domenica 30 novembre 2008

La camelia sul muschio

Di certe bambine, orgogliose e intelligenti, bisogna avere paura e rispetto. Hanno in canna certe risposte da lasciarti secco, e nel contempo basta un alito di vento per incrinare la fragilità della loro giovinezza. Così è Paloma, giovinetta dell’alta borghesia francese, che scrive e riflette in un diario trasudante metafisica ed esistenzialismo. Più in basso, al piano terra, c’è la portinaia Renée, ma anche lei non scherza quanto ad elucubrazioni mentali. A volte – soprattutto nella prima parte del romanzo, più lenta ed errabonda – pare di stare nel Mondo di Sofia, con parentesi concettuali di un certo qual peso, come quando si disquisisce su un tavolo: ogni tavolo è irrimediabilmente un singolo irripetibile o esiste un concetto universale di tavolo? È il cruccio di Guglielmo di Occam, ma pure della nostra portinaia. Che poi una donna di una certa età, con una buona dose di tempo libero alle spalle, si sia pian piano trasformata in una pensatrice autodidatta e clandestina, non sconcerta. Piuttosto lascia perplessi constatare il livello di riflessione filosofica di Paloma che, a soli dodici anni, ci convince, eccome!, che «gli uomini vivono in un mondo in cui sono i deboli a comandare» (p. 49).
Entrambi i personaggi hanno un po’ troppa coscienza della propria condizione, dei propri limiti, per non scorgere dietro di loro l’autrice che racconta e suggerisce i pensieri. Il gioco forse è proprio questo: Muriel Barbery si serve di una storia e di due donne per farci cadere fra le mani le sue meditazioni, non di rado pregnanti («giacché l’Arte è la vita, ma su un altro ritmo», p. 148), altre volte dotte, quasi saccenti («La grammatica è una via d’accesso alla bellezza», p. 152). L’effetto funziona meno con la piccola Paloma che nella storia ha un ruolo sostanzialmente marginale: è Renée che muove tutti i fili, che scuote le vite (compresa la sua) fino ad immolarsi per cercare la bellezza nel mondo.
Se siete lettori pazienti, a cui piace un certo lento autocompiacimento della scrittura e le divagazioni colte, non sarete delusi e perdonerete il fatto che quest’ultime alla storia non sempre servano. Quando la vicenda prenderà il ritmo, non avrete più modo di allontanarvi e nell’inseguire l’ascesa della portinaia fino ai piani alti, proverete voi stessi un’interiore soddisfazione.
C’è molto Oriente nel libro. Non è un caso se è il giapponese Ozu ad apprezzare e scoprire prima e meglio di tutti il tesoro nascosto in Renée. D’altronde il gusto per certi piaceri sublimi richiede un approccio che l’Occidente fatica a comprendere, ma nel momento in cui lo fa proprio, capisce che «la camelia sul muschio del tempio, il violetto dei monti di Kyoto, una tazza di porcellana blu, questo dischiudersi della bellezza pura nel cuore delle passioni effimere non è ciò a cui aspiriamo tutti?» (p. 94).

Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, Roma, e/o, 2007, pp. 326.


Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: alla signora della buona società che arriccia il naso quando guarda in basso


martedì 18 novembre 2008

Una lepre bianca


Una lepre bianca è innocenza e purezza. Ancor più se piccola, ferita, disposta ad affidarsi ciecamente ad un uomo incrociato per caso nel bosco. I due finiscono per divenire amici per la pelliccia, in una Finlandia per forza poetica tra abeti e neve. Per essere un romanzo che non va da nessuna parte (nel senso della trama), L’anno della lepre porta in un sacco di posti, da visitare con gusto. Quasi esilarante l’episodio del sacerdote che spara in chiesa per scacciare la lepre e finisce per ferire Cristo. Per non parlare dei militari che s’imbarcano in una incosciente caccia all’orso e finiscono in mutande (ben gli sta!). Ce ne sono molti di incontri surreali, eppure così veri, con un’umanità che si dibatte per essere sé stessa fino in fondo, nel bene e nel male.
Vatanen, il protagonista, scopre questa umanità (e un po’ anche la propria) ad ogni passo, e se ne bea, scordando con piacere la claustrofobica vita cittadina. Vi stimolerà una mite invidia per come lascia passare un incendio galleggiando nel torrente e bevendo grappa; per come, lavorando alacremente per un intero giorno, riesce a salvare la vacca che affonda nella palude. Alla fine torna il mai sopito dubbio: basterebbe ritirarsi in una vecchia baita nel bosco, con un’ascia e quattro capre tipo nonno di Heidi, per raggiungere una serenità invidiabile? Forse basterebbe, ad averci il coraggio.

Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Milano, Iperborea, 1994, pp. 208.

Le mie chiocciole: @@@@
Da regalare: al collega stressato dall’ufficio (col rischio se ne fugga in Scandinavia)

giovedì 13 novembre 2008

Saccenteria italica

Ecco i tre protagonisti del nostro gioco: 1. la signora Merli che ingoia per errore un’aspirina effervescente con l’effetto di concorrere al ruolo di controfigura di Linda Blair ne L’esorcista; 2. il ragioniere Belloni che, dopo essersi montato da solo un armadio, fissa attonito l’asta, le tre viti, le cinque manopole e l’anta inutilizzate nella scatola di montaggio; 3. nonna Ada che prepara la torta dosando gli ingredienti a memoria e così estrae dal forno una sorta di mattone refrattario a stento commestibile. Ora riflettete per bene sulle tre descrizioni e cercate di rispondere alle seguenti domande: cosa accomuna i tre personaggi? Quale è la caratteristica che permette di considerarli simili? C’è un’affinità fra i loro contrattempi?
Siccome lo scherzo è bello se dura poco, non vi tengo sulle spine e vengo subito al dunque. I tre sono accomunati dall’essere non-lettori, vittime della saccenteria italica che porta a pensare spesso e volentieri che è inutile comprare un manuale o leggere le istruzioni. Ci si affida all’improvvisazione, al “decidere mentre si fa”, al tentativo estroso non di rado disastroso. Se la signora Merli avesse letto il bugiardino, se il ragioniere Belloni avesse sfogliato le indicazioni per il montaggio, se nonna Ada si decidesse ad aprire quel benedetto ricettario... Cattiva educazione, genetica ribelle? Difficile stabilire l’origine, ma se vi guardate attorno un dato è certo: la saccenteria italica dilaga e il leggere per imparare non è proprio considerato. Sarà forse per questo che siamo spesso così approssimativi?

martedì 4 novembre 2008

Unire i puntini

Un bel po’ d’anni fa Giuseppe Prezzolini disse: «L’Italia è un paese fragile». Passato il tempo, guardandosi attorno, il pensiero oggi potrebbe essere: «L’Italia è un paese irrimediabilmente fragile», visto che vari lustri non hanno cambiato le cose (o le hanno addirittura peggiorate). La prima sensazione che balza addosso leggendo Il paziente italiano è proprio quella di un’esiziale fragilità di istituzioni e persone.
Scorrono nomi di persone che sanno guardare solo alla propria tasca e alla propria seggiola, che mancano di etica, responsabilità, lungimiranza, rispetto per i loro figli. Qual è la morale? Siamo un popolo che non può fare a meno di barare? A cui la vittoria basta, al di là di come la si raggiunge? Un popolo da un lato di furbi e dall’altro di illusi che perseverano nel farsi prendere per i fondelli dai furbi? L’emblematica Calciopoli pare rappresentare e raccontare esattamente ciò.
Ho sentito dire a Oliviero Beha che si è spesso salvato dalle querele passando per un giornalista satirico. Buon per lui, ma certo la dose di pessimismo che esala dalle pagine mi rende dubbioso: tanta amarezza si fa fatica a pensarla satirica. Eppure non saprei come dargli torto. Da giornalista (vero) sa raccogliere e combinare le notizie, e farci capire che basterebbe unire i puntini, sennonché l’informazione odierna, colpevolmente, i puntini non li fa vedere. Hai voglia a cercare di unirli...
Il libro è una raccolta di articoli sparsi (2006-2008), direi anche troppo ricca; una maggior selezione a monte avrebbe evitato certe inutili ridondanze. Inoltre verrà presto a mancare la cornice in cui collocare i commenti: la memoria è labile e già ora certi riferimenti cadono nel vuoto. D’altronde Beha affastella densamente le sue ipotesi, domande, allusioni; la ricchezza di un pensiero attento e rapido può far perdere il nord ad un lettore appena distratto, ancor più se non dotato di una memoria ferrea. I giornali sono una cosa, i libri un’altra, e pescando dai primi si dovrebbe valutare bene come travasare nei secondi. Più che una lettura estesa, può funzionare un cogliere di fiore in fiore (meritoria in tal senso la decisione di aggiungere un indice dei nomi). Così da apprezzare l’arguzia di Beha, troppo pungente e sincera per trovare oggi posto nei maggiori mezzi di comunicazione.


Oliviero Beha, Il paziente italiano. Da Berlusconi al berlusconismo passando per noi, Roma, Avagliano, 2008, pp. 336.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi andava (va?) allo stadio credendo di vedere delle partite vere