura di alcuni brani scabrosi del Diario di Anne Frank presenti nella nuova edizione recentemente pubblicata da Einaudi. Diciamo innanzitutto che – a sentire le parole di Marilena Riva, sindaco della cittadina lombarda – c'è la reale possibilità che alla fine della giostra la notizia si riveli del tutto infondata; nella scuola infatti c'è un progetto che prevedeva letture dal Diario, ma nessuna relativa ai passi 'incriminati'. È curioso poi che i genitori – categoria oggigiorno fra le più feroci – abbiano scelto di scomodare un deputato anziché discuterne prima con i responsabili dell'istituto, tanto che il povero Grimoladi, a quanto leggo, avrebbe tentato in prima istanza di ricondurre mamme e papà a più miti consigli, invitando senza successo ad una conciliazione. Ho molta fiducia nelle scelte pedagogiche degli insegnanti italiani e penso che tutta questa vicenda sia frutto di diversi fraintendimenti intrecciati. Da sempre il Diario gira nelle scuole d'Italia e mi immagino che le brave maestre di Usmate Velate l'abbiano proposto ai bambini nel modo in cui andava fatto. Nell'interpellanza al ministro si contesta il fatto che questa lettura non è inerente al programma di storia, ma, che io sappia, dal punto di vista didattico essa rientra nel programma di italiano, in quanto esempio classico di testo in forma di diario. Tuttavia anche queste sono quisquilie e lo stesso Grimoaldi, tacciato di essere quasi un negazionista, ha affermato: «sull’importanza e sulla testimonianza del Diario di Anna Frank credo che nessuno abbia da eccepire». Insomma tante notizie che non lo erano (come direbbe Luca Sofri) e un gran parlare a vuoto, mentre pochi o nessuno si sono preoccupati di prendere in mano il libro, il primo pensiero del lettore esigente.
Come è facile immaginare, la storia del Diario di Anne Frank non è affatto lineare: di esso esistono sostanzialmente tre versioni con rilevanti differenze fra l'una e l'altra che spesso vanno a toccare proprio i brani che hanno turbato il sonno di Usmate. Quella che da sempre si legge fra i nostri banchi è una versione ridotta, molto lontana da quella integrale uscita da Einaudi nel 2002. Non mi stupirei che la distinzione fosse sfuggita a molti, magari all'insegnante medesima a cui interessavano solamente specifiche lettere che già conosceva dalla versione precedente. Sennonché il libro 'nuovo' finisce nelle cartelle dei bambini, un genitore lo sfoglia e incappa nella lettera del 24 marzo 1944: «Tra le gambe in realtà ci sono una specie di cuscinetti, soffici, anche pelosi, che quando si sta in piedi sono attaccati, allora non si vede quel che c'è dentro. Se ci si siede loro si separano e in mezzo è molto rosso, carnoso e schifoso. Nel punto più alto, tra le grandi labbra, c'è una piegolina di pelle, che a guardare meglio è una specie di bollicina, e cioè il clitoride (…) Il buchino è talmente piccolo che non riesco quasi a immaginare come faccia un uomo a entrarci e, a maggior ragione, un bimbo intero a uscirne» (p. 220). Ne seguono lo sconcerto e lo scandalo che sappiamo. Con quanto senso?
Sorvolando sul fatto che la pagina in oggetto probabilmente a scuola non è mai stata letta, trovo che il bombardamento televisivo medio a cui è sottoposto oggi un bambino di quarta elementare lo renda molto ben attrezzato nei confronti di un testo del genere. Soprattutto mi sembra di nuovo di trovarci di fronte a parole usate in maniera impropria: «credo che quelle pagine per bambini di nove anni si possano definire hard» (Grimoldi, per favore!). Un lieve smarrimento lo concederei, ma forse più di sorpresa per il fatto di trovare una tale descrizione in un oggetto “scolastico”, piuttosto che di vero turbamento per una disamina tanto minuziosa quanto innocente. Non vorrei tuttavia si esagerasse in senso opposto, come in parte ha fatto il dirigente vicario dell'istituto Claudio Redaelli parlando di: «descrizioni in termini talmente ingenui». All'epoca Anne aveva comunque quattordici anni, e cinque anni di differenza sono un abisso nel delicato passaggio fra infanzia e adolescenza. Insomma, prendiamo un bel respiro e cerchiamo serenamente di dare delle misure. È giusto che Anne sia quello che era: una ragazzina alla ricerca del suo primo amore e alle prese con le prime pulsioni sessuali (così infatti viene rappresentata, guarda caso, in un recente sceneggiato trasmesso dalla BBC). È altresì giusto però raccontare a bambini di nove anni storie da noi adulti giudicate adatte alla loro età, al di là di cosa poi vedano o non vedano in TV, perché c'è una bella differenza fra ciò che ascoltiamo a scuola e ciò che sbirciamo di nascosto su un video.

martedì 12 gennaio 2010

MangiaLibri

Inauguriamo con questo post il MangiaLibri, una rubrica di Andrea Pugliese dedicata a tutti gli amanti della buona tavola. Ci sarà spazio per libri di gastronomia, di tendenze culinarie, di follie mangerecce. Altre buone scuse per mettersi a leggere.

Leggere a fuoco lento
Una volta letti il 95% dei libri perde d’utilità. Molti la pensano diversamente ma io non ho abbastanza spazio in questa vita per rileggere qualcosa a meno che non sia un capolavoro assoluto. Anche in quel caso, il volume rimane sullo scaffale più per il desiderio di rileggerlo che per una vera disposizione a farlo; se poi davvero il libro deve essere letto ancora, sarà lui in qualche modo a ritornarmi tra le dita.
Eccezione a questa regola sono i libri d’arte e i manuali, in particolare quelli di cucina.
Disporre di un buon assortimento di ricettari consente soluzioni d’emergenza quando si è in crisi creativa o si ha la sensazione di rimestare sempre negli stessi piatti. Ad esempio, può capitare di voler evitare la solita preparazione dell’ossobuco senza avere idea di dove andare a parare. La soluzione è magari in un bel libro di cucina fusion dove ti invitano a cuocerlo nel miele e nella salsa di soia. Se si ha il coraggio di osare, di ammettere che i milanesi non hanno il monopolio degli ossobuchi, il risultato è di una bontà inaspettata e fa riflettere su quanto la globalizzazione non porti solo danni alle culture ma possa meravigliare i palati. I libri di cucina sprovincializzano la fantasia e ci ricordano che non si mangia solo a casa propria. Ce ne sono di tanti tipi e sono diversi i criteri per sceglierli. Il prezzo non ha nulla di logico. Alcune delle migliori guide sono quelle della vecchia serie 'Millelire': non sbagliano una dose e non sprecano parole inutili.
L’altezzosità che da noi fa preferire in cucina la sostanza alla forma riecheggia anche nei libri. È raro trovare un libro che sia assieme valido, bello e appetitoso.
Questo Cookaround. La cucina degli italiani è una splendida eccezione. Ricette pensate, cucinate e gustate nelle case d’Italia dice il sottotitolo, e si sente. Il libro è onesto e straborda di passione senza concessioni alle mode. È una rielaborazione di ricette provenienti da un blog decennale quale Cookaround e questa sua estrazione popolare è evidente. È fondato su una partecipazione popolare che non appiattisce il gusto verso il basso ma che, nella competizione tipica dei blogger, ha spinto verso l’alto la perfezione delle ricette stesse. Ne è esempio l’inusuale attenzione al contorno giusto per i secondi piatti e alla sua preparazione.
Basta prenderlo in mano per avere evidenza di quanto sia stato pensato a lungo nella selezione delle ricette, nel test delle stesse, nella grafica, nelle strepitose fotografie. Anche la carta è “buona”, quasi da leccare, simile a quella di D di Repubblica, per intenderci.
Il libro funziona nei suoi propositi di accendere le sinapsi del cuoco.  Leggendo le ricette tutto è chiaro, si dipana secondo le logiche naturali di chi cucina per piacere. Non ci sono gli ingredienti astrusi amati da Vissani né gli abusati richiami ideologici a dimensioni bio, light, km zero, che paiono messe lì per mortificare la buona cucina e instillare i sensi di colpa che poi danno acidità di stomaco.
Ho provato le tagliatelle di castagne con sugo di lardo di Colonnata seguite da un coniglio alla paesana. Risultato? Nessuna sorpresa, esattamente come le avevo immaginate leggendo, e questo per chi cucina corrisponde alla certezza della pena per chi mangerà.
(post di Andrea Pugliese)

Marco Colantuono, Luca Pappagallo, Cookaround. La cucina degli italiani, Roma, Castelvecchi, 2009.

Chiocciole: @@@@

Da regalare: a chi non mangia per vivere ma vive per mangiare.

venerdì 1 gennaio 2010

I libri sono multimediali

«C'erano delle ricerche che dichiaravano che l'hyperlearning era la forma di apprendimento del futuro, lontano dagli asili e dalle scuole. Con forza, quindi, lo psicologo dell'apprendimento si scagliò proprio contro questa tesi, e relazionò sulla sua esperienza nella scuola elementare, dove negli ultimi anni è diventato sempre più difficile fare lezione a causa dell'aumento della sindrome da iperattività, una evidente conseguenza dell'uso smodato della televisione e dei media in generale». Così Birgit Vanderbeke nel romanzo Sweet sixteen (Roma-Cosenza, Del Vecchio, 2008, p. 31) e, pur trattandosi di finzione narrativa, è evidente che l'analisi riflette una realtà concreta, in particolare rispetto alla crescita incontrollata avuta da internet negli ultimi anni. Certe forme di apprendimento, di acquisizione di conoscenza, sono dunque destinate ad estinguersi? I libri soccomberanno di fronte alle nuove tecnologie?
Mi pare abbastanza evidente che lo scontro fra internet e qualsiasi altro media sia di per sé uno scontro impari. In un editoriale di qualche tempo fa («Wired», n. 3, maggio 2009, pp. 11-12) Riccardo Luna affermava che, nella sciagurata eventualità d’essere costretto a rinunciare a tutti i mezzi di comunicazione tranne uno, non avrebbe dubbi nel far cadere la scelta su internet rispetto a libri, radio, televisione... Difficile dargli torto, ma si può obiettare che si tratta di una risposta furba, perché internet è un mezzo che raccoglie e ripropone, anzi potenzia, anche i contenuti generati da altri media. Internet ricicla tutto e quindi ingloba tutto, permette di leggere libri, di ascoltare radio, di vedere film, e in più crea prodotti e messaggi nuovi. All'apparenza l'epilogo è scontato. Pensare che prima o poi internet – assieme alle sue varie appendici tecno-portatili - soppianterà del tutto gli altri media risulta quasi scontato. Eppure io sono convinto che non è questo ciò che ci riserva l'immediato futuro.
C'è un dato storico evidente. Nessun media, al suo apparire, ha mai fatto tabula rasa attorno a sé. La tradizione orale non è stata cancellata dal libro, la radio è sopravvissuta alla televisione, ogni mezzo ha trovato una sua nuova collocazione, a volte perdendo parte della sua influenza o dovendo in qualche modo reinventarsi, d'accordo, ma di sparire non se n'è parlato. Mai quanto oggi i media sono integrati fra loro in una rete di reciproco scambio, teorizzata fra l'altro nel concetto di cross-media. Non vedo perché improvvisamente le cose dovrebbero andare in maniera diversa.
La multimedialità, carattere forte e specifico di internet, non è un suo carattere esclusivo. Volendo immaginare nello specifico il duello fra libro e internet, lo vedo anzi proprio come un duello fra due generi diversi di multimedialità. Perché – lasciatemi azzardare – anche il libro è un oggetto multimediale; ovviamente non come supporto in sé, ma per il fatto di finire nelle nostre mani. Noi siamo sempre più esseri multimediali, resi tali da un modo nuovissimo di apprendere e condividere la conoscenza, e tendiamo a rendere multimediale tutto ciò che solletica le nostre percezioni, benché non sempre – è qui sta la questione – con il medesimo esito.
Che multimedialità è infatti quella di internet? È una multimedialità esteriore, ipercinetica e ingorda. Ci stimola di continuo, manda messaggi infiniti, zampilla come una fontana. È giocosa e frenetica, sempre alla caccia di cose nuove; salta da un link all’altro come Tarzan fra le liane, spesso senza lasciare tempo per riflettere: raccoglie, confronta, sbuccia, morde e getta via. Sommerge a tal punto di cose da lasciarci alla fine disorientati o inebetitamente sazi.
Anche il libro, una volta aperto, richiama alla mente e ai sensi immagini, suoni, odori, evoca proustianamente informazioni, non necessariamente meno efficaci solo perché depositate dentro di noi, anziché nel database di Wikipedia. Ripeto, siamo noi oramai ad essere multimediali, ad avere innestato nel pensiero il meccanismo del link, a cercare necessariamente il collegamento. Quella del libro è perciò una multimedialità interiore, intima e personale, che pesca da un bacino di conoscenze molto più limitato, ma di certo più denso di significati per ciascuno di noi. È una multimedialità dai tempi lenti, dilatati, che non assilla chi vi si immerge, ma consente di divagare con grande libertà. Credo che il bisogno di un approccio di questo tipo non verrà mai meno: ci sarà sempre un lettore in cerca di un libro per godersi la propria multimedialità interiore.
Insomma vale sempre quanto diceva Giovanni Pozzi: «Il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace». Ed è nel silenzio che spesso nascono i nostri migliori pensieri.

Foto: Mad fools and Englishmen © James Lyon