sabato 31 dicembre 2011

Chiocciola bianca 2011

Allora, arriva questa telefonata di Angela Merkel, fortemente preoccupata, lo capisco dal fatto che parla con uno strano accento milanese. Mi dice che c'è bisogno di una presa di posizione ferma e decisa, di far sapere alla gente quello che sta succedendo, di dichiarare se il 2011 è stato un anno buono o cattivo, se abbiamo letto abbastanza e bene, o poco e male, se le classifiche dei libri più venduti servono a qualcosa, se ha un senso che Faletti e Moccia continuino a primeggiare in maniera così esagerata. Insomma ci scarica addosso tutte le sue preoccupazioni e a noi non resta che rassicurarla: anche quest'anno ilVoltaPagine assegna la sua Chiocciola bianca, il premio più parziale che esista, ovvero i cinque migliori libri letti da noi quest'anno, senza alcun criterio specifico se non il caso e il gusto personalissimi. E l'Europa tira un sospiro di sollievo.
Ecco dunque servita la classifica delle nostre migliori letture nel 2011, in ordine rigorosamente inverso:
- al 5° posto Post-punk 1978-1984 di Simon Reynolds, per il modo competente e arguto con cui ritrae il panorama musicale di un'epoca che ha segnato - con effetti spesso opposti - molti di noi;
- al 4° posto Life di Keith Richards, perché se anche non vi piacciono gli Stones, mezzo secolo di rock e costume passa comunque attraverso le loro memorie;
- al 3° posto Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti, nella speranza che certi grotteschi scenari divengano ora e per sempre solo argomento di ben scritti romanzi;
- al 2° posto Sangue dal cielo di Marcello Fois, volti e terre di Sardegna raccontati con parole che vanno più a fondo del coltello;
- e infine la chiocciola bianca per il 2011 va a Corpo mistico di Frans Kellendonk, un romanzo disperato che ha nel desiderio la sua forza nascosta.
Un sincero augurio per delle ottime letture lungo tutto l'anno che si appresta ad iniziare.

Foto: La chiocciola e la lavanda © Paolo Bertinetto

sabato 17 dicembre 2011

Quant'è bella la pioggia!

«Nostalgia acuta, infinita, / tremenda, di quel che ho». Diceva bene Juan Ramón Jiménez, noi ci struggiamo di insoddisfazione per quello che in fondo è dinanzi a noi, a portata di mano; lasciamo scorrere i giorni affogati nel desiderio di un altro luogo, di un altro tempo. Sogniamo d'essere invitati alla corte degli Asburgo, di stenderci sull'erba nell'estate del festival di Woodstock, di salire in groppa ad un Mas con D'Annunzio nella baia di Buccari, sogniamo di continuo, inseguendo un altrove dove avremmo potuto davvero realizzarci, un altrove che ci incanta e, in fondo, ci incatena.
«La principale necessità della nostra vita, è qualcuno che ci faccia fare quello che possiamo fare». Dobbiamo dare ragione a Ralph Waldo Emerson e sperare che ciò accada: che finalmente arrivi la persona, l'emozione, lo sguardo, quell'epifania capace improvvisamente di rigirare il nostro mondo, di metterlo a testa in giù, così da renderlo ridicolo ai nostri occhi e costringerci a fare qualcosa di totalmente nuovo, di vero e, soprattutto, di nostro. Cosa volete fare della vostra vita? Pensateci.
«Scrivere è un atto d'amore, se non lo è, non è che scrittura». Jean Cocteau non appare in Midnight in Paris, ma viene citato, aleggia sulla storia, e come potrebbe essere diversamente quando si racconta di uno scrittore a Parigi, Gil, al quale manca 'solo' di rivoltare come un calzino la propria esistenza. È fortunato Gil, a tendergli la mano, ad offrirgli l'occasione del cambiamento, saranno gli spiriti eletti del Novecento artistico e letterario. L'invidia per l'esperienza messa in scena da Woody Allen fa perdonare qualsiasi leggerezza, quella della trama, fievole però fiabesca, quella dei personaggi del nostro tempo, evidenti macchiette. Lasciamo allora perdere le elucubrazioni critiche: c'è un sogno che invade la realtà; c'è Parigi e le sue atmosfere; e c'è la pioggia, quant'è bella la pioggia!
«Il non scrivere cominciava a pesarmi e provavo quel senso di mortale solitudine che ti coglie alla fine di ogni giorno sprecato». Personaggio chiave è Ernest Hemingway, colui che provoca gli eventi, colui che guida e distilla saggezza, anche se in una maniera impettita da far ridere, icona letteraria di se stesso. Uno che non penseresti mai si sparerà in bocca con un fucile da caccia. Festa mobile è il romanzo che ha evidentemente ispirato il film, ed è un romanzo che tutti gli scrittori in erba dovrebbero leggere. Non tanto perché possa essere loro d'aiuto - anzi forse li scoraggerà del tutto - quanto per la capacità di trasmettere il gusto profondo dell'essere scrittore e a quel punto, pure solo il tentare di diventarlo, sarà una soddisfazione sufficiente per la propria vita.
«Quando giungeva la primavera, anche la falsa primavera, non restava che da risolvere il problema del posto in cui sentirsi più felici». Tutto è semplice in fondo, siamo noi a complicare le cose, a intralciare il nostro cammino con ostacoli vari e inutili, solo per la stupida paura di seguire il consiglio di Arthur Miller: «Io credo che ognuno debba prendere tra le proprie braccia la vita, e baciarla».

martedì 15 novembre 2011

Non era una balena

«C’era una volta un pezzo di legno». Se queste parole non accendono subito in voi la giusta lampadina, allora è tempo che riprendiate in mano quel classico della nostra tradizione letteraria che è Pinocchio. Tutto ha inizio nel 1881 a Firenze, quando Carlo Collodi (in realtà Lorenzini) pubblica a puntate sul «Giornale per i bambini» le sue Avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. In quegli anni la scuola dell’obbligo riguarda solo i bimbi fra sei e nove anni, e Collodi è già autore noto, ma anche contestato dalla commissione ministeriale che valuta i testi adatti all’istruzione dell’infanzia; il problema deriva dalla natura dei suoi lavori, troppo romanzeschi «da dar soverchio luogo al dolce, distraendo dall’utile». C’è in atto una sorta di sfida letteraria e pedagogica che vede fronteggiarsi il De Amicis di Cuore e proprio il nostro Collodi. Oggi, ben oltre un secolo dopo – considerando fama e rivisitazioni, e piegandoci ad un gioco criticamente poco serio – potremmo assegnare la vittoria al secondo senza tema di smentita. Pinocchio ha attraversato quasi indenne le epoche, adattandosi a gusti e mezzi fra i più svariati, conoscendo persino una poco nota stagione balilla, documentata nello studio Pinocchio in camicia nera.
Tuttavia il Pinocchio che alberga nel nostro immaginario, quanto è vicino al ‘reale’ personaggio del romanzo di fine Ottocento? L’impressione è che fra essi vi sia lo stesso rapporto che intercorre tra san Nicola (Santa Claus) con mitra e bastone, e il panciuto, rosso e paonazzo nonno inventato dalla Coca-Cola per allietare il nostro Natale. L’invito alla ri/scoperta è d’obbligo per chi, non appena sente nominare Pinocchio, corre ad evocare Walt Disney, il bianco vestito Benigni, oppure il pur indimenticabile Geppetto di Nino Manfredi, senza saper risalire più addietro nel tempo, alle vere pagine di Collodi, ai molteplici accadimenti nella storia di un burattino.
L’inevitabile risultato è il sedimentarsi di varianti che nulla hanno a che fare con la vicenda originale. Un po’ di confronti si possono fare dopo essersi procurati la prima edizione integrale uscita nel 1883 a Firenze dai torchi di Felice Poggi, oggi di nuovo disponibile grazie ad una anastatica della Giunti che riprende testo, illustrazioni e copertina originali. Caso emblematico è quello della balena, dato che in Pinocchio non c’è nessuna balena. Lo sfortunato Geppetto infatti viene ingoiato da un Pescecane (con la P maiuscola) noto come «l’Attila dei pesci e dei pescatori», un vero mostro marino con tre filari di denti. La sua apparizione coincide con un momento di concentrazione faunistica: c’è una capra che cerca di salvare Pinocchio dalle fauci del Pescecane, e subito dopo, nello stomaco dello stesso, il burattino incrocia un tonno, compagno nella sventura (pp. 205-208).
Una parvenza ancor più inattesa, e quasi rimossa dall’immaginario odierno, ha quella che tutti noi chiamiamo la ‘fatina’. «Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: “In questa casa non abita nessuno. Sono tutti morti”» (pp. 67-68). Un’apparizione niente affatto rassicurante e costellata di funeree apparenze, preludio ad altre vicende inquietanti o perlomeno immerse in un’atmosfera che non ci aspetteremmo, oggi, in un racconto per bambini.
La guida più adatta nella caccia ai punti salienti, il migliore Virgilio per una esegesi arguta del testo collodiano, è senza dubbio Giorgio Manganelli. Dalla sua curiosa e variegata bibliografia spunta infatti anche Pinocchio: un libro parallelo (1977), oggi presso Adelphi, la casa editrice che sta man mano ripubblicando l’opera omnia dello scrittore e anglista. Leggere i due testi, appunto, in parallelo – Manganelli segue pedissequamente la sequenza originale dei capitoli – procura una notevole soddisfazione: sembra d’inseguire un’avventura gialla, lo scioglimento di un mistero, sia in virtù della straordinaria penna manganelliana, sia per lo stesso Pinocchio che è «altamente indiziario (…) un libro di tracce» (p. 8). Che la faccenda non sia così lineare, lo svela immediatamente l’attacco del romanzo: «C’era una volta… Un re! No, ragazzi, avete sbagliato». La storia comincia con uno sbaglio, non sappiamo ancora nulla e già veniamo contraddetti, rimaniamo confusi, è messo in dubbio il c’era una volta, «la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d’ordine del mondo della fiaba» (p. 11).
Manganelli si diverte un mondo a scavare, studiare, ipotizzare, a scoprire gli infiniti livelli possibili di interpretazione sotto una superficie che chiunque sarebbe tentato di immaginare posata su una scarsa profondità (e solo un racconto per bambini, no?). Si mette nell’impresa di comporre un «libro nel libro, insieme parassitario e autonomo», che assolutamente non è, come qualcuno potrebbe pensare, «una sterminata dilapidazione di tempo, un vagabondar labirintico ed ozioso». Al contrario esso risponde ad un intento preciso: vuol dimostrare come una pagina, che pare chiusa e limitata fra i suoi quattro margini, in verità «si dilunga e si dilata e sprofonda, ed anche emerge e fa bitorzoli, e cola fuori dai margini. Insomma, se qualcosa divaga, è appunto codesta pagina» (p. 18). Seguire tali divagazioni è questione complicata e divertente nel contempo, riuscire poi a trarne un’opera nuova è un obiettivo che a pochi è dato raggiungere. Manganelli è uno di quelli.
A noi rimane il gusto di una lettura dalla doppia faccia, una molto diversa dall’altra, eppure entrambe avvincenti, ognuna perfettamente congrua con il suo stile e il suo tempo ma capace di danzare al ritmo della compagna, ancorché lontana di cent’anni.

domenica 30 ottobre 2011

La colpa è come il fele nella gola

a F.B., avvocato e papà

 Quando la luce che entra dalla finestra va a illuminare una serie infinta di soldatini intagliati nel legno, le uniche parole che escono dalla bocca dell’avvocato Bastianu Satta (sì, proprio lui!) risuonano quasi banali: «Sono bellissimi». Piove che dio la manda nella Sardegna barbaricina di fine ’800. È una pioggia che non lava per mostrare. I dettagli, invece, sono nascosti dalle incerate, dai cappelli a falde e dagli ombrelli. È pioggia, ma sembra Sangue dal cielo.
La terra di Barbagia è atavica e taumaturgica. Vibra «come una scarica di pura elettricità» e corre «alle gambe e agli inguini e poi ai lombi e allo stomaco sino alle spalle» (p. 70). Su quella terra corrono istinti primigeni: dolore, menzogna, colpa, paura, amore. E morte. Quella che si avvicina, misteriosa, a tre fratelli, già orfani, Elias, Ruggero e Filippo Tanchis. Elias scolpito nella durezza di una parete umida, unta e fredda di un mattatoio, Ruggero ritratto nell’«attrazione ipnotica delle mani tozze, incallosite» (p. 81) quando queste volteggiano seguendo la melodia della musica e Filippo dipinto in un corpo debole e in una mente fragile. A Bastianu, tuttavia, quella morte ambigua non gli torna. Sogna in quelle notti scivolose. Sogna dei nonni, jaju e bisaju Gungui. Sembra di vederli, come dèi penati, l’uno «piccolo e secco come il tronco di ginepro spellato», l’altro «con quel viso di pietra sbugnata a scalpello» (p. 10). E sogna del padre, che silenzioso siede in cucina. Non c’è pace su quella terra e non ve n’è per Bastianu. Soltanto la Musa e i versi lo consolano. Forse una donna in attesa a uno spettacolo di jongleries, dove il trucco si confonde col reale.
La Barbagia è mito, è leppa e coltello, è cartucciere e doppiette. Ma è anche terra di parola, di giuramenti e di onore. Ha giurato Franceschina Pattusi e ha giurato Cosimo Ruju. A quei patti non verranno meno. La parola va più a fondo del coltello, buca più in profondità dello sparo. È lasciapassare per richieste impossibili. Quando non detta, talvolta, rende più semplice il sonno, e il sogno. 
(post di Salvatore Sansone)

Marcello Fois, Sangue dal cielo, Torino, Einaudi, 2010.

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Da regalare: a chi non ama la pioggia

sabato 22 ottobre 2011

Non allacciate quelle stringhe!

Una teoria unificata della fisica. Una teoria che «intessa la trama delle forze e l’ordito dei costituenti della materia in un unico arazzo». Einstein vi dedicò, invano, gli ultimi trent’anni della sua vita. Di più: una teoria che sani anche il conflitto esistente, in cosmologia, tra Relatività e Meccanica Quantistica… Forse oggi l’abbiamo: è la teoria delle superstringhe, o M-teoria, o Teoria del Tutto (TdT). È la più ambiziosa teoria della fisica contemporanea e Brian Greene, uno dei principali esponenti e sostenitori, ce ne racconta nascita (1968) e sviluppi, fino al 1999. Contrariamente a quanto normalmente accada per i saggi divulgativi, non si parla qui di una teoria completamente definita, con solide conferme sperimentali e largamente accettata dalla comunità scientifica, ma di una teoria in fieri: della cui creazione veniamo resi, in certo modo, partecipi.
Capitoli brevi, introduzione di ogni argomento per problemi, esempi tratti dalla quotidianità, puntuali sintesi di ciascun discorso affrontato. Ad un’esposizione divulgativa eccezionalmente chiara – ma scientificamente rigorosa – della Teoria della Relatività e della Meccanica Quantistica, segue la presentazione della TdT. «Per la TdT, gli ingredienti fondamentali del mondo non sono particelle puntiformi, ma sottili filamenti – simili ad elastici infinitamente piccoli – che vibrano continuamente: le stringhe. (…) Come i diversi modi di vibrazione di una corda di violino danno origine alle varie note musicali, così i diversi modi di vibrazione di una stringa danno origine a varie particelle, la cui massa e carica sono determinate dalle oscillazioni della stringa stessa. (…) La stessa idea si applica alle forze: ogni particella mediatrice di forza è associata ad un particolare modo di vibrazione. (…) Tutte le forze e tutta la materia sono le note che le stringhe suonano».
Elegante come promette il titolo, ma per niente facile non appena si scenda poco più in profondità. Innanzitutto la TdT prevede lo stravolgimento totale della concezione di spazio-tempo lasciataci in eredità da Einstein (già di per sé così lontana dal nostro senso comune): si parte dal rimettere in discussione il numero di dimensioni del nostro universo, quindi la sua geometria, per giungere inevitabilmente a porsi domande, di carattere scientifico-filosofico, sui limiti della conoscenza umana. La matematica che sottosta alla teoria poi è molto complessa, nonostante presentata in questa sede in maniera divulgativa: mediante disegni e esemplificazioni tratte dalla quotidianità (il lettore esperto troverà nelle note soddisfazione alla sua sete di conoscenza). Per chi non si lascia scoraggiare dalle difficoltà (o per chi le aggiri), in premio gli ultimi, affascinanti, tre capitoli che trattano in maniera approfondita di buchi neri, teoria del Big Bang e cosmologia in genere; presentando le soluzioni proposte dalla TdT e i problemi che restano tuttora aperti. Per molti versi questo libro costituisce infine un’occasione rara per gettare uno sguardo all’interno della comunità scientifica e scoprirne metodologie, abitudini, e vezzi.
Tutto bello dunque? Mica tanto. Rimanere ammaliati dalle parole di Greene rischia di far perdere lucidità nell’espressione del proprio giudizio. C’è chi sostiene infatti che L’universo elegante non è che un prodotto propagandistico, ben fatto, del potente gruppo di ricerca che sostiene la TdT. Un gruppo potente ma che comunque ha bisogno di consenso, anche di pubblico, per dirottare verso di sé una notevole mole di denaro, a scapito di altri gruppi di ricerca meno affermati. Tuttavia la TdT, sinora, non ha avuto alcun riscontro sperimentale. E questo è un fatto abbastanza grave per una teoria fisica, perché la fisica è una scienza sperimentale. Le teorie non sono monoliti né sono vere a priori: esse dovrebbero fornire descrizioni di fenomeni conosciuti e consentire la previsione di fenomeni non conosciuti. A quanto risulta la TdT non ha consentito, a tutt’oggi, niente di tutto ciò. Allora, cosa abbiamo letto?
(post di Alessandra Angelucci)

Brian Greene, L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Torino, Einaudi, 2003.

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Da regalare: a un calzolaio estroso

mercoledì 12 ottobre 2011

Come toccare il fondo, ridendoci su

Ad un certo punto uno accende il televisore e sente dire, testuale: «Più in alto vuoi andare, più devi passare sui cadaveri (…) chi è onesto non fa il business (…) se vuoi guadagnare devi scendere in campo e vendere tua madre». La conclusione poi, è magistrale: «… ed è giusto sia così». A parlare è la escort Terry De Nicolò, colei che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo trovando il coraggio di sollevare i veli sull’ipocrisia. Perché uno sente dire queste cose e pensa fra sé: «Finalmente ci siamo arrivati, finalmente abbiamo di fronte l’esito estremo e inevitabile dell’accettare tutto un sistema di cose». Ora la letteratura – come spesso accade – riesce a indovinare il futuro, soprattutto perché non ha paura di eccedere, di inseguire l’inverosimile; un inverosimile che un po’ alla volta, in qualche caso, diventa persino troppo vero.
Che la festa cominci è un susseguirsi di scene e vicende volutamente oltre il limite del sensato,  un racconto rocambolesco come non t’aspetteresti da Ammaniti, e che strappa ancor più qualche applauso. Solo tentare di descrivere i protagonisti basta ad introdurci in un mondo comico e surreale: da un lato un satanista all’amatriciana, Saverio Moneta detto Mantos, dall’altro Fabrizio Ciba, uno scritttore-vip dilaniato dal dilemma se ritirarsi in una torre d’avorio alla J. D. Salinger o tuffarsi del marasma del bel vivere sulle orme di Briatore. Entrambi si soffermano pensosi, a tratti, provocando riflessioni come la seguente: «Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico. Se non esistono più regole etiche ed estetiche le figure di merda decadono di conseguenza» (p. 187)
Il luogo dell’azione è simbolico, Villa Ada, uno dei parchi pubblici più noti di Roma, nella finzione divenuto giardino privato di uno schifosamente ricco palazzinaro, una sorta – ma sì, inutile nascondersi – di proiezione capitolina della tenuta di Arcore, con annessi e connessi all’ennesima potenza. Viene organizzata una grande festa a cui “non si può mancare”, con un’imperdibile sfilata di gente quasi totalmente inutile, buona appena ad esibirsi seminuda sulle copertine dei rotocalchi. Ma deve essere, nelle intenzioni dell’organizzatore, una faccenda enorme e memorabile, qualcosa da raccontare a figli e nipoti, la festa del secolo. La grandeur è spinta tanto oltre che, alla fine, tutto sfugge di mano e crolla rovinosamente, trascinando gli invitati, ‘crema’ della società occidentale, ad un livello di indicibile bestialità. Questa grande sarabanda, questo circo irrefrenabile, e soprattutto l’epilogo della vicenda, rappresentano forse la tabula rasa dei valori del nostro tempo? Forse. Tuttavia rimane il sospetto che il peggio non sia un dato oggettivo, quanto piuttosto un grottesco ripiego all’amarezza della solitudine, alla pena per l’amore mancato, sensazioni di cui tutti i personaggi (tutti noi?) sembrano soffrire.
Uomini e donne affondano nel fango sotto il peso dello sfoggio, sino a trasformarsi paradossalmente in ciò che erano quando vivevano in uno stato primitivo, anzi uno dei leit-motiv della serata è proprio la caccia, d’ogni tipo, dalla volpe alla tigre, fino anche all’uomo. Eppure, quella che sembra la definitiva pietra tombale di una società civile, potrebbe essere – suggerisce Ammaniti – ‘solo’ il necessario purgatorio per una nuova migliore età. C'è da sperarlo, anche se, ad ascoltare Terry De Nicolò...

Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Torino, Einaudi, 2009.

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Da regalare: all'aspirante velina

lunedì 19 settembre 2011

Leggere a valle

Il piacere della lettura deve molto all’ambientazione. Di certi libri, anche non eccelsi, serbiamo spesso un bel ricordo grazie all’atmosfera che ci circondava mentre sfogliavamo le pagine. In tal maniera, a volte, luogo e libro nella memoria si fondono, divengono un’unità inscindibile, il cui valore sta proprio nella fortunata combinazione. Ma la fortuna, a volte, può essere sollecitata. In questi giorni vi è infatti l’occasione di leggere nella cornice di un luogo particolare e molto evocativo: morbide sedie rosse, una platea semi deserta, musica in sottofondo, attorno un ferro di cavallo costituito da palchetti in legno decorato, sul fondo il sipario aperto sul palcoscenico del Teatro Valle di Roma.
È bene lo sappiate fin da subito, quello che vi sto invitando a fare è illegale. Tutto discende dal provvedimento dell’ultima finanziaria che ha sancito la soppressione dell’Ente Teatrale Italiano (ETI) e di conseguenza una nuova destinazione d’uso – ancora in fase di definizione – per il Teatro Valle di Roma e per il Teatro della Pergola di Firenze. Di fronte alla scelta politico-economica che ha reso molto incerto, e ‘a rischio’, il destino di un bene pubblico che molto aveva offerto al pubblico italiano, una compagine di lavoratori dello spettacolo – attori, registi, scenografi, musicisti, macchinisti... – ha deciso di occupare il Valle e dal 14 giugno 2011 il teatro è autogestito, e in maniera molto efficiente. Tutto il periodo estivo ha offerto una serie di spettacoli gratuiti ed eventi, fuori e dentro lo storico edificio, attirando un gran numero di appassionati e sostenitori dell’iniziativa. Informazioni aggiornate si trovano sul loro blog e si può sempre passare di lì per essere aggiornati sulle prossime iniziative. Segnalo, fra le altre, l’imminente avvio di un corso di editoria organizzato in collaborazione con Minimum Fax.
D’altro canto il Valle non è un teatro qualunque, proprio lì si tenne, ad esempio, il 9 maggio 1921, la prima di Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, pièce tanto innovativa da scatenare l’ira del pubblico; in quella movimentata serata scese in platea l’attrice Vera Vergani per fare da scudo allo scrittore. Un busto in cima ad una delle due scalinate ricorda inoltre le molte presenze sul palcoscenico del trasformista Fregoli. Ma soprattutto il Valle era un teatro dove si poteva sperimentare e dare spazio ad iniziative nuove, spesso a firma di giovani. Una sorta di casa per chi viveva e lavorava nel mondo teatrale, uno strumento culturale importante per un paese da sempre legato a questo genere di letteratura. Questa settimana saranno 100 cento giorni che il Teatro Valle è occupato e che tanti lavoratori dello spettacolo e semplici appassionati cercano di dimostrare quanto sarebbe bello che un’istituzione del genere continuasse a vivere, e quanto bene può fare all’Italia avere un teatro svincolato da logiche strettamente economiche e adibito a laboratorio per le future generazioni di professionisti, per giovani interessati a mantenere viva una gloriosa tradizione italiana.
Da lettori esigenti potete fare volendo la vostra parte. Spesso, dopo cena, si può silenziosamente entrare al Valle e fare della propria presenza un segno. Accomodatevi in platea e leggete. Anche se il libro scelto deluderà le vostre aspettative, basterà l’atmosfera a salvare la serata.

giovedì 8 settembre 2011

Il palcoscenico della vita spensierata

Di quel che c’è, non manca nulla, nel picaresco Il trionfo dell’asino, romanzo incentrato sulle avventure di Giacomo Crivelli, veneziano di buona famiglia ammaliato dal mestiere del teatrante nella Serenissima del ’600. Non manca nulla: scenette pruriginose, personaggi strampalati, fughe precipitose, inganni, sotterfugi. Si tratta, per certi versi, di un saggio scherzoso sulla vita del guitto, una vita senza sicurezze condotta alla giornata, piena di imprevisti dolci e amari. Se foste un attore girovago potrebbe capitarvi di svegliarvi disteso su un fienile, ondeggiando sotto il peso di una rossa di primo pelo, alla prova dell’ergonomicità del vostro ‘sellame’; e subito dopo dover fuggire, rocambolescamente sospinto dai forconi di un nutrito parentado. E tutto ciò avrebbe il suo fascino, non trovate?
Si diverte Andrea Ballarini a farci smarrire fra tante scene di contorno, a farci vagare da un’avventura all’altra, incastonando il tutto nella cornice di un doppio omicidio notturno, evento che occupa le prime pagine per essere poi messo, per la verità troppo a lungo, da parte. E si diverte pure ad utilizzare un linguaggio involuto, solitamente senza eccedere, in una parodia leggera del narrare d’età moderna. Da essa riprende fra l’altro l’uso di intestare i capitoli con il resumé di quanto sta per accadere. Se la ricercatezza di stile non impedisce una lettura fluida, la trama soffre però di quel divagare di cui abbiamo detto: troppo poco infatti accade, di concreto, tra una svolta e l’altra. Ci sarebbe voluta maggiore densità di eventi per avvincere fino in fondo, evitando di perdersi nel descrivere fatti tutto sommato superflui.
Il centellinare non impedisce peraltro che le svolte nella storia siano talvolta forzate, che l’intreccio venga tirato per i capelli verso la necessaria direzione, con qualche casualità sospetta: un ramo che si spezza precisamente al passaggio di una carrozza (p. 87); un incontro inatteso ma decisivo nel duomo di Milano (p. 95). Tutto ciò potrebbe essere in realtà il voluto calco di certi stilemi antichi: allora gli eventi fortuiti erano il pane del racconto e la preoccupazione per la verosimiglianza era ancora di là da venire; le divagazioni e le storie nelle storie (pp. 107-108) erano pratiche ampiamente seguite. Oggi certe scelte risultano un po’ scomode, e c’è sempre il rischio che si diverta più lo scrittore a inseguirle di quanto piaccia al lettore trovarsele di fronte. È teatro in prosa? La struttura, il parlare, vari elementi fanno pensare anche a questo, a un teatro scanzonato e improvvisato che racconta se stesso.
Il senso di un divagare poco governato, questo si rimprovera a Il trionfo dell’asino, romanzo condotto con un piacevole cabotaggio, a causa però del quale, alla lunga, si fa sentire la nostalgia del mare aperto, il bisogno di una bussola e infine di una terra verso cui puntare la prua.

Andrea Ballarini, Il trionfo dell’asino, Bracciano (RM) – Cosenza, Del Vecchio Editore, 2009.

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Da regalare: a chi insegue le orme di Giacomo Casanova

mercoledì 31 agosto 2011

Lettori scontati (2)

Alla vigilia dell'entrata in vigore della Legge Levi sul prezzo dei libri, ecco la seconda parte delle nostre riflessioni in merito (leggi la prima).


Si tratta di una mossa per ostacolare gli operatori on-line? È risaputo che la gran parte delle librerie virtuali offrono i libri a prezzi più vantaggiosi rispetto a qualsiasi altro operatore ‘fisico’, e i loro sconti vanno oltre la soglia sopportabile da una normale libreria. Dunque per il lettore esse risultano spesso preferibili, anche perché danno l’illusione di garantire un servizio molto più efficiente. Ho detto illusione perché molto di frequente i loro archivi, gestiti in maniera quasi del tutto automatizzata, forniscono informazioni approssimative: danno per esaurite edizioni che non lo sono, presentano come fuori catalogo libri in realtà non ancora usciti, etichettano come “di difficile reperibilità” i libri di editori per i quali non dispongono di un contatto diretto, ecc. Dunque illudono di garantire un servizio sempre migliore rispetto al classico libraio, in realtà non sempre è così. Nonostante ciò la validità dei loro servizi è indubbia, e questo consentirà loro di prosperare, ne sono convinto, persino scontando ‘solo’ del 15%.
È una legge che va a discapito dei lettori? Anche chi è disposto ad un sacrificio per salvaguardare la ‘bibliodiversità’, si chiede perché le librerie indipendenti e di qualità debbano garantirsi la sopravvivenza gravando solamente sulle spalle di quei lettori disposti ad accettare prezzi meno convenienti. In fondo, in un regime di libero mercato, chi non sa ricavarsi la propria nicchia, è giusto che lasci lo spazio ad altri. Con l’avvento dei supermercati, molti piccoli alimentari hanno chiuso i battenti; l’arrivo di Ikea ha piegato le ginocchia a diversi mobilifici; perché non lasciare allora che Amazon o le librerie Feltrinelli si accaparrino tutti i lettori? L’atteggiamento dei librai non mi pare sia mai stato ‘assistenzialistico’, nel senso che da tempo la loro professionalità si è evoluta per offrire servizi e ambienti nuovi tali da garantire comunque un riscontro in termini di clienti. D’altro canto il mercato del libro, per sua natura, soffre molto più di altri della concentrazione della filiera, semplicemente perché dei libri si può fare a meno, del latte no, e questo salva molti pizzicagnoli e condanna tante librerie. Magari, non voglio negarlo, questo è l’inevitabile destino, ma è bene avere presente le conseguenze. Vi sono molti editori minori – in termini esclusivamente di quantità, s’intende – che non sono quasi presi in considerazione dalle grandi catene e che quindi ‘sparirebbero’ assieme alle librerie che oggi danno loro una qualche visibilità. Aggiungo che la libreria è ancora luogo di incontro e promozione della cultura, in special modo locale, con meccanismi che mai e poi mai potranno essere fatti propri dalle librerie Mondadori o Giunti. Si può decidere benissimo di rinunciare a tutto ciò, a patto però di aver ben compreso la complessità dello scenario, cosa che non si può dire di chi afferma che la legge Levi è tout court contro i lettori.
È una legge miope, che non risponde alle sfide dei nuovi mercati e delle nuove tecnologie? Non era quello l’ambizioso obiettivo. Convengo che è una legge minore, anche protezionistica, ma di un protezionismo intelligente (pratica auspicabile per uno Stato), complessivamente a favore di molti piccoli e a scapito di pochi grandi, in un momento di difficoltà economica per il comparto. Trovo sia insomma un buon segno che lo Stato intervenga a correggere una pratica commerciale che minava la ricchezza del panorama editoriale. I nuovi mercati e le nuove tecnologie sono altra cosa, sfida ben più impegnativa e comunque non schivabile; sfida che rimane aperta e andrà riflettuta, sia dalla politica sia da editori e librai, al di là degli effetti e del corto raggio (ma non miope) della legge Levi.

Non pretendo che queste riflessioni sparse possano esaurire il discorso, ma mi bastano per dire che il segnale è a mio avviso positivo. Non si tratta peraltro di un’iniziativa isolata: in Francia c’è un tetto agli sconti del 5%; in Spagna e Germania gli sconti mi pare non siano nemmeno previsti. La compagnia non è così malvagia. Per chi volesse approfondire, consiglio di entrare in contatto con i Mulini a Vento, un collettivo composto da diverse case editrice medie e piccole che opera per una nuova regolamentazione del mercato del libro e che ha già ipotizzato nuove iniziative per il prossimo futuro.

Foto: Mulino a vento © Alessandro29

sabato 27 agosto 2011

La Berlino di Bowie

«La gente resta esterrefatta quando scopre che fumo, mangio e scorreggio», confida Bowie a un giornalista nei giorni della Ziggy-mania. E in quei giorni il mondo della popular music scopre la fascinazione – o la repulsione, a seconda della tifoseria – per l’uso della maschera. L’archetipo della rockstar sanguigna, energica, idealista e che canta di sé e della sua visione del mondo si accorge all’improvviso di avere un gemello rivale: un attore con i suoi costumi di scena e i suoi mutevoli personaggi, che canta di altri mondi, non necessariamente possibili.
David Bowie giunge al culmine della sua fase glam nel 1973, con l’invidiabile status di fenomeno del momento – secondo nella scuderia della casa discografica soltanto a sua maestà Elvis Presley – ma con il fastidioso effetto collaterale di una psiche devastata da pressione e additivi chimici. La prima mossa dell’esausto David per far fronte all’emergenza è quella di gettare alle ortiche i costumi da glam-rocker per cercare un nuovo modo di porsi davanti al pubblico.
Attraverso qualche disco di transizione (come il commercialmente ben accolto Young Americans), e un inquieto girovagare tra set cinematografici e città, Bowie seleziona un nuovo giro di musicisti, rinsalda il rapporto con il produttore Tony Visconti e il compagno di scorribande Iggy Pop e si tuffa in una avventura che lo porterà a pubblicare a proprio nome tre album di notevole livello nel giro di pochi anni.
Il libro di Seabrook è un ottimo esempio di racconto imperniato sull’atto creativo: una volta liberato il protagonista dai claustrofobici ammennicoli di scena, il tempo-spazio che include la lavorazione di Low, “Heroes” e Lodger, (la cosiddetta trilogia berlinese) descrive un quadro in perenne movimento, contraddistinto dalla liberatoria fluidità del progetto musicale, con le sedute per i dischi che usciranno con il nome di Bowie e quelli da lui prodotti nello stesso periodo per Iggy Pop che formano una sorta di continuum, dai confini in alcuni casi difficilmente tracciabili.
I musicisti impegnati nelle sedute di registrazione rivelano un altro aspetto importante di questo scorcio di carriera dell’eclettico artista inglese, che mette su un workshop dalla composizione mutevole e aperto a contributi filosoficamente intriganti: assolutamente da leggere i passaggi su Brian Eno e i suoi procedimenti aleatori, e ancor più il resoconto sulle modalità di registrazione utilizzate da Robert Fripp e Tony Visconti sull’album “Heroes”. Altrettanto ben strutturate le schede critiche sugli album di Bowie (e Pop), ma con la pecca della rimozione dolosa di quella relativa a Lodger, pur catalogato a ragione e con dovizia di argomentazione come non berlinese dall’autore.
Su tutto aleggia Berlino, come luogo fisico, dove Bowie approda con la tragica sensazione espressa in Be My Wife, «ho vissuto in ogni parte del mondo, e da ogni posto me ne sono andato», e la sua storia drammatica e unica, senza dimenticare il fascino della kosmische musik tedesca di quegli anni che fornisce molto di più che una mera base d’appoggio estetica per i nuovi lavori del musicista britannico.
In fundo, da non perdere la campana rivelatrice del business, con la casa discografica che – mentre il suo artista (ormai numero uno, dopo la morte del re del rock’n’roll), snocciola una serie di paesaggi sonori che influenzeranno intere correnti musicali negli anni a venire – attende inconsolabile uno Young Americans No. 2. C’est la vie.
(post di Gabriele Maiolo)


Thomas Jerome Seabrook, Bowie. La trilogia berlinese, Roma, Arcana, 2009.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: a chi pensa che il Duca bianco sia un personaggio delle fiabe

domenica 21 agosto 2011

Lettori scontati

Se ci avete fatto caso, questo agosto si sta presentando come un mese di sconti selvaggi in fatto di libri, e i saldi c’entrano poco. Dal 1° settembre 2011 entrerà infatti in vigore la legge Levi – varata per regolamentare la «disciplina del prezzo dei libri» – in conseguenza della quale fare sconti sarà molto più complicato, perciò qui e là ci si sta attrezzando a fare cassa, non sapendo bene quali saranno i reali effetti sul mercato. La legge in sé è abbastanza semplice, consta di soli tre articoli, e nella sostanza dice che al consumatore finale un libro potrà essere venduto al massimo con uno sconto del 15%. Fatte salve promozioni specifiche per periodi limitati (art. 2 comma 3), e comunque non applicabili nel mese di dicembre, il risultato è che di 3x2 o di libri a metà prezzo non si dovrebbe più sentir parlare né in libreria o al supermercato, né nei bookshop on-line; al lettore rimarrebbe solo la speranza di trovare qualche titolo con prezzo ridotto appunto del 15%. Come tutte le leggi che hanno un diretto impatto sulla vita quotidiana, l’approvazione della Levi ha sollevato un dibattito, in particolare fra chi opera in diretto contatto con il mondo del libro: editori, librai, lettori. Le voci maggiormente contrarie si sono fatte sentire fra i lettori forti, coloro che acquistano molti libri e che erano finora abituati a inseguire l’offerta, a sfruttare con perizia i nuovi mezzi offerti da internet, a lamentarsi spesso per i prezzi di copertina eccessivamente alti.
Per riflettere sulla faccenda, ritengo necessario preliminarmente considerare come si suddivida l’incasso derivato dalla vendita di un libro. La questione potrebbe essere articolata con maggior analiticità, ma per il nostro uso basterà un calcolo a spanne basato su un libro dal prezzo di copertina di € 10,00 (considerate tutti i valori come dei circa). Il libraio che ve lo venderà si metterà in tasca € 3,00, oppure meno se deciderà di concedervi qualche sconto. Il legame fra editori e librai è garantito da coloro che gestiscono la movimentazione delle copie e la diffusione delle notizie sulle nuove uscite, vale a dire distributori e promotori, questi del nostro libro si spartiscono € 2,50. Quanto rimane arriva nelle casse dell’editore che però deve sottrarre almeno € 0,40 di Iva e, se prevista, una percentuale per l’autore (nel migliore dei casi – per l’autore – saremo attorno all’euro). Diciamo allora che, senza considerare l’altamente variabile costo di produzione, all’editore di quel libro si renderanno disponibili in media € 3,50.
Se questo è lo scenario, a chi giova allora la legge Levi? Giova a chi sul libro ancora opera con un tipo di produzione artigianale. Tutta la questione si risolve in fondo stabilendo se questo genere di produzione è da considerarsi degna o non degna di salvaguardia. Partiamo dalla seguente citazione, dove si dice che c’è il rischio di «perdere la peculiarità di una produzione ‘artigianale’ che ha segnato anche notevoli successi», perché «iniziano a insinuarsi (…) grossi imprenditori che hanno fiutato l’affare, che mettono sul mercato ingenti quantità di prodotti più omologati, anche buoni, ma che si rifanno al modello industriale»; bisogna allora «creare le condizioni per una sostenibilità completa, economica ma anche nel rispetto delle diversità» («la Repubblica», 8 agosto 2011, p. 21). Credo che nessuno si sia alterato nel leggere queste righe, forse anzi più di qualcuno le avrà trovate sacrosante, visto che non di libri si parlava, ma di birra. Il panorama in realtà è molto simile: ci sono grosse concentrazioni di potere, vale a dire pochi grandi gruppi, che ingeriscono su ogni livello della filiera, imponendo le proprie scelte al mercato. Si tratta di un meccanismo evidente e noto in molti altri ambiti del nostro quotidiano, nulla di nuovo sotto il sole, di fronte al quale tuttavia si può decidere di porre, o tentare di porre, qualche limite. Ma scendiamo nel concreto, partendo dalle obiezioni più frequenti alla legge Levi.
I libri sono cari, perché impedire gli sconti? Proviamo a fare dei confronti con altri beni voluttuari: un profumo non costa meno di 40 euro, un ingresso in un cinema 3D viene una dozzina di euro, e quanto si spende per una pizza con birra? Considerando quello che possono offrirci (e data la capacità di risolvere tanti problemi in fatto di regali), personalmente non trovo affatto che i libri siano cari. Nonostante ciò la norma è ormai, fateci caso, che i libri debbano essere per forza venduti con uno sconto. Acquistare un romanzo a prezzo pieno viene automaticamente sentita come un’ingiusta imposizione, o addirittura un furto legalizzato. Ma quando mai ci sogneremmo di chiedere un abbuono sul biglietto del cinema? O sui prezzi del menù al ristorante? Quelli sono e quelli rimangono, salvo specifiche promozioni. Certe distorsioni nel mercato dei libri hanno invece modificato le nostre percezioni di lettori/clienti, trasformando in anomalo quello che in altri ambiti è la norma. Gli editori ovviamente fanno i loro calcoli, si preoccupano del marketing – perché non dovrebbero? – e stabiliscono un prezzo che consenta un adeguato guadagno per tutti (torniamo ai meccanismi di distribuzione a cui ho già accennato). Eppure quel prezzo il cliente finale non lo paga quasi mai: qualcuno ci deve perdere per forza.
(Fine parte prima)

Foto: The importance of words © Angelo Amboldi

giovedì 11 agosto 2011

I corpi sotto al mulino

Un nuovo post in collaborazione con il Piccolo Festival della Letteratura: una recensione doppia per un giallo montano.

L'ultima anguàna, seconda prova narrativa di Umberto Matino, può essere letto come una storia di ritorni: la vacanza a Posina dei piccoli Vito, Marilù e Pino è allegoria della civiltà urbana, figlia dello sviluppo denunciato come «nuovo fascismo» da Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corsera, che torna alle proprie origini  arcaiche; e prima dei bambini era tornata a Posina la donna che li ospita, Margherita, dopo un periodo a Vicenza che si rivelerà avvolto in un fascio di contraddizioni e mistero; ritorna a Posina, da maresciallo, quello che fu il brigadiere Pietro Baldelli, per fare i conti con tragedie rimaste inspiegate; in generale, tornano a vivere storie che si credevano, si temevano, si speravano sepolte per sempre. Torna, infine, l'autore ai temi e ai luoghi che segnarono il suo fortunato esordio, nel 2007, con La valle dell'orco. I luoghi della sua infanzia.
Si tratta però di ritorni ultimi – e lo capiamo sin dal titolo. Alle morti individuali che segnano la storia inventata da Matino, si affianca e si intreccia la morte collettiva di una civiltà fatta di un impasto eterogeneo di violenza, semplicità, rancori, fantasia, chiusura, storie e sapienza. Un intreccio, un volto complesso ed espressivo, la cui fisionomia è stata stravolta, negli ultimi quarant'anni, da un benessere talmente dirompente da illuderci di non aver lasciato dietro di sé nemmeno un frammento della miseria che l'aveva preparato e desiderato.
In questo senso, L'ultima anguàna, oltre ad essere un giallo, usa il genere e il «paradigma indiziario» che lo caratterizza per raccontare una storia più ampia, quella delle valli che stanno al confine tra Veneto e Trentino. La ricostruzione delle origini cimbre delle popolazioni che abitano quei luoghi diventa un invito al lettore perché si metta in gioco e provi a riconoscere in piccoli segni gli indizi di un tessuto narrativo più ampio. Matino sembra ricordarci che c'è una memoria collettiva che aspetta di essere fatta risuonare: essa vive nelle architetture, nei nomi delle cose e delle persone, negli alberi, nei detti, nelle filastrocche e nei gesti. Elementi alla portata di chi abbia voglia di guardarli e riconoscerli, per scorgervi la fondamentale solidarietà tra arcaico e moderno, segnata dall'avarizia, dalla sete di denaro – ma anche dal bisogno di emancipazione che le povertà, vecchie e nuove, portano con sé.
L'ultima anguàna può allora essere letto anche come un lamento per la scomparsa di una civiltà di cui l'autore ha visto gli ultimi sussulti: una civiltà segnata da una violenza tanto più cruda quanto più riconoscibile rispetto a quella, fredda e anonima, che contraddistingue i nostri giorni. Non sappiamo per quanto.

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I piccoli borghi di montagna, per loro natura isolati e all’apparenza immobili, sono luoghi che tendono ad inghiottire le storie torbide, a sospingerle negli anfratti meno accessibili della memoria. Così accade quando eventi tragici vengono a scuotere, con cadenze pluriennali, la sonnolenza di Pòsina – un pugno di case in provincia di Vicenza – e il paese ogni volta si affretta a metterci una pesante pietra sopra, ignorando il monito inevitabile di una ferita aperta. Ma i fantasmi ritornano, ed è più facile figurarseli come esseri mitici, le anguane, ninfe traditrici, metà donne metà rettili, nascoste nelle acque dei torrenti, piuttosto che accettare possano essere persone qualunque, magari i vicini di casa. Ci vogliono i ‘foresti’, quelli che vengono da fuori, con la loro acribia e la giusta ignoranza di meccanismi ancestrali, per sollevare i veli e portare alla luce quanto viene sospinto nell’oscurità dagli sguardi bassi e dalle bocche serrate.
A portare avanti la trama de L’ultima anguàna di Umberto Matino ci pensano due autorità del borgo, il carabiniere e il parroco, entrambi originari d’altri luoghi, entrambi segnati dal forzato scontrarsi con morti violente e misteriose, entrambi cocciuti ma inesperti cacciatori di verità. I protagonisti del romanzo sono in realtà molti e Matino sa intrecciare le loro vicende, le loro personalità, costruendo un giallo piacevole e anche coraggioso, soprattutto nel giocarsi alcuni dolorosi punti di svolta della storia. A ciò va aggiunta l’evidente conoscenza dei luoghi, sia, mi immagino, per esperienza diretta, sia per uno studio puntuale di vari saggi storici. Peccato che a volte l’erudizione debordi invadendo la narrazione: di molte delle 36 note in coda al volume si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno; ma anche certi inserti nel testo finiscono per apparire forzati, come ad esempio la spiegazione dell’origine tedesca di alcuni toponimi (p. 21). Succede che si producano degli scompensi temporali, indotti appunto dalla commistione fra racconto e appunto storico-geografico, cosicché presente e passato dei verbi si alternano a volte con discontinuità (pp. 17-18).
C’erano peraltro delle inevitabili difficoltà a condurre la storia attraverso tre tappe temporali distinte – 1948, 1956, 1968 –, senza perdere i fili della trama e dando giustificazione ad ogni evento. Tutto ruota attorno alla lenta decadenza di un mulino abbandonato, al prato che vi sta attorno, al torrente rabbioso che lo lambisce. Perché Margherita, che tanta parte ha nelle vicende d’ogni epoca, non rifugge più decisamente quel luogo ‘maledetto’? Perché ai tre bambini non impedisce con maggiore fermezza di avvicinarvisi? La rincorsa impellente verso la verità aiuta comunque a rendere innocue certe perplessità, anche in virtù della capacità di Matino nel rendere le atmosfere e i ritmi di quei borghi di montagna, quasi scomparsi dalle nostre cartine geografiche. Si perdonano pure i momenti in cui la penna prende il sopravvento e si ascolta la stessa Margherita dire di «una sagoma scura che si inoltrava fra gli alberi, velati dal pulviscolo acqueo che si levava dai flutti» (p. 247), descrizione troppo raffinata per stare in bocca ad una semplice montanara.
Alla fine non si può fare a meno di affiancare il brigadiere Baldelli e seguirlo passo passo nel suo tentativo di dare respiro alla giustizia, benché l’abbandono dei luoghi, nelle Prealpi venete come altrove, appare quale riflesso della rinuncia ad una vita consapevole, sensata. E così – esattamente come Baldelli – si finisce per condurla da soli quell’inchiesta, quando ormai non serve quasi più a nulla, forse solo a far tacere, per qualche attimo, la coscienza offesa.
(post del VoltaPagine)

Umberto Matino, L'ultima anguàna, Forlì, Foschi, 2011

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al cultore del latte di malga

mercoledì 27 luglio 2011

A049

C'è molta letteratura dietro le equazioni di terzo grado e la forza centripeta, più di quanta vi aspettereste. Basta conoscere il codice segreto; a noi l'ha insegnato Alessandra Angelucci con una nuova rubrica, A049.

Il pappagallo saccente
Parigi, Monmartre. Sotto il tipico tetto in ardesia di un batiment di due piani convivono: Pierre Ruche, libraio di 84 anni costretto in sedia a rotelle da un incidente; la ruvida Perrette, responsabile della libreria e madre single; i figli di Perrette: Jonathan e Lea - gemelli diversi poco più che sedicenni - e Max, non udente, 11 anni, adottato. Un gruppo che vive «in una coabitazione fluida, non conflittuale, scandita da abitudini intrise di un affetto privo di slanci e [senza] nulla da dividere se non la vita quotidiana».
In una calda mattina d’estate Max torna a casa dal suo solito giro al mercato delle pulci con un pappagallo testa blu sottratto a due brutti ceffi che lo stavano maltrattando. In quella stessa mattina Pierre riceve una lettera da Elgar Grosrouvre - amico di università del quale non ha notizie da cinquant’anni – che lo informa di avergli spedito alcune centinaia di chili di opere matematiche.
«Resterai senz’altro stupito sentendomi parlare di “letteratura” a proposito della matematica, ma posso assicurarti che in questi libri ci sono storie che valgono quanto quelle dei nostri romanzieri migliori...». Di Grosrouvre arriva a breve la notizia della morte assieme a un’altra lettera, scritta poco prima di morire nell’incendio della sua casa. Incidente, omicidio o suicidio?
La chiave dell’accaduto è nelle due lettere, Pierre Ruche ne è certo, e per decodificare gli indizi lasciati dall’amico si trova costretto a ripercorre alcune delle tappe più significative della storia della matematica. Lui che l’aveva sempre temuta e detestata! E così la matematica smette la camicia di forza in cui la trattazione scolastica troppo spesso la costringe e  (ri)prende vita. Torna ad essere quello che è: opera collettiva, frutto del lavoro millenario di uomini e donne (poche purtroppo) differenti per epoche e  per formazione. Un grande gioco collettivo di rimpallo fra realtà e immaginazione; fra ludos e praticità, fra persone e persone e persone.
Durante le lezioni di matematica non si parlava mai di esseri umani. Di tanto in tanto si sentiva echeggiare un nome: Talete, Pitagora, Pascal, Cartesio, me era soltanto un nome, per l’appunto, come quello di un formaggio o di una stazione del metrò. [...] le formule, le dimostrazioni, i teoremi finivano sulla lavagna come se nessuno li avesse creati, come se esistessero da sempre, alla stessa stregua delle montagne o dei fiumi [...]. E si arrivava al punto che le formule, le dimostrazioni, i teoremi avevano un’aria atemporale ancor più delle montagne e dei fiumi.
Con il suo romanzo Guedj riesce a restituire alla matematica la sua umanità. E ci riesce senza spogliarla delle prerogative che la rendono rispettata e indispensabile: la ricerca della precisione e del rigore, la profondità, la cura del dettaglio, l’utilizzo di un linguaggio tecnico. Tutti quegli aspetti che la rendono difficile da insegnare e da apprendere, o quantomeno impegnativa. Come fa? Scegliendo pochi argomenti di facile comprensione (ad esempio la misura dell’altezza della piramide di Cheope ad opera di Talete) e facendoli mettere in scena dal sig. Ruche e compagni. Sì: teatro all’interno di un romanzo mate-storico spruzzato di noir.
Si può obiettare che il plot narrativo sembra un po’ debole in qualche occasione, risultando un mero pretesto per altro; che qua e là ci sono forzature. Che la verosimiglianza è alla Pennac senza che l’autore sia Pennac (una per tutte: il pappagallo impara a memoria e racconta brani di matematica che metterebbero in difficoltà più di un essere umano). Tutto vero, ma l’obiettivo è talmente condivisibile e il risultato talmente divertente... E poi c’è la scelta dei toni e delle atmosfere: questo gruppo fluido che attorno ai racconti di “fredda matematica” si scopre finalmente famiglia («piombata su di loro, tra capo e collo, quella storia di Manaus, la biblioteca, i libri, la matematica, l’incendio... per la prima volta, Perrette sentiva tutti gli abitanti della casa vibrare all’unisono; e persino il papagallo contribuiva a quel risultato»); e, non ultimo, un nuovo punto di vista per riscoprire Parigi.
(post di Alessandra Angelucci)

Denis Guedj, Il teorema del Pappagallo, Milano, TEA, 2003.

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Da regalare: a chi mette mano alla pistola non appena sente nominare Pitagora.

domenica 26 giugno 2011

I giovedì di Santa Mar(chet)ta

Alla fine se n’è andato. Un calvario, anzi una dissolvenza piuttosto lunga ha accompagnato fuori scena il Ministro per i Beni Culturali Sandro Bondi. Sono ormai diverse settimane che il suo posto è stato occupato dal sopravvenuto Giancarlo Galan, eppure solo ora, lasciata calare la polvere, mi vengono da spendere due parole. Non ho mai provato particolare simpatia per l’operato di Bondi, mi è capitato persino di punzecchiarlo su un piccolo vezzo, però in soldoni c’era sempre ben poco da dire su un ministro il cui peccato maggiore è stato l’evanescenza. Sovrintendenti e funzionari, direttori e consulenti, in tanti hanno spesso atteso, invano, un cenno, un qualunque cenno per capire come doversi muovere, da che parte dirigere la baracca, ma lui il più delle volte taceva. Forse non aveva risposte, forse non erano quelle che avrebbe voluto dare, di fatto la situazione era diventata presto insostenibile. Come ha raccontato Mattia Feltri su La Stampa, sebbene fosse benvoluto dai suoi sottoposti, Bondi non è mai riuscito a lavorare serenamente sulla poltrona dei Beni Culturali, e non è davvero ben chiaro perché l’avesse con insistenza cercata, e perché sia diventata, subito e solo, una fonte di crucci.
Un po’ spiace, dato che c’eravamo illusi sentendo a suo tempo dire che «il Ministro Bondi conferma ancora una volta la sua attenzione al libro e alla lettura in un momento storico in cui si avverte sempre più la necessità di fermarsi a riflettere per ritrovare le proprie radici». Così erano stati presentati “I giovedì di Santa Marta”, un ciclo di incontri settimanali dedicati ai libri che avevano luogo nell’omonima chiesa sconsacrata a due passi dalla sede del Ministero. L’iniziativa aveva preso il via il 5 febbraio 2009, grazie al lavoro di un comitato scientifico coordinato dal Ministro stesso e composto, tra gli altri, da Maurizio Costanzo, Angelo Crespi, Antonio De Benedetti, Alain Elkann, Maurizio Fallace, Giorgio Ficara, Raffaele Iannuzzi, Giorgio Montefoschi, Davide Rondoni, Maria Luisa Spaziani, Marina Valensise. Si prospettava, almeno formalmente, un gran dispendio di energie allo scopo di «offrire un panorama della recente produzione editoriale, su tematiche di particolare spessore intellettuale». E Sandro Bondi ci si mise di buzzo buono se, come accadde, presenziò quasi a tutti gli appuntamenti, dando prova di una costanza da un lato ammirevole, dall’altro sollecitatrice di cattivi pensieri, perché un Ministro per i Beni Culturali lo si immagina molto impegnato e in costante movimento sul territorio, mentre il nostro ogni giovedì, fatti quei venti passi, era lì a Santa Marta, a coordinare l’evento. Any given thursday.
Nel tempo si sono susseguite presentazioni molto diverse fra loro, una buona fetta ha riguardato prodotti ‘statali’, ovvero pubblicati dell’Istituto Poligrafico, fra i quali La politica delle arti di Giuseppe Bottai – non saprei dire se in chiave nostalgica per il MinCulPop –, l’Atlante del giardino italiano, Aquileia. Storia di una città, fino ad arrivare all’Indice degli autori dei manoscritti in scrittura latina della Biblioteca Angelica, che quanto a specificità dell’argomento si colloca senz’altro ai primi posti. A fronte di una dipendenza verso i libri stampati dallo Stato, e per una evidente volontà di par condicio, il comitato non ha fatto mancare appuntamenti legati in vario modo alla realtà ecclesiastica. La rassegna si è anzi aperta con Perché dobbiamo dirci cristiani di Marcello Pera, a cui ha fatto seguito la presentazione dell’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI, testo dunque in latino, ideale in un’ottica di promozione della lettura. Ma il mondo religioso è stato presente a Santa Marta anche con uno dei volumi dell’opera Santuari d’Italia e con La Madonna in Michelangelo di Stefano De Fiores. Entrambi fungono da ponte ideale verso un ulteriore ambito che vanta una notevole presenza, quello della storia dell’arte, con presentazioni di libri dedicati al Futurismo, al Barocco in Abruzzo, e, concludendo, all’Italia delle meraviglie di Vittorio Sgarbi. Ci sono stati poi appuntamenti estemporanei piuttosto curiosi, come ad esempio il giovedì dedicato ad un numero della rivista «Accademie e Biblioteche d’Italia», periodico di carattere specialistico a cura del Ministero, oppure quello incentrato sul libro Chi manipola la tua mente? Vecchi e nuovi persuasori di Anna Oliviero Ferraris. Al di là della vicenda umana, stupisce anche la scelta di Miracolo a Milano, il racconto della lotta di Cesare Bramieri, figlio del più celebre Gino, «contro un male incurabile», scritto dalla moglie Lucia; più del valore letterario del libro, può aver inciso la firma di Roberto Formigoni in calce alla prefazione. Dulcis in fundo, anche se fuori rassegna, c’è stata la presentazione di Il sole in tasca dello stesso Bondi, una summa di conflitti di interesse e inopportunità: il Ministro presenta un proprio libro in una sede del Ministero, libro che è un azzardato elogio del Presidente del Consiglio, ed è ovviamente pubblicato dalla casa editrice di proprietà del Presidente. Più di così, ditemi voi.
Scegliere non è semplice e ogni scelta è opinabile, ma non era lecito aspettarsi qualcosa di più profondo e incisivo da una serie di eventi organizzati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali? La promozione del libro e della lettura può verosimilmente realizzarsi offrendo un palcoscenico così importante a questa tipologia di iniziative editoriali? Non ci voleva forse maggiore coraggio e, perché no, intelligenza per organizzare un calendario di giovedì che fosse davvero di stimolo al leggere e al dibattere, anziché apparire troppo spesso come una vetrina di convenienze? È giusto escludere quasi del tutto la narrativa da una rassegna dedicata al libro? Tramite siffatte proposte, chi può pensare di trasmettere il messaggio che leggere è utile, interessante e piacevole? Avete mai notato quanto una serie di domande retoriche suoni fastidiosa? Voltiamo allora pagina, senza rimpianti, sperando in un repentino cambio di marcia.

Foto: Santa Marta © Brodmarc

domenica 29 maggio 2011

It’s only rock ‘n’ roll, but I like it!

«Per molti anni ho dormito, in media, due volte a settimana. Questo significa che sono stato cosciente per almeno tre vite intere» (p. 27).
Nessuno avrebbe potuto iniziare così la propria autobiografia. Ma Keith Richards non è nessuno. È la colonna portante di gran parte della musica moderna. È il chitarrista della più longeva e più grande band di rock&roll. È, semplicemente, Keith Richards. In quelle due righe c’è tutta l’essenza di una vita strepitosa, senza limiti, senza barriere, senza costrizioni sociali. Keith è l’ultimo degli uomini liberi. O, se volete, l’ultimo dei romantici. Nei solchi che ne scavano il viso e negli occhi dipinti ci si perde, travolti dalle immagini dei primi anni ’60, della swinging London, delle case nei sobborghi, della contestazione giovanile, della vita randagia. E poi dalle forme del blues, ascoltato, suonato, masticato, digerito, vomitato, fino all’ultima nota. John Lee Hooker, Chuck Berry, Muddy Waters, Bo Diddley, Elmore James, Jimmy Reed. E poi dai primi successi e da locali mitici, il Marquee, il Flamingo, l’Ealing Club, il Crawdaddy Club, il Red Lion, la Manor House. E si sentono, dai solchi sul volto, i riff di Satisfaction, di Paint It Black, di Jumpin’ Jack Flash, insieme alle urla dei fans. Non è soltanto immagine o suono il volto di Keef. È odore. Odore di viaggio, di una vita davvero on the road. Odore di un’estate a Villa Medici, quella del 1967, o di Africa, Marocco, Marrakech, Giamaica, Sudamerica. Ma è anche odore di droga, di ogni tipo e genere, odore del buio. Arresti, processi, aghi, siringhe, buchi, astinenza. Dal buio però si vien fuori. Qualcuno o qualcosa accende una luce. Un ragazzino, una donna, o soltanto, ancora, la Musica. Quanta musica su quel volto. «A Keith piacciono i diamanti nella polvere, gli piace la musica zulu, la musica pigmea, la musica arcana, misteriosa e impossibile da catalogare» (p. 479): è Tom Waits, tra i tantissimi, che racconta della loro collaborazione. A Keith piacciono anche libri, ha una biblioteca piena di volumi. E sono questi aspetti, quelli a cui Keith non ci ha abituati che, come ovvio, stupiscono e meravigliano. Keith che ha amato tantissime donne, ma che spesso è finito a letto con loro «senza fare alcunché, solo stare abbracciati e dormire insieme», storie che hanno «ben poco a che fare con la lussuria» (p. 326). O Keith che si prende cura di un gattino bagnato e abbandonato alle Barbados, da cui vien fuori il nome dell’album Voodoo Lounge. Oppure Keith che ama cucinare e che, sulle pagine del libro, ci lascia la sua ricetta per i Bangers and Mash (p. 485).
E, infine, tra gli incavi del viso scavati e incisi quasi come solchi di vinile ci sono loro, i Rolling Stones, i due Mick, Bill, Brian, Ron, Charlie. La squadra perfetta. Gli infiniti tour, le interminabili sessions negli studi di registrazione di tutto il mondo o nel seminterrato di villa Nellcôte, dove, tra l’estate e l’autunno del 1971, nacque uno dei migliori album rock di tutti i tempi, Exile on Main St. E sono esperimenti, valvole, banchi, sale regia, missaggi, chitarre, litigi, abbracci, voce, creatività, passione.
Che dio (!) ti benedica, Keef!
(post di Salvatore Sansone)

Keith Richards, Life, Milano, Feltrinelli, 2010.

Le mie chiocciole: @@@@@

Da regalare: ai metallari cronici

martedì 3 maggio 2011

La nobiltà dell'elio

Si inaugura con questo post la collaborazione del VoltaPagine con il Piccolo Festival della Letteratura. D'ora in poi, una volta al mese circa, godrete della straordinaria offerta di due recensioni al prezzo di una: due prospettive diverse sul medesimo libro per scoprire quanto soggettiva può essere una recensione.

Più leggero dell'aria è il primo romanzo di Fabio Guarnaccia, già autore di racconti e saggi. Un romanzo di formazione, una narrazione sul divenire adulti, ma soprattutto una storia su padri e figli e sui conti che si debbono per forza fare all'interno del rapporto tra di essi.
Elio Usuelli è un antropologo affermato, avviato però verso il declino professionale, senza più interesse né per la propria materia né per la vita accademica. Un uomo ritratto nel pieno di una crisi esistenziale. Ciò che lo risveglierà da quest'inedia sarà una strana scoperta sul passato del padre. Celestino Usuelli, infatti, fece parte, del tutto segretamente, della spedizione polare del dirigibile Italia del 1928. Non fece però mai menzione di questa avventura con nessuno, tantomeno con il figlio.
Sarà Fausto, assistente e grande estimatore di Elio, che, in un capovolgimento di ruoli, riuscirà a convincerlo ad affrontare con determinazione questo mistero legato al passato paterno e a partire per il nord della Norvegia. Fausto, co-protagonista e narratore, è un giovane allievo terrorizzato dai viaggi, tanto da non essersi mai allontanato da Milano. Una città che, attraverso i suoi occhi, troveremo quasi più inconsueta del lontano Polo Nord. È un ragazzo non più giovanissimo alle prese con due padri: il padre biologico con cui non è mai riuscito ad instaurare un vero rapporto e il maestro che stima e ammira ma dal quale non sa affrancarsi.
Questo viaggio verso il Polo forse non sarà un'avventurosa esplorazione come quella di Umberto Nobile, ma si rivelerà risolutrice per entrambi i protagonisti: il maestro e il discepolo. Il primo dovrà venire a patti con i terribili fantasmi che riguardano la verità sul padre che, scontatamente, credeva di conoscere così bene. Mentre per il secondo sarà l'occasione per superare le proprie paure e ansie, ma soprattutto, sarà l'occasione per trovare l'indipendenza e il senso della propria vita, anche se questo significherà passare attraverso duri contrasti e la – quasi necessaria – disillusione.
Se per alzarsi in volo il dirigibile necessita di utilizzare idrogeno, un gas più leggero dell'aria, per questi protagonisti la leggerezza e il conseguente librarsi e liberarsi saranno raggiungibili solo passando attraverso lo svelamento e il superamento dei pesanti fardelli che li tengono ancorati.
Guarnaccia, con Più leggero dell'aria, tocca alcuni dei temi fondamentali della letteratura e lo fa con originalità nella scelta dell'ambientazione, con toni ironici e una semplicità di linguaggio solo apparente.
(post di Barbara, dal Piccolo Festival della Letteratura)

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Un paio di scarpe pesanti, il cuoio segnato dai ghiacci del Polo e macchiato di un sangue antico. Sulle orme di quelle scarpe si incammina Elio, antropologo e accademico, deciso a svelare un mistero legato all'impresa del dirigibile governato da Umberto Nobile nel 1928. Un segreto taciuto da suo padre lo costringe a inseguire le poche tracce rimaste, fino a sollevare il velo, fino a comprendere e rimuovere la ragione del tacere. Lo accompagna Fausto, allievo non più giovane ma ancora inesperto di troppe cose della vita, che è per il maestro un pungolo, a tratti fastidioso, sempre necessario. Con una mano sul cuore e l'orecchio teso ad udire il fluttuare del dirigibile “Italia” o la risata scandinava di Svava, i due cercano risposte nel passato e nel proprio intimo, risposte utili a vivere meglio nel presente, utili ad Elio per ritrovare se stesso, utili a Fausto per avere il coraggio di essere.
Nulla di davvero avventuroso esce dalle pagine di Più leggero dell'aria, anche le vicende più estreme arrivano al lettore tramite il filtro della memoria di un diario, di un racconto pacato, perché il nucleo rimanga l'esperienza umana dei singoli, l'attenzione si concentri sull'intimità più che sull'azione. I molteplici fili che guidano il romanzo di Fabio Guarnaccia sono interrotti da piccoli nodi attorno ai quali i personaggi si provocano, si sfidano in un corpo a corpo a volte fisico, a volte verbale, a volte fatto di sentimenti contrastanti e ingovernabili. Sono scontri fra padri e figli, fra allievi e maestri, fra amanti, con sovrapposizioni e intrecci, in un percorso di crescita che costringe a farsi carico fino in fondo delle proprie scelte e delle proprie rinunce. Dei tanti fili è composta la trama che risulta perciò complessa e forse nei primi capitoli un po' dispersiva, simile ad un mosaico privo di qualche tessera, tuttavia tale lieve difetto finisce per dare valore alla parte finale, dove il ritmo si fa più serrato, i fili si raccolgono e molti dei famosi nodi vengono al pettine.
Ci vuole una sorta di nobiltà per riuscire a sollevarsi dagli affanni e le incomprensioni del vivere terreno, una nobiltà simile a quella del gas che porta in cielo i palloni aerostatici. Per possederla è necessaria la conoscenza profonda non solo di noi stessi, ma anche del nostro passato. Lo ricorda spesso l'uomo aquila, sorta di fantasma evocato da una missione antropologica, che è come un ammonimento subliminale in grado di dare un senso al tutto: «come pretendi di sapere dove andare se non sai da dove vieni?».
(post del VoltaPagine)

Fabio Guarnaccia, Più leggero dell'aria, Massa, Transeuropa, 2010

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al fan degli Zeppelin

domenica 3 aprile 2011

Più playstation per tutti

Non so se il da poco scomparso Tony Judt fosse effettivamente «il più influente intellettuale americano», come recita la bandella del volume (le presentazioni roboanti, espressione anch'esse della saturazione dei mercati nel campo specifico dell'editoria, sono purtroppo oramai la regola). Per quel che conta, io non l'avevo mai sentito dire. Una cosa però è certa: questo è un bel libro, non un pamphlet e neppure un trattato, piuttosto una riflessione sulla situazione attuale della sinistra internazionale sorretta da un'intensa passione politica e da una pluralità di strumenti teorici, dalla statistica alla storia delle idee, dall'osservazione sociologica alla ricostruzione demistificante di alcune tappe decisive delle politiche dell'ultimo trentennio (in primis, il processo forzato di privatizzazione economica e degli stili di vita).
Le soluzioni? Niente di particolarmente nuovo – è ancora lecito attenderselo? mi chiedo –, ma rinnovati argomenti per sostenere alcune ricette classiche e valide ancora oggi. D'altronde non è questo il metro giusto per valutare un libro del genere, come di frequente non lo è la trama per un romanzo o un buon film: il punto non sono tanto le conclusioni (peraltro assai condivisibili) cui Judt arriva e su cui dirò subito qualcosa. Il punto, come detto, è la forza argomentativa, la messe di dati e soprattutto una mai scomposta e però viva e vivificante passione civile.
Di che si parla propriamente nel libro? Il primo argomento è anche l'ultimo: la diseguaglianza. Sappiamo ormai da un po' di tempo che la cosiddetta forbice tra vertice e base della piramide sociale è andata negli ultimi trent'anni enormemente ampliandosi: questo vale sia nella comparazione tra Stati, sia al loro interno. Non è infrequente che il manager di un'azienda di fatturato medio-grande guadagni centinaia di volte (talvolta di più) del salario dell'operaio di quella stessa struttura. Sono lontani i tempi in cui Kenneth Galbraith, il grande economista e consigliere di Kennedy, fissava l'ideale di un massimale di differenza retributiva a dieci volte soltanto! Sono molto lontani se poi pensiamo alla sinistra di casa nostra, che allora guardava con sospetto a misure simili («Hm, puzzano di riformismo: noi invece vogliamo un rivolgimento completo del sistema!») e oggi contro quel sistema non trova più neppure una parola da spendere.
Ma andiamo avanti, al primo punto concettualmente rilevante del libro: le società democratiche possono sopportare solo fino a un certo livello di disparità di reddito e ricchezza personali. In altri termini, non si può rispondere all'aumento delle disuguaglianze come fa la destra liberista (e buona parte degli ambienti confindustriali), semplicemente dicendo: «L'importante è che anche gli ultimi crescano, non importa se crescendo meno la loro distanza dai primi aumenta: l'accesso a una quantità di beni un tempo indisponibili sale e questo è tutto quel che possiamo desiderare». Questa riduzione teorica (ma sostanziata da concretissime politiche economiche) dell'uguaglianza democratica a un'uguaglianza nel consumo (dall'automobile fino al telefonino passando per la lavastoviglie, la televisione e la settimana bianca) è una mina depositata al centro delle nostre società, nonché un profondo impoverimento etico del concetto classico di ‘uguaglianza’. A molti certo non sfugge che nell'eguaglianza per cui i pargoli del principe William (o, da noi, i nipoti di Silvio Berlusconi) giocheranno alla playstation come i figli dell'ultimo dei suoi sudditi c'è qualcosa che non soddisfa nel profondo le nostre intuizioni emancipatorie, anche se può non essere immediatamente facile dire a parole che cosa è che in questo preteso approdo ci delude.
L'uomo è un animale sociale e ciò nella fattispecie significa alcune cose: l'identità dell'individuo, il suo tasso di soddisfazione o risentimento, i suoi comportamenti sociali o devianti sono plasmati in stretta relazione allo status degli altri appartenenti alla comunità; la democrazia giuridica (formale) non può non essere in certo modo anche democrazia economica (sostanziale): passato un certo limite – e abbiamo forte il sentore di averlo già fatto –, e anche lasciando da parte l'argomento di principio per cui un certo livello di uguaglianza è moralmente desiderabile in sé, la vita civile delle società comincia a degradarsi, come mostrano tutti gli indicatori socio-economici con una relazione inequivocabile tra aumento della disuguaglianza e assenza di mobilità sociale, costi per la salute pubblica, aumento della criminalità, e così via. Le ripercussioni più squisitamente (si fa per dire) politiche di questo stato di cose sono sotto i nostri occhi, nella forma di una risposta fortemente polarizzata: l'odio minoritario e senza progetto in stile black-block o l'apatia civile, la disaffezione al voto, il senso di estraneità verso ogni destino che travalichi quello proprio (e minuscolo) del sé e dei propri cari. Ma, lo scriveva già Montesquieu, senza il collante delle passioni civili, senza interessi disinteressati, senza partecipazione, le democrazie alla lunga non reggono. Tra le false vie di uscita da questa situazione, Judt ha il coraggio di indicare anche la mitologia della rete, dei social network in particolare, e il volontariato: tutte cose utilissime e potenzialmente in grado di irrobustire enormemente la struttura etico-civile di una comunità, ma che semplicemente non possono sostituirsi alla politica, né alla fisicità dei suoi spazi, né alla fatica snervante (e spesso profondamente deludente) dei suoi riti. Il contenuto normativo della vita democratica, insomma, non si lascia disciogliere né da destra, per la via dei consumi, né da sinistra, per quella di un'idealità nauseata dalla vita politica, sottratta ai luoghi e ai corpi (facebook, twitter, ecc.) o settorializzata nella realizzazione di un solo, pur nobile obiettivo (ad es. le ong).          
Queste cose Judt ce le ricorda (e fa bene), ma non ce le dice invero per la prima volta (qua e là le avevamo orecchiate). Gli spunti più interessanti vengono invece dalla sua particolare prospettiva: una prospettiva, come si sarà inteso, robustamente e però nient’affatto nostalgicamente socialdemocratica, apertamente keynesiana in ambito economico, sorretta da un impeto virilmente solidaristico che ricorda l'Orwell dei tempi migliori. Insomma, più ancora che dalla critica all'avversario (neoliberismo, mercatismo, mantra ossessivo del privato e dell'individualismo) è forse dall'autocritica all'ultima versione storica della sinistra, quella che prende le mosse col '68 e arriva fino a noi, che vengono le idee più particolari e connotanti della posizione di Judt. Due temi tra i molti possibili: (a) il Sessantotto, che da noi la destra non perde occasione per interpretare nel modo più piatto e stereotipo, viene passato al setaccio da un diverso e più illuminante punto di vista, non il sei politico e la critica all'autoritarismo, ma la perdita, dietro la copertura distorcente della retorica marxista del ‘collettivo’, di una dimensione autenticamente comunitaria, «per quanto legittime possano essere le rivendicazioni individuali, per quanto importanti possano essere i diritti dell'individuo, mettere l'accento su simili aspetti comporta un costo ineludibile, e cioè il declino del senso di uno scopo condiviso» (p. 66) e ancora «Al contrario, la ‘sinistra’ assunse un'aria vagamente egoista. In quegli anni, essere di sinistra, essere radicali, voleva dire essere egocentrici, preoccupati solo di promuovere se stessi, avere un'ottica peculiarmente ristretta» (p. 67). Siamo, così parrebbe, alle origini del radical chic! Ma l'onda lunga di questa trasformazione ideologica arriva fino ai giorni nostri: al centro del linguaggio politico della sinistra è ormai sempre soltanto la laicità (questa versione italiana dei diritti civili aggiornata all'epoca delle biotecnologie), e non più la giustizia sociale, che invece, come ricordava Bobbio ancora non molto tempo fa, continua ad essere la ragione vera per dirsi o non dirsi di sinistra. (b) Lo Stato, ritornato prepotentemente in auge non solo in occasione dei salvataggi post-crac, ma anche in seguito a buona parte dei fallimenti dei processi di privatizzazione di alcuni servizi pubblici avviati negli anni ’90 (poste, ferrovie, sanità, eserciti, ecc.): «Il compito dello Stato non è soltanto quello di raccogliere i cocci quando un'economia sottoregolata va in pezzi. Consiste anche nel contenere gli effetti di profitti smodati» (p. 146), cioè a dire, lo Stato non solo ha compiti di organizzazione e regolamentazione del mercato (stendiamo un velo pietoso sull'antitrust italiano), nonché di salvataggio di istituti e aziende che semplicemente non possono fallire (concezione ordoliberale del ruolo economico dello Stato). Lo Stato ha anche compiti schiettamente redistributivi, tramite le due leve della tassazione progressiva e dei servizi sociali (concezione socialdemocratica del ruolo economico dello Stato).  
Per finire, un esercizio da fare insieme: «L'attuale Camera (…) è uno spettacolo desolante: un salotto di burocrati, yesman e marchettari professionisti (sic)». Qui naturalmente si sta parlando del parlamento italiano: ci sono perfino i marchettari! Ma rimettiamo le parole al posto della parentesi tonda: «L'attuale Camera dei Comuni in Gran Bretagna è uno spettacolo desolante: un salotto di burocrati, yesman e marchettari professionisti» (p. 119). Conclusione suggerita: i problemi sono assai più profondi che quelli riguardanti il nostro primo ministro e la sua cricca. Finché come azione politica dominante ci occuperemo di lui, saremo ben lontani dall'avvicinarci a comprenderli.
(Post di Tommaso Codignola)

Tony Judt, Guasto è il mondo, Roma-Bari, Laterza, 2011

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: allo scrutatore non votante

lunedì 21 marzo 2011

Il libraio di Gerusalemme

È difficile immaginare quali e quanti ostacoli debba superare, in ogni suo gesto quotidiano, chi vive in paesi percorsi da odi ancestrali e flagellati da lotte intestine. Persino acquistare un libro può presentarsi come impresa complicata, se non addirittura rischiosa. In uno scenario del genere il libraio di fiducia diventa una figura con cui si instaura un rapporto quasi intimo, e direi necessario, soprattutto per chi trova nella lettura uno spazio, seppur effimero, di serenità, o un momento di estraniazione da una quotidianità messa in discussione ad ogni sorgere del sole.
Molti soffrirono perciò nello scoprire che nel 2008, dopo quindici anni d'attività, le autorità israeliane avevano ritirato la licenza di commercio a Saleh Abbasi, l'unico libraio in Israele a cui i circa 1,2 milioni di cittadini arabi del paese potessero rivolgersi per trovare un libro nella loro lingua. Il blocco ha per la verità danneggiato anche quei lettori ebrei che si interessavano alla cultura araba, perché Abbasi, alla vendita di libri, affiancava la traduzione in ebraico di opere arabe, unendo al suo business un intento nobile, affermando che «i libri sono un ponte di pace fra le culture». Il problema si generò perché i maggiori fornitori del libraio di Gerusalemme erano due paesi notoriamente nemicissimi di Israele, vale a dire Siria e Libano. Quest'ultimo ha una produzione editoriale piuttosto ricca, conta infatti l'uscita di circa 3.000 novità l'anno (più di quanto produca l'Egitto) e propone titoli altrimenti introvabili nel mercato arabo, fra i quali diversi destinati ai giovani (Pinocchio e Harry Potter per citarne solo due).
«Come può il popolo del libro essere contro i libri?» ironizza Saleh Abbasi, ma è noto come siano praticamente assenti i rapporti diplomatici fra le nazioni appena citate, dunque i confini rimangono irti di filo spinato, anche per i libri. Ed è un peccato perché, a detta dello stesso Abbasi, di recente si era potuto rilevare un accresciuto interesse in direzione meno scontata, ovvero di lettori arabi verso la produzione israeliana, innescando un complessivo meccanismo di conoscenza reciproca da cui era possibile far derivare frutti positivi. Conoscere le storie, i pensieri, i sentimenti di qualcuno che sta al di là del filo spinato, è senz’altro una maniera per iniziare a tranciarlo quel filo.
Emblematico il caso dell’attrice israeliana Gila Almagor il cui romanzo, in parte autobiografico, Saleh Abbasi volle tradurre in arabo. In quelle pagine si racconta di una madre condotta alla pazzia dall’esperienza dell’olocausto e fu una grande emozione per Gila Almagor sapere che il suo libro sarebbe stato letto da arabi: «la mia storia è universale» affermò, ritenendo che la traduzione «avrebbe aiutato a dare a Israele e al suo popolo un volto, un’immagine diversa rispetto a quella del conflitto». Lo stop imposto ad Abbasi ha dunque impedito anche la diffusione nei paesi arabi del romanzo di Gila Almagor che, per ironia della sorte, era stato tradotto proprio grazie ad un contributo statale israeliano.
Contraddizioni, fra le tante che attraversano il Medio Oriente, e di cui spesso la vera ragione sfugge. Di fatto pare che Saleh Abbasi abbia alla fine dovuto cedere e chiudere l’attività, ma notizie definitive non mi è stato possibile recuperarle. Si tratta in fondo di una vicenda minore, eppure a volte queste storie sanno raccontarci la realtà molto meglio di altre, ben più tragiche, che fanno loro contorno.

Foto: Israele ospite d'onore alla fiera del libro di Torino © Francesca Marchelli