domenica 18 agosto 2013

Quando schierarsi è una necessità


Ancora oggi. Passare in via Caetani a Roma, sollevare lo sguardo verso quel volto di bronzo dolcemente sofferente, ancora oggi produce un effetto intimo frastornante. Cosa avrà potuto significare la morte di Aldo Moro per gli animi, appena affacciati sul mondo, degli italiani che nel 1978 erano degli adolescenti? Il narratore Nimbo con gli amici Volo e Raggio (tutti nomi di battaglia) osservano da Palermo il conflitto politico e civile che scuote la Penisola, e si costringono a fare i conti con la propria coscienza, i propri ideali, con la scelta complicata tra cosa fare e cosa non fare, su cosa dire e cosa tacere. Nell’adolescenza è insita la necessità di schierarsi nettamente, senza se e senza ma, ed è ciò che fanno i personaggi di Il tempo materiale. Il terreno è fertile: la compagnia giusta, il periodo storico turbolento, l’inclinazione ad osservare il mondo (i genitori, la scuola, la città) attraverso un filtro ideologico, di un’ideologia vergine, tutta ancora da plasmare. Ecco dunque inevitabile la trasformazione. Da dove partire per scuotere il mondo e vedere come reagisce? Cambiare se stessi, evolvere (in senso ovviamente darwiniano), prendere possesso del proprio corpo e farne prima uno strumento di comunicazione, poi di guerra. La madre – che Nimbo chiama ‘lo Spago’ – gli tasta il cranio glabro, «sei pazzo, sei pazzo» è il suo commento, aumentando ancora più la frattura fra la famiglia e la realtà in cui il ragazzo sta penetrando. Da lì inizia davvero la conquista di un’identità nuova, gli amici si convincono d’essere sulla strada giusta, discutono e arringano, convincono anche il compagno meno forte, a quel punto pronto a farsi trascinare dove gli altri due vorranno.
La ginnastica e la pratica sportiva vengono assurte a maestre di elevazione, ma con dinamiche stranamente meccaniche, private d’ogni passione, d’ogni spirito agonistico, ridotte a delle geometrie fredde. Persino i mondiali di calcio – l’evento che per dei ragazzi dovrebbe rappresentare il culmine del tifo – vengono smontati e analizzati come sotto ad un microscopio (pp. 92-96). L’esasperazione dello studio del gesto porta i tre amici ad elaborare addirittura l’alfamuto, un linguaggio corporeo che sostituisce quello verbale e che, oltre a fornire loro di una cifratura segreta, li rende in modo curioso ancora più alieni rispetto alla realtà che li circonda. In un certo senso persino la descrizione di come inventano e sperimentano l’alfamuto ottiene sul lettore un effetto alienante, risultando a tratti macchinosa ed eccessiva, ma sicuramente elemento di grande pregnanza in un romanzo in cui tutto conduce fuori dal quadro dell’ordinario. 
Si propone ad esempio più volte una malsana insensibilità verso gli animali, i ragazzi paiono provare un sadico piacere nell’avere a che fare con ‘specie inferiori’, categoria indistinta che col tempo rischierà sempre più d’allargare il proprio ambito semantico. Di fatto gli animali appaiono in scena gravati da malattie o infezioni, e rappresentano il modo in cui il decadimento sociale sta trascinando tutto verso il basso; o forse solo proprio i ragazzi a volerli vedere così, per giustificare a priori la loro crudele volontà di purificazione. Eppure, a rigore, essi stessi si rivelano animaleschi nel loro modo d’agire: Nimbo esplora con tutti i sensi, assaggia il sapore della lavagna cosparsa di gesso, annusa i personaggi televisivi per capirne la natura profonda.  
Infine, da che parte ci schieriamo noi, mentre osserviamo questi ragazzi che passo dopo passo imboccano la via della protesta eversiva? Si prova una sottile ma crescente angoscia nel vedere delinearsi all’orizzonte il pericolo che essi valichino il fatale limite delle azioni rivolte contro le persone. Sale un brivido quando ci comunicano che il momento è arrivato: «Siamo in grado, ha detto. Ne abbiamo i mezzi, ha detto. Il dovere» (p. 188). La bambina creola rappresenterà il culmine del processo, ella è l’alfa e l’omega, la speranza di una salvezza contrapposta al salto definitivo nell’inferno, la prova decisiva per Nimbo che dovrà scegliere come entrare nell’età adulta. Avrà pochissimo tempo per decidere, pochissime certezze, drammaticamente sospese fra amore e morte.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008.
Segnalo anche il graphic novel tratto dal romanzo: Luigi Ricca, Il tempo materiale, Latina, Tunué, 2012.

giovedì 1 agosto 2013

La muraglia disumana


Avvicinandosi dallo spazio alla terra, la prima costruzione umana che si riesce a identificare è la
muraglia cinese. La lunga linea segmentata è il segno di un intervento ‘intelligente’ sulla superficie del nostro pianeta. Il primo indizio della nostra presenza, per eventuali visitatori interstellari, sarà dunque un lunghissimo muro. «Nella vita cinese il muro ha una parte essenziale. Il cinese è guidato da muri più che da leggi» (p. 26). Così raccontava Luigi Barzini nel 1904 cercando di descrivere al lettore italiano la società e la cultura di un paese che all’epoca – ma in gran parte anche oggi – era tanto ignoto quanto lontano. Il muro è una formidabile difesa e continua ad assumere un ruolo fondamentale in molte parti del mondo (come testimonia una mostra fotografica di Kai Wiedenhöfer in corso a Berlino), ma il muro adempie nel contempo anche alla funzione in un certo senso opposta, cioè di bloccare, escludere, impedire il libero movimento. La muraglia cinese è la costruzione che nella maniera più evidente sintetizza queste due funzioni, è il muro per antonomasia. Essa tuttavia continua ad affascinare chi la osserva, così come accadde ad Enrico Emanuelli nel 1957: «è uno dei pochi monumenti sui quali tutti, almeno un attimo, hanno fantasticato; ed è anche uno dei pochissimi che, dopo il compromettente giuoco della nostra fantasia, non delude quando lo si ha veramente davanti agli occhi. (…) Un monumento così enorme, ma che si svela a piccoli tratti; una costruzione così potente, ma che forse nessuno oggi può dire d’aver visto dal principio alla fine suscita, oltre che meraviglia, anche sgomento. Magari suscita repulsione non perché pazzesca e assurda, ma perché si sente che le sta appiccicato addosso qualcosa di disumano» (pp. 127-128).
Fare breccia nella muraglia significa molto più che superare una barriera, significa penetrare in una cultura per molti versi sconosciuta e, come spesso avviene, oggetto di pregiudizi farciti di supponenza e ignoranza. In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo raccoglie le voci di giornalisti, scrittori e viaggiatori che fra il 1904 e il 1999 raccontarono quel paese avendolo visto e attraversato di persona. Circa trenta reportage differenti per stile e taglio, e anche appunto per il momento storico in cui furono redatti, un momento in cui la Cina poteva essere un’altra Cina, ma la prospettiva dell’osservatore era altrettanto diversa da quella odierna. Il volume curato da Danilo Soscia si presenta perciò come un obiettivo a doppio fuoco: uno sull’estremo oriente, l’altro sulla cultura italiana nel Novecento.
Nella lettura veniamo a incontrare altre forme di muro, una fra le più evidenti è quella della censura, anch’essa strutturata teoricamente per difendere, benché sempre utilizzata per chiudere e limitare. Il già citato Enrico Emanuelli la definì infatti “la nuova Grande Muraglia”, e sarebbe stato difficile dargli torto dopo aver constatato il modo in cui la censura cinese operava, ovvero con un sistema in cui nella sostanza un uomo soltanto stabiliva quel che altri seicento milioni di suoi compatrioti dovevano o non dovevano sapere. 
Della variopinta e insensata Pechino racconta Mario Appelius, il cui stile lussureggiante si concentra sull’eccentricità della città, intesa innanzitutto in senso geografico – dato che la capitale della Cina è collocata all’estremo est del paese – ma anche in senso traslato di luogo alquanto strambo, con un’urbanistica forse priva di regole, di certo molto difficile da decifrare. Le architetture sono spesso una sorpresa, e i quartieri appaiono distribuiti sul territorio come tessere di un mosaico rimescolate senza avere ben chiaro cosa si voglia rappresentare. In particolare i testimoni del primo Novecento presentano la Cina come una terra priva di chiara organizzazione, quasi abbandonata a se stessa, maestosa solamente nelle preziose e ormai antichissime rovine. Tale impressione danno le tombe Ming, capaci di far apparire modesti i monumenti dei faraoni. L’atteggiamento occidentale cambia dopo il 1949, con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, e la prima delegazione italiana in visita è fortemente affascinata dall’intrapreso cammino di crescita e rinnovamento; le parole di Carlo Cassola, fra gli altri, sono testimonianza del cambiamento in atto, visto attraverso gli occhi di uno straniero disposto a lasciarsi entusiasmare dall’impresa sociale e politica.
Il processo avrebbe portato però nel tempo a storture giudicate con severità da Virgilio Lilli nel 1961: «La Cina comunista è abitata da due persone. Essa è dunque una terra spopolata, la più spopolata terra del mondo. (…) Le due ‘persone’ cinesi si chiamano l’una partito comunista, l’altra massa» (pp. 166-167). Una realtà dunque disumanizzata, al punto che sempre Lilli si rende conto di non aver incontrato l’amore in Cina, di non aver veduto in nessun luogo e in nessuna espressione l’amore dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo, è assente l’amore come «passione, tenerezza, gioco, anelito insaziato dei sensi», ingoiato da una gelida e globale sterilizzazione delle anime. La negazione dell’amore riconduce a quanto scriveva Raffaele Calzini, corrispondente del «Corriere della Sera» negli anni ’30, impressionato dalla confidenza quasi macabra con quanto concerne l’aldilà: «Tutto parla di morte: niente è più vivo della morte, in Cina» (p. 75).
Un cinese arrivò un giorno in casa di un europeo il quale volle subito fargli apprezzare un vaso di bella fattura acquistato a caro prezzo in Cina. L’ospite si mostrò riluttante nell’esprimere un giudizio e lo fece solamente dopo parecchie insistenze: «Perdonatemi, ma la vostra illustre persona tiene sul suo onorevole caminetto un vaso da notte» (p. 33). L’ignoranza gioca brutti scherzi, ma è comprensibile quando ci si confronta con la Cina che rappresenta in molti casi l’opposto del nostro modus vivendi, e che è «l’inverso geografico ma soprattutto etico dell’Europa, una nazione che “si veste di bianco per manifestare il cordoglio, considera come regione sacra l’ovest e non l’est, comincia a contare dal mignolo e non dal pollice, costruisce il tetto della casa prima delle fondamenta, finisce i suoi libri alla pagina dove i nostri incominciano”» (p. 55).
Grandi contraddizioni e profonda difficoltà nel comprendere sono i fili rossi che tengono unite queste variegate testimonianze, tutte interessanti nella loro particolare prospettiva, sicuramente occidentale e dunque forse ‘falsata’, ma unica vera porta d’accesso alla cultura cinese per noi che stiamo al di là della muraglia. Non a caso da questo sentiero si discosta probabilmente solamente il testo di Tiziano Terzani (pp. 240-251), colui che volle farsi cinese, che si spogliò – o almeno provò a spogliarsi – delle sue tradizioni e della sua cultura, per immergersi in quelle d’oriente. La porta proibita è il titolo del libro da cui sono tratti i suoi brani, il che conferma la bontà della nostra metafora: c’è una porta da attraversare, ma è una porta così strana e angusta da risultare non solo chiusa, ma persino proibita a noi uomini dell’occidente. Dovremmo farci piccoli e ricurvi, per iniziare a comprendere un paese in cui «il piegarsi è una virtù».

In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo, a cura di Danilo Soscia, prefazione di Renata Pisu, Pisa, ETS, 2010.