lunedì 21 marzo 2011

Il libraio di Gerusalemme

È difficile immaginare quali e quanti ostacoli debba superare, in ogni suo gesto quotidiano, chi vive in paesi percorsi da odi ancestrali e flagellati da lotte intestine. Persino acquistare un libro può presentarsi come impresa complicata, se non addirittura rischiosa. In uno scenario del genere il libraio di fiducia diventa una figura con cui si instaura un rapporto quasi intimo, e direi necessario, soprattutto per chi trova nella lettura uno spazio, seppur effimero, di serenità, o un momento di estraniazione da una quotidianità messa in discussione ad ogni sorgere del sole.
Molti soffrirono perciò nello scoprire che nel 2008, dopo quindici anni d'attività, le autorità israeliane avevano ritirato la licenza di commercio a Saleh Abbasi, l'unico libraio in Israele a cui i circa 1,2 milioni di cittadini arabi del paese potessero rivolgersi per trovare un libro nella loro lingua. Il blocco ha per la verità danneggiato anche quei lettori ebrei che si interessavano alla cultura araba, perché Abbasi, alla vendita di libri, affiancava la traduzione in ebraico di opere arabe, unendo al suo business un intento nobile, affermando che «i libri sono un ponte di pace fra le culture». Il problema si generò perché i maggiori fornitori del libraio di Gerusalemme erano due paesi notoriamente nemicissimi di Israele, vale a dire Siria e Libano. Quest'ultimo ha una produzione editoriale piuttosto ricca, conta infatti l'uscita di circa 3.000 novità l'anno (più di quanto produca l'Egitto) e propone titoli altrimenti introvabili nel mercato arabo, fra i quali diversi destinati ai giovani (Pinocchio e Harry Potter per citarne solo due).
«Come può il popolo del libro essere contro i libri?» ironizza Saleh Abbasi, ma è noto come siano praticamente assenti i rapporti diplomatici fra le nazioni appena citate, dunque i confini rimangono irti di filo spinato, anche per i libri. Ed è un peccato perché, a detta dello stesso Abbasi, di recente si era potuto rilevare un accresciuto interesse in direzione meno scontata, ovvero di lettori arabi verso la produzione israeliana, innescando un complessivo meccanismo di conoscenza reciproca da cui era possibile far derivare frutti positivi. Conoscere le storie, i pensieri, i sentimenti di qualcuno che sta al di là del filo spinato, è senz’altro una maniera per iniziare a tranciarlo quel filo.
Emblematico il caso dell’attrice israeliana Gila Almagor il cui romanzo, in parte autobiografico, Saleh Abbasi volle tradurre in arabo. In quelle pagine si racconta di una madre condotta alla pazzia dall’esperienza dell’olocausto e fu una grande emozione per Gila Almagor sapere che il suo libro sarebbe stato letto da arabi: «la mia storia è universale» affermò, ritenendo che la traduzione «avrebbe aiutato a dare a Israele e al suo popolo un volto, un’immagine diversa rispetto a quella del conflitto». Lo stop imposto ad Abbasi ha dunque impedito anche la diffusione nei paesi arabi del romanzo di Gila Almagor che, per ironia della sorte, era stato tradotto proprio grazie ad un contributo statale israeliano.
Contraddizioni, fra le tante che attraversano il Medio Oriente, e di cui spesso la vera ragione sfugge. Di fatto pare che Saleh Abbasi abbia alla fine dovuto cedere e chiudere l’attività, ma notizie definitive non mi è stato possibile recuperarle. Si tratta in fondo di una vicenda minore, eppure a volte queste storie sanno raccontarci la realtà molto meglio di altre, ben più tragiche, che fanno loro contorno.

Foto: Israele ospite d'onore alla fiera del libro di Torino © Francesca Marchelli

mercoledì 9 marzo 2011

Una trinità moderna

Frans Kellendonk ha il dono di una scrittura dalla straordinaria forza evocativa, e lo dimostra giustamente quando descrive le cose più semplici. Il lento risveglio di Gijselhart; Magda sulla colonna, che può sembrare un angelo e invece è un «filo di foschia condensato in un genio dell'aria» (p. 5); il cane lì accanto che gironzola «tracciando neri simboli di infinito» (p. 8); bastano queste e poche altre righe perché Corpo mistico ci prenda definitivamente con sé. È un romanzo in cui è difficile trovare passaggi deboli; la guida di uno stile che sa essere nel contempo ricco, mai banale dunque, eppure essenziale, rende quantomai piacevole l'immersione nelle storie che racconta. Storie curiose, borderline si direbbe, ma verissime, e con simboli fortemente significanti. Come il titolo suggerisce, la religione è il bacino primo da cui pescare materiali eterogeneii, per poi plasmarli in modi inattesi e volutamente blasfemi.
La trinità, per fare un esempio, viene nominata la prima volta quando il padre, Gijselhart, si tocca fra le gambe nella meccanica naturale del risveglio mattutino. Ma non si tratta solo di scherzi retorici, vi sono rovesciamenti concettualmente forti e questioni profonde sbattute in faccia ai tre protagonisti, e quindi a noi lettori, le questioni che la vita ci pone di fronte nei momenti di intensità maggiore.
Il denaro domina la vita di Gijselhart, egli ne ha fatto la sua religione. Lo ama, il denaro, perché è diverso da tutti i beni transitori: il suo fascino rimane intatto anche dopo che l'hai posseduto (p. 12). Inevitabile l'incessante corsa al possesso, l'avarizia maniacale che porta ad esiti paradossali, come quando Gijselhart cerca di pagare una cena barattandola con un caricabatterie (p. 30), perché egli ama i soldi, non è attaccato ai beni materiali, tanto che venderebbe sua figlia – arriva a dire, col sorriso sulle labbra – se qualcuno la volesse comprare. Con queste premesse si possono immaginare quali attriti e scintille debbano materializzarsi nel rapporto appunto fra padre e figlia, che già di per sé è uno dei legami umani più complessi. Magda poi ci mette del suo, perché periodicamente lascia la casa per inseguire qualche uomo sbagliato e il suo spirito materno, e periodicamente fa ritorno delusa, turbata. Nella sua 'materialità' il padre non capisce che per una donna è diverso: «gli uomini si fanno lanciare in un razzo nello spazio infinito, trovano avventuroso vagare per l'oscurità con le loro tute spaziali, mentre una donna morirebbe dallo sconforto» (p. 42). Magda ha bisogno di una svolta nella sua vita e in qualche modo trascina in essa tutta la famiglia, compreso il fratello che da tempo vive oltre oceano, a New York, ad occuparsi d'arte, a sentirsi un potenziale fallito nel momento in cui tocca l'apice del successo. Leendert torna a casa portandosi dietro dei fantasmi, in primis l'amore stroncato dalla malattia, amore evocato nel lungo e affascinante racconto di una notte di matrimonio trascorsa nel letto con gli sposi (pp. 67-79). Insomma, con grande disappunto del solitario padre, Magda finisce per raccogliere in casa tutti i suoi uomini, in un ecumenismo che va oltre la trinità.
Ovviamente il gioco continuo con le cose sacre le sveste del loro valore, le riporta ad una dimensione terrena, e non solo bassa, ma priva di spinte verso l'alto. Emblematica in tal senso è la dissacratoria preghiera di Leendert alla sorella: «Ave Magda, piena di invidia, sposa di nessuno, tu sei la più buggerata fra le donne...» (p. 94). Tuttavia non si tratta per Kellendonk di una disillusione, è piuttosto un'analisi del suo sguardo acuto sulla modernità che si è mostrata ormai a pezzi, a rischio costante di crollo, eppure non ancora perduta. Nella intensa prefazione al libro, dovuta a Bas Heijne, si ricorda come lo stesso autore affermasse che «le grandi parole, paradiso, amore, Dio, si sono rivelate vuote, ma possiamo dar loro un nuovo significato prendendole per ciò che sono: espressioni di desiderio. E il desiderio è la forza nascosta di questo romanzo disperato» (p. IX).

Frans Kellendonk, Corpo mistico, Villa San Secondo (AT), Scritturapura, 2007.

Le mie chiocciole: @@@@

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martedì 1 marzo 2011

Benedetto XVI vs Dan Brown

Pillola rossa o pillola azzurra? Da un momento all’altro, ci scommetteresti, spunterà Morpheus da dietro l’affresco della finta sala sistina e ti porrà la domanda. La voce suadente, il ritmo della musica, la semioscurità, ogni curato particolare ti hanno condotto al cospetto della ‘verità’, ora non ti rimane che trovare il coraggio di affrontarla. È davvero un’esperienza figlia di Matrix la visita alla mostra «Conoscere la Biblioteca Vaticana: una storia aperta al futuro», aperta sino al 13 marzo 2011 nel Braccio di Carlo Magno (Roma, piazza San Pietro). Questa la chiave di lettura scelta per ribattere a tante leggende metropolitane relative ad una delle più antiche e prestigiose biblioteche del mondo, nonché – per quanto mi sembra – per rispondere alle insinuazioni più recenti conseguite all’uscita de Il codice Da Vinci di Dan Brown, un best-seller che deve parte della sua fortuna al ritratto in tinte oscure con cui presenta le istituzioni vaticane.
Fondata nel 1455 da papa Niccolò V, la BAV – come viene affettuosamente chiamata da chi la frequenta – ha invece fin dall’inizio espresso una chiara volontà di apertura al pubblico, come si evince dal motto Pro communi doctorum virorum commodo, vale a dire a vantaggio di tutti gli uomini dotti. La fedeltà a tale principio è rimasta pressoché costante, per cui è facile innanzitutto sfatare alcuni ‘miti’. La Biblioteca Vaticana è interamente consultabile, non ha sezioni segrete o magazzini inaccessibili, e ciò che viene interdetto al pubblico lo è solo temporaneamente e per motivi di conservazione o restauro. Ottenere una tessera d’ingresso non prevede una serie di passaggi assimilabili all’affiliazione ad una loggia segreta, si tratta semplicemente di dimostrare delle specifiche necessità di studio ed esibire una lettera di presentazione di persona (anche laica!) qualificata. Insomma lasciate pure in pace vostro prozio monsignore e non tentate di farvi venire le stigmate, fatiche inutili dato che la procedura d’accesso è esattamente la stessa che vi richiede qualsiasi biblioteca nazionale. Fra gli scaffali della BAV incrocerete inoltre persone d’ogni fede e nazionalità, accolti allo stesso modo per usufruire di un patrimonio di circa un milione e mezzo di libri stampati e 80.000 manoscritti.
A ragione dunque la mostra punta sulla presentazione della filosofia che da secoli governa la Biblioteca Vaticana, ma lo fa servendosi molto, direi troppo, di frasi ad effetto e di clip da trailer cinematografico. L’effetto può essere affascinante per il turista del tutto a digiuno rispetto al mondo del libro, risulta invece a tratti ridicolo agli occhi e alle orecchie di un qualsiasi lettore esigente. Soprattutto spiace che altisonanti digressioni abbiano tolto spazio e attenzione a testimonianze scritte fra le più rilevanti nella storia dell’umanità. Voglio dire, quand’anche presentato in facsimile, una riflessione sul codice B non avrebbe guastato, considerando trattarsi di uno dei più antichi manoscritti della bibbia in greco; due parole sulla copia dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna nell’edizione del 1499, spesso definito il più bel libro a stampa mai prodotto, mi sarebbero parse d’obbligo; senza contare la carrellata su diverse scritture utilizzate attraverso i secoli, una carrellata lasciata passare quasi sotto silenzio. Al contrario, nella sezione dedicata alla collezione numismatica, l’approfondimento c’è, ed è pure insistito in un video sulla monetazione in uso in Palestina ai tempi di Gesù, allo scopo di svelare quale tipo di conio Giuda ricevette in cambio del suo tradimento. Appendice interessante, peccato per la chiusa sull’uso etico del denaro (da che pulpito, direbbero i maligni…) che la trasforma in una lezioncina morale alquanto antipatica per un visitatore pagante.
Il percorso espositivo insiste sul ruolo di tutela e valorizzazione esercitato dalla BAV e cerca di rendere giustizia ad un’istituzione culturale che, per certi versi, è stata e continua ad essere all’avanguardia nella promozione della ricerca, contraddicendo appunto un certo qual sentire comune. Se poi un allestimento che scommette tutto sull’effetto e sulla facile emozione sia stata la scelta migliore, è un fatto tutto da dimostrare. Non è tuttavia escluso che il buon Benedetto XVI, dovendo rispondere a Dan Brown, abbia davvero fatto la mossa più azzeccata mettendo in campo gli stessi strumenti di fascinazione dello scrittore americano; peggio per noi che non sappiamo goderceli.