lunedì 19 ottobre 2020

Ed era come un mal di Bosnia #3

Terza parte

(qui trovi la prima partela seconda e la quarta)

Bruma e foschia ci accolgono a Jajce, centro della Bosnia Erzegovina; la stufa a pellet nel nostro appartamento è stata accesa da poco, i muri trasudano umido. Insomma si gela. Quella fornace rimarrà in funzione per tutta la notte, con un crepitio continuo intenso e irregolare, una specie di respiro affannoso interrotto da improvvisi accessi di tosse. E noi che abbiamo guardato con sgomento le trapunte sottili poggiate sui giacigli e dunque abbiamo indossato strati di maglioni sopra ai pigiami, ci svestiremo durante un sonno turbolento. Anche Tea sarà continuamente indecisa tra il parquet e l’accoccolarsi sul letto ai piedi di Junior.

Scenari inconsueti per sensazioni primarie: freddo e fame; i taralli di viaggio hanno assolto alla loro funzione lungo la via, ma ormai abbiamo bisogno di cibo vero, caldo. In un’aria sospesa usciamo nel deserto cittadino e, costeggiate le mura monumentali, entriamo in centro per uno degli antichi varchi – scopriremo l’indomani che il nucleo originario di Jajce è una strada-segmento tra due porte, l’una di accesso al Nord, l’altra al Sud.

Nell’aria il rumore dei nostri passi e il ticchettio delle unghie di Tea; un nugolo di adolescenti vocianti passa e sparisce veloce come è comparso; costruzioni basse, pietra e legno, malta e canne, tetti spioventi, qui tra una manciata di settimane inizierà a nevicare, parecchio; il piccolo minareto in legno con altoparlante bene in vista. Poche luci soffuse, tranne un angolo illuminato da un bancomat, l’unico elemento a noi familiare in un panorama alieno, una visione alla Juan Miranda di fronte alla Banca di Mesa Verde in Giù la testa di Sergio Leone. La valuta corrente in Bosnia è il marco, valore 51 centesimi di euro, ma noi in tasca abbiamo la nostra moneta unica e le kune croate; richiamo alla mente quanto letto nella guida: “Nei centri più grandi spesso sono accettati anche gli euro, ma potreste ricevere marchi in resto; pos e bancomat sono generalmente molto diffusi”. La macchina elettronica per il prelievo di denaro, l’unico vero punto luminoso sul nostro orizzonte visivo, emana aloni verdi e mistici: vado a procurarmi quattrini autoctoni. E mi ritrovo in mano volti ignoti che mi guardano dal mazzetto di banconote color pastello. Dopo quasi 20 anni di euro, questo fatto dei soldi diversi mi impressiona sempre; proprio come la frontiera, il limes mentale che si fa fisico, tangibile, sotto forma di file di camion, di automobili, di tempo perso.

Fame, necessità di caldo e di cibo: l’altro punto luminoso all’orizzonte è un locale rischiarato da lampioncini. Sarà la via più rapida per nuovi attimi di straniamento e per un ulteriore confronto con il relativismo culturale. «Portate fuori quel cane e andatevene anche voi, immediatamente!»: gli occhi e la bocca dell’oste gridano, ma il suo sguardo luciferino urla ancora di più. Egli presta nel modo peggiore corpo e voce a quanto letto nella guida: Bosnia, luogo moderatamente pet-friendly e, in ogni caso, prima chiedere. Nella bruma di Jajce, non potevamo ancora sapere che Tea a Sarajevo avrebbe riscosso diffuso successo tra grandi e piccini, tanto stupiti ed emozionati nel vederla da richiedere spesso foto e “posso fare una carezza?” nella lingua dei gesti e dei sorrisi. A oggi, rimangono ignote le ragioni di tanta simpatia, se l’aspetto dolce di Tea, se la combinazione tra pelo nero e guinzaglio/imbracatura rosso fiammante, se la sua sola presenza a spasso per le strade di Sarajevo (in effetti, di cani domestici in giro da quelle parti non ne abbiamo visti granché).

A Jajce, in quel momento, però, tutte e quattro usciamo dal locale con la coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Non facciamo in tempo a ripigliarci dal rifiuto che ci viene incontro lui: il cane randagio. Eccola qua, l’altra questione critica segnalata dalla guida, materializzata davanti a noi nel cupo deserto novembrino della città alle ore 22. Un enorme placido arruffato cane fulvo, dal muso bonaccione e dalle zampe corte. Calma e gesso, sembra tranquillo, annusa tutte, continuiamo a camminare; Tea per indole ostenta indifferenza e contegno aristocratico, non un abbaio non un ringhio; nessuno fiata, né umani né mammiferi a quattro zampe. Poi Junior, con abile e calma manovra, si prende in braccio la barboncina: siamo nel frattempo arrivate a una panetteria, ma vista la reazione dell’oste di poco fa, meglio non rischiare, loro rimangono fuori insieme al randagio fulvo, più curioso che aggressivo.

Morale: consumiamo la lauta cena acquistata a caso – impossibile decifrare i cartellini esplicativi in bosniaco – a base di pane al burro, pane al sesamo, pane dolce, una specie di rustico, accasciate sul divano della nostra momentanea casa, in compagnia della stufa a pellet ribattezzata Efesto.

(Post e foto di Eva Ponzi)

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto

venerdì 25 settembre 2020

Come sarebbe, buffo?

Quando nella notte dei tempi gli elfi neri quattrocchi forgiarono, invece di martelli frantumatori, le Frasi Fatte da disseminare ad ogni anfratto di mondo per soccorrere l'esigenza di sintesi da parte di spettatori esultanti, non mancarono di pensare al tizio (moi) che, una manciata di exaannum dopo, alla fine della visione integrale della serie tv «I Soprano», si sarebbe trovato ad esclamare: "Ecco, Friðþjófr, un'opera-degna-della-sua-fama".

Rimandavo il recupero perché ad un certo momento i film di mafia m'erano andati in uggia, poi quasi un anno fa son partito e fui da subito avvinto tra le spire dell'artefice David Chase (fu De Cesare), Minosse dalla lunga coda e la smorfia risentita a stanarmi vizi condivisi e simpatie sospettosamente riposte, fin da subito tra le sue spire fui avvinto tanto che per protrarre il disagevole godimento ho inframmezzato le sei stagioni con altre serie più recenti. Quindi c'è stata, grazie dio, la prima stagione di Legion (come una coppa gelato after eight con spruzzi di panna montata), una gran baldoria di scrittura regia recitazione (le prime tre stagioni di Better Call Saul), la prima stagione di Mr. Robot (esteticamente soggiogante ma dagli assunti parassitari e dai proclami paludosi), The Leftovers per intero (serie che s'incaparbisce nel farti cacciar fuori lacrime come un allevatore sadico strizza l'ultimo latte da una vacca stenta, ma c'è Carrie Coon), e giù ad incappare nell'occasione sprecata (la prima stagione di Penny Dreadful), nello 'stiabnormicazzi (la prima di Big Little Lies), e nel ludibrio (l'ultima di House of Cards). 

E in The Young Pope

Soprano

La visione di tutte queste serie aveva comunque un fine interlocutorio, un modo per riprendere fiato dalla chiassosa funerea sarabanda italoamericana, che è stata fucina di talenti (vi hanno scritto Matthew Weiner creatore di Mad Men e il Terrence Winter di Boardwalk Empire, entrambe stupende variazioni sul tema della serie di Chase ma che, a differenza di quest'ultima, pur sfoggiando uno sfondo maggiormente variegato e cangiante, non hanno mancato di girare a vuoto per lunghi tratti: mai è successo con I Soprano, che subito ti disarma subissandoti di parole e ti stende con le ininterrotte sventagliate della sua turbinosa umanità - gli impulsi frenati per sessanta minuti e infine sfogati immancabilmente a danno altrui, le montagne russe dei sentimenti, almeno un'ammazzatina a puntata, le sfuriate epocali e le richieste di perdono e di affetto, effimere, un'eterogeneità di registri armonizzati in un distintivo e compatto contrappunto intonato da un coro di voci sovreccitate), influente sulla TV a venire ma ancora coi piedi in quella passata, con le trame verticali (magari non sempre convincenti ma quasi mai a perdere grazie a conseguenze che ricadono a distanza di stagioni intere, rielaborazioni in sogno e nel delirio, e le sempre ben centrate apparizioni fantasmatiche) e la regia al servizio della scrittura (confezione sempre più sofisticata ma che mai s'infighetta nella stilosità che tenta di compensare la scarsezza dell'impianto). 

Sei stagioni per giungere alla conclusione che non si cambia per un cazzo. O se si cambia, lo si fa in peggio

Il pessimismo di David Chase innerva tutti gli snodi narrativi giunti o meno alla loro risoluzione, e contempla tutti i personaggi nel momento in cui li si lascia sulla scena (tutti i personaggi! pure i figli per cui ci si giustifica nell'obbrobrio: futuri adulti senza personalità, opportunisti e inconcludenti), la consapevolezza di sé (quel che distingue l'uomo dalla bestia) è un intralcio all'esistenza, nei rapporti con chi amiamo siamo tutti un po' mafiosi, un po' strozzini, quando non ci rassegniamo al fatto che ai nostri sentimenti non si risponda nel modo che esigeremmo, il senso di colpa per quanto vagamente sofferto è un fastidio, e alla terapia psicoanalitica che pretenderebbe di riacciuffare la stabilità emotiva dal caos della notte della mente è riservato un anticlimax beffardo che lascia attoniti.

David Chase
Lo sceneggiatore David Chase

E il bello è che questa visione di degrado esistenziale non è ridondata dal tono generale, mai le battute perdono lo smalto della migliore commedia, mai i caratteri si involvono nella sterile autocommiserazione, fino alla fine ci si appassiona, e si ride, si ride amaro e si ride bastardo e si ride macabro, mi sfugge di dire: «E' proprio buffo», e Chase si fa di colpo serio: «Come sarebbe, buffo?... Buffo come un pagliaccio, ti diverto? Ti faccio ridere? Sto qua per divertirti? Come sarebbe, buffo?». Mi si ghiacciano i ventricoli cardiaci al solo pensiero di quella sua smorfia risentita. 

Questo per marcare la differenza con il Refn di Too Old to Die Young il quale (fuor dei benvenuti momenti di farsa e delle derive visionarie) pareggia stile e contenuto, illumina il suo mondo con neon che hanno i colori della decomposizione che si riflettono sulla bava che cola a ventaglio in punta di mento dello spettatore esanime davanti al pc, e doppia la violenza pervasiva del contesto con una retorica da trombetta dell'apocalisse, alla lunga finendo per assomigliare non ad un profeta di sventura ma al compagno di classe emo che hai imparato a tenere a distanza non solo perché ha l'alito che puzza di Geenna e ascolta musica nefanda ma perché il rettotono è la fiamma bassa sui cui cuociono le tue uova barzotte.

Il teatro di Chase invece, per quanto il senso di accoramento sia alla fine della fiera debordante, è percorso da un vitalismo che mai demorde, per quanto si muoia sparati, sgozzati, con la mascella divelta dopo averle fatto mordere il marciapiede, esplosi, accoltellati, pestati a morte e con una mazza da baseball infilata su per il retto, avvelenati, soffocati nel proprio sangue, col laccio o con le mani-tenaglie al collo, gettati ai pesci o nella calce viva, per quanto ci si inculi col sorriso, tutti lì s'affannano a vendere cara la pelle e nel frattempo ad intrattenere l'ospite spettatore, il taglio realistico è stilizzato in copioni d'altissima fattura, alcune puntate si aprono con dissolvenze dal nero emozionanti quanto il lento spalancarsi di un sipario, si recupera dalla ritualità antica l'alternanza di convivio ed esequie, ci si immedesima in Corrado Junior come in Iago. E noi si assiste con la spiccia volubilità che, nel giro di due inquadrature, passa dall'empatia per questa torma di assassini e merde umane al bramare che una nemesi tremenda si abbatta presto sugli stessi, e sui cari che li circondano, fradici di arroganza egotismo avidità insipienza e ipocrisia, quanta ipocrisia...

Comunque c'è tanto e tanto e tanto di cui stupirsi e di cui applaudire in questi 86 episodi, dall'incipit con lo starnazzare delle anatre nella piscina di casa Soprano all'ineluttabile trillo del campanello all'ingresso del diner, e quel primo piano segato via che è la migliore delle chiuse, in assoluto.

Le ultime parole le dedico al mio personaggio preferito, un concentrato di spregevolezza dietro un faccione simpatico. Una figura esemplare in quanto la sua stronzaggine è a quanto pare gratuita (non ha la mente psicopatica di Paulie né l'animo dissestato di Christopher, non deve far fronte alle responsabilità del consigliere Silvio né ha ragione di considerarsi un guerriero in una guerra atavica come Tony), e non basta essere consapevoli da che famiglia è stata generata. Agisce da carogna come respira, e ci si chiede se dietro quegli occhi scuri spiri nel vuoto l'ottusità o dilaghi la disperazione. 

È Janice Soprano, la sorella maggiore del boss, che dio ce ne scampi.

(Post di Giovanni Grandi)

lunedì 1 giugno 2020

Ed era come un mal di Bosnia #2

Seconda parte

La guida c’è, la mappa stradale pure, ma la Bosnia, la Bosnia… Solo pensieri sparsi, senza una coerenza. Paolo Rumiz. Cercare tra i suoi libri le parole per il viaggio. La cotogna di Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna. Primo foglio bianco, in alto a destra a lapis: Eva, Lecce, 28-II-11. Altro viaggio intenso. Tore e io ci eravamo addottorati mesi prima, quello era il turno di Chiaretta, si chiudeva una fase della vita, ma noi ancora non lo sapevamo; brindammo, mangiammo e ci divertimmo come sempre era accaduto in tutte le nostre trasferte salentine degli anni precedenti. Ora mi accorgo che quella è stata anche la mia ultima volta laggiù. Aver ripreso in mano oggi La cotogna è un cerchio che si chiude (ma il Salento e il cerchio chiuso sono un’altra storia). Ho messo Rumiz in valigia insieme a una pila di maglioni di lana. Lo avrei riaperto, ri-commovendomici sopra, solo nelle notti di Sarajevo.

Viaggiare di sera, incontro alla notte, in un posto del quale sfugge qualsiasi coordinata, ha un effetto straniante. Il tempo si espande, il paesaggio sparisce e con esso ogni riferimento, solo la strada illuminata dai fari al di là del parabrezza rimane reale, concreta. La strada, il rumore del motore, tutta la parte femminile della mia famiglia in macchina con me, il respiro di Tea placida sul sedile. L’asfalto, la mappa stradale bene in vista, il buio, ognuna di noi pensava pensieri suoi, ci avvolgeva l’oscurità; io lo sentivo che eravamo in apprensione perché l’andare sembrava lungo e la domanda “sarà la strada giusta?” di notte ha tutta un’altra intonazione. Mi sono decisa ad attivare il navigatore informatico, che è stata un poco una resa all’inquietudine e un poco un’illusione di controllo su una geografia ignota. Jajce era a metà strada. Noi percorrevamo una striscia di asfalto chiusa a sinistra dal fiume Vrbas – bagliori neri quando il suo corso diveniva perpendicolare alla nostra via – e a destra da uno sperone roccioso alto e continuo, presenza incombente solo percepita. Acqua asfalto roccia acqua asfalto roccia, sporadiche luci, acqua asfalto roccia, aggregati di casette, acqua asfalto roccia, piccole centrali idroelettriche, acqua asfalto roccia. Un paesaggio che di giorno sarebbe stato mozzafiato.

La Vrbas ci indicava la direzione verso Jajce, quasi al centro del paese, città della Federazione di Bosnia ed Erzegovina appena dopo il confine interno con la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (la geopolitica da quelle parti è ancora un affare complesso e di ardua comprensione).

L’acqua era la via: mirabilia di Jajce è infatti un sistema di cascate naturali che segna il centro cittadino, laddove la Vrbas confluisce con la Pliva, perché la storia di queste terre è anche storia di fiumi che si rimescolano di continuo e il nome stesso del paese è preso in prestito da uno di essi, la Bosna. L’alone di umidità all’orizzonte, oltre il parabrezza, annunciava la meta, in perfetta corrispondenza con quanto segnalato dal navigatore informatico. Jajce, ore 21.00 circa, novembre, un presepe deserto e brumoso. Ci siamo guardate un poco attonite, negli occhi di tutte un interrogativo: ma dove siamo? L’impressione di essere state prese e catapultate in una diversa dimensione spazio-temporale. Totale silenzio, luci basse, foschia diffusa, fame molta, curiosità mista a sorpresa, le mura della città vecchia, una piccola moschea con minareto di legno. Abbiamo iniziato a ridere. Tea ci osservava, con la sua testina mobile piena di occhioni neri dietro al pelo perennemente arruffato. Chissà lei cosa stava pensando.

Post di Eva Ponzi

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto

mercoledì 8 aprile 2020

Ed era come un mal di Bosnia #1

Prima parte

Al tramonto, il muezzin ci ha sorprese sulla Sava che tiene insieme i Balcani in orizzontale prima di arrivare a mescolarsi con il Danubio. La Sava, confine naturale, burocratico, delirante, tra Croazia e Bosnia Erzegovina. Tra l’Unione Europea, seppure lì ancora a ‘statuto speciale’, e un luogo localizzato con incertezza sulla nostra mappa mentale del Continente. Abbiamo attraversato il ponte sul fiume, intercapedine / spazio franco / lingua di congiunzione, e il richiamo serale alla preghiera ci ha avvisate che un mondo diverso ci si stava facendo incontro. Ignare che la profondità balcanica aveva appena iniziato a rimodellarci.
Un viaggio quasi alla cieca, quasi improvvisato, senza il tempo sufficiente per inserire in un contesto più preciso cose sparse come: la guerra degli anni ’90, gli Ottomani, Gavrilo Princip e Franz Ferdinand, Bregović e Kusturica (nel frattempo naturalizzato serbo, perciò no, Kusturica va espunto dall’elenco), la Jugoslavia e la fine del Comunismo, i bosniaci.
Nessuna guida verde Touring in soccorso: della Bosnia Erzegovina, semplicemente, non esiste. «Tra tutti i paesi dei Balcani, è il meno turistico», mi spiega l’omino Touring del punto Touring in piazza Santi Apostoli a Roma, la miniera dalla quale normalmente attingo prima di partire. Ripiego allora sull’unica documentazione possibile, un volumetto tascabile, ma non leggero, di carta lucida con pagine fitte di un carattere tipografico minuscolo: Marco Vertovec, Sarajevo e la Bosnia Erzegovina, anno 2019. Lo sfoglio un poco per coglierne il grado di affidabilità; leggo qua e là, noto che è pieno di dettagli, di minuziose proposte di itinerario, di cartine e di piccole mappe. Lo prendo, insieme all’immancabile gigantesca carta stradale, ché noi siamo veteroviaggiatrici e googlemap è solo per i momenti di sperdimento (non potevo saperlo, ma stavolta il navigatore informatico sarebbe stato di grande aiuto al navigatore umano, cioè io nel ruolo che mi è consueto in queste occasioni).

Informazioni utili e usanze gastronomiche, le prime letture appena apro la guida di un paese o di una città che non conosco.
Informazioni utili (cito a memoria, qui e oltre): «Se pensate di addentrarvi in uno degli innumerevoli e suggestivi percorsi che caratterizzano le colline di Sarajevo, fatevi accompagnare da qualcuno che conosce bene i luoghi. Il territorio non è ancora del tutto bonificato dalle mine». Va bene, forse ho letto male, riprendo il periodo daccapo. «Se pensate di addentrarvi … mine». Ah.
Tea, di spalle
Continuo a leggere: «La Bosnia Erzegovina è da tempo afflitta dal problema dei cani randagi; le autorità stanno tentando di porvi rimedio, ma le difficoltà sono ancora molte. Muovetevi perciò con cautela in caso di incontri ravvicinati del terzo tipo e siate ancora più prudenti se avete un cane con voi». E con noi, per la prima volta nella storia della nostra famiglia, un cane in effetti c’è. Bene.
Proseguo: «Rispetto agli standard ai quali siamo generalmente abituati, in Bosnia Erzegovina cani e luoghi pubblici vivono un rapporto molto dialettico. Ricordatevi sempre di chiedere se il cane può fare con voi ciò che voi vi accingete a fare». Già, penso, per l’Islam i cani sono animali impuri – benché permangano controversie interpretative al riguardo – e la Bosnia Erzegovina è un paese a maggioranza musulmana.
Aggiungo all’elenco delle ‘cose senza coordinate’: mine, cani randagi, pet-friendly con moderazione, Islam.
Sulle usanze enogastronomiche per ora soprassiedo, ma posso senz’altro affermare che, al pari della turca, la cucina bosniaca è tra le migliori e più commoventi del nostro Continente (almeno tra quelle che ho avuto occasione di assaggiare).

Abbiamo tagliato il paese in verticale, prima verso sud poi verso nord per due diverse direttrici, su impeccabili autostrade e strade statali (lo ammetto, ne sono rimasta sorpresa). I fiumi che reticolano quelle terre ci hanno sempre segnalato il percorso, infuocato dall’autunno. In alcuni momenti, abbiamo constatato divertite che tutto ci sembrava Umbria; ma i cimiteri, diffusi ovunque, ci ricordavano di continuo che eravamo in un diverso centro geografico.
Tre donne e una cagnetta on the road, e le soste tecniche divengono subito epica. La scelta casuale dettata dalla necessità ci ha portato in locali di dubbia frequentazione, tutta maschile, tutta alcolica, tutta densa di fumo, tutta composta, in un’aria spesso satura di musica techno-balcanica sparata a volumi indicibili. La qual cosa si è rivelata un vantaggio: voce e orecchie diventano inutili perciò l’assenza di una lingua in comune non è più un problema, i gesti rimangono l’unica via di comunicazione praticabile.
Jajce
Il copione era questo: io, Senior, andavo in avanscoperta, Junior teneva Tea, Seniorsenior attendeva il cenno ‘si può fare’. Aprivo la porta, sorridevo, entravo con cautela nel tentativo di cogliere l’insieme del panorama. Sospensione di perplessità al mio ingresso, teste ruotate, archi sopraccigliari aggrottati e occhi stretti tra le palpebre, sguardi da saloon, gesticolavo «abbiamo bisogno di un bagno + c’è un cane con noi», ancora sospensione. Quindi iniziava la fase di reciprocità nella comunicazione, con braccia e dita mosse all’indirizzo della toilette. Si può fare. Commiato: il Mediterraneo incontra l’Entroterra. Il nostro festival labiale di hvala hvala (grazie grazie) tra mezzi inchini e diversi sorrisi trovava in risposta lievi cenni del capo e un’aspirata di sigaretta. Ospitalità discreta, gratuita, con sapone-carta igienica-fazzoletti per asciugarsi le mani sempre al posto giusto e ogni volta, immancabilmente, fare i conti con il proprio pregiudizio, ché siccome si è nel nulla nel mezzo della Bosnia si pensa che le toilette debbano essere borderline come quelle nostrane.    

[qui trovi la seconda parte, la terza e la quarta]

Post e foto di Eva Ponzi

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto

sabato 21 marzo 2020

Consigli di lettura in tempi di clausura


Al tempo del Corona Virus gli inviti ad andare a pescare un buon libro si sprecano. Sarebbe bello se questa buona pratica sopravvivesse al virus, ma già sappiamo che probabilmente non sarà così, come per tante altre cose buone che nella disgrazia conosceremo e impareremo. Ad ogni modo cogliamo l'attimo, e il bene che ne consegue, per il momento è il meglio che possiamo fare.
Il punto piuttosto è: con tutto questo tempo, finalmente cosa leggo? Sento pareri arrivare da chiunque, sembrano grandi esperti, tuttavia segnalo che per avere contezza di quel che si propone, bisognerebbe aver letto anche prima del Covid-19, altrimenti si rischia di fornire consigli imprecisi e giudizi parziali. Sentivo qualcuno stamattina alla radio che lanciava delle pillole di letteratura e incidentalmente è saltato fuori il titolo di un romanzo «in cui si bruciavano i libri, quello di Truffaut, Fahreneit...» e poi un numero intero a caso. Un filino impreciso.
Per dare un contributo modesto, ma puntuale, trovate in fondo elencati alcuni titoli recensiti nel corso dei dodici anni di vita del VoltaPagine, titoli dei quali ancora serbo un ottimo ricordo, per cui possono diventare suggerimenti con un minimo di solidità alle spalle. 
Ma come procurarsi i libri? Le librerie on-line mi risultano siano attive, però certo non saprei garantire sui tempi di consegna. Allora potrebbe essere l'occasione per sperimentare la lettura di un ebook, scegliendo appunto di scaricarlo sul computer o sul tablet tramite uno dei vari negozi on-line. Altrimenti verificate i servizi di prestito digitale offerti da diverse biblioteche, come ad esempio l'Emilia Digital Library. Una volta recuperato l'ebook, per leggerlo vi basterà aver installato Adobe Digital Editions, un software gratuito che potete scaricare qui o dallo store del tablet.
Ed ecco la selezionata dozzina con relativa recensione:

Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Torino, Einaudi, 2009
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Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, Roma, e/o, 2007
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Thomas Brussig, Litania di un arbitro, Roma, 66thand2nd, 2009
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Omar Di Monopoli, Uomini e cani, Milano, Isbn, 2007
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Frans Kellendonk, Corpo mistico, Villa San Secondo (AT), Scritturapura, 2007
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Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003
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Paolo Piccirillo, La terra del sacerdote, Vicenza, Neri Pozza, 2013
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Claudio Piersanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Milano, Feltrinelli, 2006
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Carlos Ruiz Zafón, L'ombra del vento, Milano, Mondadori, 2004
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Carola Susani, Eravamo bambini abbastanza, Roma, Minimum Fax, 2012
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Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008 (segnalo anche la graphic novel tratta dal romanzo: Luigi Ricca, Il tempo materiale, Latina, Tunué, 2012)
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Enrique Vila-Matas, Dublinesque, Milano, Feltrinelli, 2010
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domenica 8 marzo 2020

Il destino del Milite Eterno


Per quel che ne so (ho smesso coi videogiochi a dieci anni, avevo l'Atari 2000, ricordo le partite di tennis in cui la palla era un quadratino bianco che passava da una parte all'altra della rete divisoria e quando il giocatore - che era una lineetta - lo colpiva faceva puk ... puk ... puk ... puk ... nel silenzio del sepolcro: ai tempi ancora nessun variegato brusio di sottofondo da parte del pubblico tifoso) il videogioco consiste di base in un avanzare implacabile da una situazione all'altra superando ostacoli. Per cui sì, il riferimento alle dinamiche dei videogiochi in 1917 di Sam Mendes c'è - se ne ha piena contezza quando uno dei due giovani soldati chiede all'altro a malapena sopravvissuto al crollo della tana tedesca: «Vuoi continuare?» e la domanda potrebbe pulsare sulla parte alta dello schermo: sì o no? - ma il riferimento è consapevole, e consapevolmente lo si contrasta nella sua essenza di immersività e sguardo proiettato in avanti, come in quel momento appena dopo la morte di uno dei due giovanotti, mentre se ne trasporta il cadavere nel giaciglio di erba folta si scorge sullo sfondo l'orto dei ciliegi che i due poco prima avevano attraversato chiacchierando inconsapevoli e il film ti spinge a risalire mentalmente il filo della loro corsa vissuta in un ininterrotto piano sequenza e pensare: in quel punto (di uno spazio e di un tempo che lì a due passi paiono ancora vibrare della presenza di entrambi) il giovane che rievocava il pollice verde della madre ora giace grigio in faccia nell'erba folta, così riuscendo ad acuire la percezione non solo dell'indeterminatezza dell'esistenza ma della sostanziale ambivalenza di vita o morte del ruolo di Milite Ignoto.
Quando è iniziato il film mi ero ripromesso di badare al lato tecnico immaginandomi a fianco della mdp del magno Deakins ma ad un certo punto mi son lasciato sfuggire l'intento, questo significa che mi ha coinvolto emotivamente (a proposito di Mendes rammento bene che Era mio padre mi aveva lasciato freddo quanto le cosce di una strega strette alla sua scopa in volo nel cielo sopra Pendle Forest), però non credo che il fine sia quello di smuovere l'emotività. Per questo il riferimento al videogioco non ha nulla di importuno, fa riflettere anzi sul loop in cui i soldati si prestano a farsi carne da macello, è rappresentazione stilizzata di un universo chiuso qui senza possibilità di interazione in cui più che le gesta contano le ambientazioni elegiache o di infernale onirismo o di stasi, tutti fermi ad ascoltare un canto funebre e fidente in un aldilà che si teme non spezzi affatto il filo narrativo che tutti imbriglia, e l'apparizione fantasmatica di vittime civili figlie di nessuno, ciascuno interpretando il proprio ruolo come gli automi nei parchi a tema di Westworld ma senza speranza di emancipazione, e il finale non concede per nulla il sospiro di sollievo di un game over, rimarcando la condizione di emergenza e vulnerabilità senza sbocco del Milite Eterno.


1917, regia di Sam Mendes - 2019
Post di Giovanni Grandi


mercoledì 5 febbraio 2020

Viva viva viva l'Inghilterra

Della prima volta ricordo i monumenti – già mitici per via di letture infantili, su tutte In giro per il mondo di Richard Scarry, e per i racconti di viaggio dei nonni –, gli scoiattoli nei parchi e gli orribili panini che ci preparavano i nostri ospiti, pieni di quel formaggio fatto a vermicelli che ancora oggi genera in me un persistente ribrezzo. Gli impianti sportivi della scuola, dove davo sfoggio delle mie abilità di tennista mancina, e i cimiteri curati e sobri; gli enormi gabbiani con i quali di tanto in tanto condividevo il fish and chips, mangiato sulla spiaggia di fronte a un mare freddo e spesso agitato. Entrarono di diritto nella categoria mirabilia anche gli assorbenti distribuiti automaticamente nei bagni delle ragazze, pensai che fossero testimonianza di una civiltà avanzata, nonostante poi vivesse con la moquette dentro casa, ovunque.
Partii con l’Agatha Christie di Poirot a Styles Court e la guida verde Touring nella borsa (gli adulti accompagnatori trasecolarono), i Beatles di Abbey Road e i Queen di A night at the Opera nel walkman (unica, in tutto quel gruppone di tredici-quindicenni che impazzivano per gli Ace of Base di All that she wants, senza che questo fortunatamente scuotesse le mie fondamenta adolescenziali).
Ancora non sapevo che si trattava forse della prima manifestazione di una abitudine che conservo ancora oggi: per il viaggio, musica e libri evocativi.
Tornai che naturalmente non conoscevo una parola in più della lingua, ma mi ero misurata con tutto il resto.

L’impatto fu tanto forte che una manciata di anni dopo l’intera famiglia partì alla volta dell’Isola; ci attendeva un hotel sito a Elephant & Castle, una specie di casermone degno di un film di Ken Loach. Il momento della colazione era parimenti da cinematografo: un uomo di colore (e già questo mi sembrò incredibile) smistava con piglio carcerario le persone da ammettere alla sala, attento a che nessuno si introducesse prima che lui avesse controllato il tesserino associato alla chiave della camera. E noi di camere ne avevamo due, e pure quella fu credo una prima volta: le due sorelle a dormire totalmente da sole in un albergo, cioè, a parlottare fino a tardi e a ridere, introducendo una consuetudine mai più abbandonata. La notte era piena di sirene e di allarmi, suoni per me completamente inediti e che da allora associo alla colonna sonora delle grandi città.
A volte mi sembra ancora di sentire l’odore e il sapore di un terribile panino mangiato a Chinatown, dall’impasto dolce mescolato a pezzetti di una non meglio identificata pancetta; un’impressione nauseabonda attenuata solo dalla bellezza dei gesti dei cuochi in vetrina, che trattavano anatre glassate e totani arancioni (!) con la grazia di chi si accosta a corpi ancora vivi. Trascorsi tutta quella vacanza vestita con coloratissimi abiti di seta indiana, usciti in grande quantità dagli armadi di mamma, e animata dal continuo stupore per le persone tutte diverse che vedevo brulicare intorno a me.
Varietà e libertà, e a quindici anni Londra divenne la città del cuore (solo da qualche anno il podio è stato riassegnato: Parigi, ma questa è un’altra storia).

Fotografia anarchica (agosto 2007), per gentile concessione dell’occhio prensile e appassionato di Tore Sansone

Quindici anni: quanti ne aveva la Junior quando partimmo da sole, io ventenne e lei, in un soggiorno londinese nel quale non successe nulla di incredibile, poiché la follia era già nelle sue stesse premesse. La valigia era piena di cibo in scatola, che con cura certosina dividemmo per le dieci cene consumate nella nostra camera in un sottoscala di un hotel a Kensington – “ché è importante che stiate centrali, in un posto comodo e curato”. Oggi litigheremmo con il receptionist per farci cambiare l’alloggio, allora iniziammo a ridere senza requie. Il letto a una piazza e mezza coincideva con la metratura della stanza e ci toccò stare sempre con la finestra chiusa perché affacciavamo su un semaforo pedonale – o meglio, il semaforo affacciava sui nostri vetri. Però il ragazzetto rosso di pelo che ci serviva la colazione ci prese in simpatia, così ci onorava di abbondante cibo e di sorrisi.
Girammo la città in lungo e in largo, con tubi di Ringo e di Prince sempre nella borsa, tanto per variare la nostra dieta essenzialmente a base di McDonald e di fish and chips; usavamo le cabine rosse per chiamare a casa e avvisare che “qui va tutto bene, ci stiamo divertendo e vediamo tante cose”, tacendo che Junior aveva una certa immotivata apprensione per i soldi. Temeva che finissero da un momento all’altro, nonostante le mie ben note qualità di amministratrice attenta e parsimoniosa. Fu per questo che non riuscii a convincerla ad acquistare a Soho una bellissima parrucca corta nera con ciocche viola, molto molto chic: le stava benissimo e, poiché allora ella sfoggiava capelli di volta in volta mezzi verdi, mezzi rossi, mezzi blu, quella spesa mi sembrava perfettamente in linea con il suo look dell’epoca. La paura finanziaria inibì invece anche me, quando tra gli scaffali di una libreria scovammo una vecchia edizione di On the road di Kerouac: ci limitammo a fotografarla perché davvero non si poteva fare altro. Il testone di Karl Marx ci accolse all’Highgate Cemetery, casa Freud ci aprì le sue porte e Abbey road ci offrì le sue zebre, dopo un’attesa estenuante ché in quel momento tutte le automobili di Londra avevano deciso di passare da lì.
Di alto livello, ma pur sempre freak, entrammo un pomeriggio in una raffinatissima sala da tè, dopo essere state incollate per un poco alla vetrina, nel tentativo di capire se le nostre scelte in fatto di abbigliamento avrebbero potuto essere compatibili con il luogo. Non lo erano, è chiaro, ma un cameriere in livrea, dopo un primo momento di sbandamento subito ricacciato con aplomb British, ci accolse con tutti i crismi del caso, mentre Junior e io continuavamo a ridacchiare, soddisfatte per la nostra impresa. Non ripartimmo prima di aver visitato il Globe Theater e la Tate Modern che allora si stagliavano quasi in mezzo al nulla, in contrasto visivo con il pieno della City dirimpetto.

È stato un corto circuito quando sono tornata da quelle parti dopo un’assenza di quindici anni (mi accorgo solo ora che, in questa storia, è una cifra costante). Quel nulla si era nel frattempo riempito di nuovi, organizzatissimi, pezzi di città, con nuovi ponti, nuove costruzioni, nuove strade. Il Millennium Bridge, per me nuovo pure lui, mi offriva una prospettiva diversa. Ho avuto la sensazione di ri-incontrare una persona molto cara senza riconoscerla subito, per poi afferrarne ancora la vecchia sembianza da un guizzo nei suoi occhi.

Da anni vagheggio una visita nello Yorkshire (la Cornovaglia è già all’attivo, ma anche questa è un’altra storia): per quanto non sopporti il vento, devo andare a sentire quello che soffia nella brughiera per ritrovarci dentro gli spiriti di Catherine e di Heathcliff.

Pare che stavolta mi ci vorrà il passaporto.

Post di Eva Ponzi


(Devo il titolo baglionesco al multiforme ingegno di Massimiliano Capo)

lunedì 27 gennaio 2020

La memoria degli scacchi

Ho letto da qualche parte che fu Bobby Fischer a dire che gli scacchi sono il gioco più violento che esista. Fatico a dargli torto. Il tuo avversario potrebbe tenerti inchiodato a quelle sessantaquattro case per ore, per giorni, demolendo pezzo dopo pezzo la tua sicurezza, la fiducia in te stesso, la tua sanità mentale, se dopo tanti anni di gioco ne avessi ancora una da spendere.
Lo scompartimento chiuso del rapido Vienna-Monaco è lo spazio ritagliato fuori dal tempo dove ogni settimana vanno in scena le schermaglie tattiche dei bianchi e dei neri, mossi dalle dita anziane di Dieter Frisch e del signor Baum, suo fedele dipendente, amico, e compagno di tante sfide. Le partite a scacchi sono sempre battaglie silenziose durante le quali i nervi finiscono per essere scoperti dallo sforzo di governare ogni pezzo, di tenere costantemente l’equilibrio grazie al quale l’alfiere è pronto ad entrare, come una lama, nelle difese dell’avversario; il cavallo si apposta dietro ai pedoni per difendere i suoi compagni di battaglia; il re osserva cogitabondo l’attacco, simbolo potente ma quasi inerte nei suoi brevi passi, ritratto di un vecchio saggio sull’orlo dell’estremo addio.
Difficile non amare gli scacchi: un gioco perfetto, ripetibile all’infinito, senza sbavature, che non reca su di sé nessuna ruga nonostante l’età millenaria. Forse per questo gli scacchi possono diventare un’ossessione, trasformarsi da gioco in arma di distruzione del nemico o di se stessi. Il romanzo di cui parliamo si apre con un suicidio sospetto, che si scoprirà essere l’atto finale dell’incrocio di innumerevoli sfide nell’arco di un tempo lunghissimo, percorso passando sopra a troppe vite. Nel giorno della memoria, La variante di Lüneburg è un racconto imprevedibile che aiuta a sferrare i necessari colpi allo stomaco; è un possibile finale di partita del tutto immaginario, ma che nella finzione riesce ad essere crudelmente reale.
Quando Hans Mayer arriva al palazzo in decadenza in cui vive quello che diventerà il suo maestro di scacchi, Tabori, compie un lungo percorso fra un portinaio sordo, innumerevoli stanze abbandonate, un ascensore incerto nella marcia, corridoi ricoperti da passatoie lise, in una discesa che si fa sempre più angosciante, quasi un rito di passaggio ad una dimensione altra, terribile. D’altro canto era stato avvisato che Tabori è un uomo «che ha giocato all’inferno». Da lì le storie si srotolano e i personaggi saltano avanti e indietro nel tempo, in una trama dalle sequenze impeccabili che non lascia scampo a nessuno, men che meno al lettore.
Ho iniziato con Bobby Fischer, una figura controversa. Di discendenza ebraica per parte di madre, fu accusato di antisemitismo, visse con l’idea d’essere un superuomo della scacchiera, probabilmente ossessionato dalla volontà di vincere, forse soffriva della sindrome di Asperger. Ebbe contrasti con tutti, quasi sbatté il telefono in faccia a Kissinger, da americano andò a giocare in Jugoslavia quando il paese era sotto embargo da parte degli USA, passò i suoi ultimi giorni in Islanda, il che appare come una nostalgica stramberia, considerando che a Reykjavik aveva vinto il suo unico oro ai Campionati del Mondo.
Forse per tutto questo assurdo mescolarsi mi è venuto di pensare a lui, forse l’assurdo è l’unica cifra che può spiegare cosa è stata la Shoah, forse l’assurdo ci consente di affrontare la memoria. Ma non per relegarla fuori dal tempo presente, assolutamente no. Per prenderne invece piena consapevolezza, e impedire che l’umanità debba subire un altro tragico scacco.


Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Milano, Adelphi, III ed., 2004.

giovedì 2 gennaio 2020

Un amore fra le colline in guerra

Le nostre questioni private alla fine prevalgono sempre. Hanno la meglio su tutto il resto, vincono persino contro le ragioni di guerra, perché anche la guerra è solo un’interferenza rispetto alle esigenze basilari dell’essere umano. Siamo costantemente immersi in un’altalena di atti sublimi e banali, così che ci capita di perderci nei ricordi e dimenticare, o voler dimenticare, impegni che a parole giureremmo con la mano sul cuore di considerare fondamentali e degni di sacra attenzione.

L’amore poi, non ha pietà né rispetto per nessun solenne impegno, è la questione privata che prevale comunque. L’amore, anche solo quando si accenna come primo invaghirsi, oppure quando riaffiora come un’eco, ci strappa da tutto e da tutti, senza alcuna remora. Milton il partigiano non sa più che farsene del fucile che regge sulla spalla, nel momento in cui fiuta il profumo, che è solo un’immagine, di Fulvia. Inizia così un viaggio che pare quello di un folle, fra le colline attorno ad Alba. È come l’Orlando furioso, dirà Calvino: un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti.

D’altro canto la Resistenza fu fatta perlopiù da uomini appena nati, incerti in molto, passionali e dunque facili prede delle distrazioni. Esseri umani che ancora pochissimo sapevano della vita, avendola vissuta in un regime costante di incertezza e dunque troppo spesso trovandosi impreparati di fronte alle prove più impegnative, come molte ve ne furono. Una questione privata è un ritratto vero della Resistenza, dei suoi chiaroscuri, un ritratto distaccato e senza retorica, in quanto raccontato da una prospettiva divergente, quella degli occhi di Milton perduti in ricordi lontani. Non fu per nulla gradito all’epoca questo taglio del racconto, c’è voluto del tempo per accettare che, come tutte le imprese umane, persino la Resistenza non fu perfetta, che ci furono scelte discutibili, atti che sarebbero divenuti rimorsi.

Tuttavia la guerra ti costringe ad un gioco quasi mai leale, come quando Milton e Hombre catturano dei giovani soldati fascisti (pp. 71-72). I due compagni di lotta rappresentano l’instabile alleanza fra badogliani, con al collo il fazzoletto azzurro, e comunisti con la stella rossa. Insieme stanano i quattro ragazzi nascosti dietro l’altare della chiesa: sono impauriti e hanno già lasciato le armi da un pezzo. Li fanno camminare e poi correre, come prigionieri, almeno finché la cavalleria non arriva ad incalzare e allora non resta che falciarli alle spalle, con una sventagliata di mitra. In seguito, scuotendosi da quel ricordo, Milton si sarebbe massaggiato il petto «che gli doleva in ogni punto».

Il risvolto della prima edizione dice di Fenoglio: «narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile, asciutto ed esatto». È così quando tratteggia la nebbia (pp. 27, 31-32) che pare un elemento come un altro del paesaggio, mentre in realtà è protagonista della svolta; sarà per colpa della nebbia che tutto inizierà ad andare nel verso sbagliato. Eppure Fenoglio la descrive con poetica precisione e sembra quasi bella, nonostante dietro quel muro bianco l’amico Giorgio perderà la libertà e Milton dovrà tentare di salvarlo. Spesso in questo breve romanzo le svolte narrative e i flashback sono introdotti di sguincio, arrivando da punti inattesi, come nemici che in battaglia ci si parano davanti, emergendo improvvisamente dalla nebbia.

Vale la pena leggere Una questione privata anche solo per scorrere la galleria di personaggi, belli e vividi. Spesso si tratte di donne anziane, come la «vecchia» che pare saper leggere nel pensiero di Milton (pp. 68-69) o quella che lo ragguaglia sulle frequentazioni equivoche del sergente fascista, potenziale ostaggio per lo scambio di prigionieri (pp. 89-92). Sono donne che si affezionano a Milton in pochi istanti, che rischiano per aiutarlo, lo nutrono e lo proteggono, perché è come un loro figlio, un ricordo vivente dei figli che la guerra ha portato via da loro. L’unica donna giovane ad essere non presente ma evocata è Fulvia, pure lei un ricordo mitico, e nel ricordo per sempre giovane.


Beppe Fenoglio, Una questione privata, introduzione di Gabriele Pedullà, Torino, Einaudi, 2014.