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martedì 4 dicembre 2012

Il diritto di essere 'choosy'

Ancora due parole sull'ennesima provocazione rivolta ai giovani senza lavoro da parte del governo. Provocazione che, dopo vari «bambocccioni», «fannulloni», «sfigati» (urlati, di volta in volta, dai vari personaggi chiamati a governare l'Italia), stavolta il ministro del lavoro Fornero sceglie di affidare ad una parola inglese, «choosy»: una parola la cui accezione morale sarebbe in realtà neutra, o comunque non necessariamente esente da eventuali sfumature positive, ma che evidentemente la Fornero sceglie di impiegare in un senso offensivo; dimostrando, in questo, lei sì di essere snob, oltre che asservita, nel linguaggio e non solo, allo spirito filo-americano che guida anche la sua politica. Come se la lingua italiana, nella sua ricchezza e varietà, non disponesse di aggettivi altrettanto efficaci per esprimere il concetto di "selettivo".
«Ragazzi, non siate tanto choosy nella scelta di un'occupazione» suona un po' come «Se non hanno pane, che mangino brioches». Perché – forse – avrebbe senso invitare qualcuno ad accantonare il filtro critico nella scelta della professione o del mestiere da svolgere, qualora alternative ve ne fossero. Invece oggi i giovani, i ‘ragazzi’ (se così vogliamo chiamarli, visto che la categoria dei disoccupati, affollatissima, non ha limiti di età) si trovano dinanzi alla totale assenza di opportunità.
Tuttavia, anche lasciando da parte il carattere menzognero su cui si basa lo sberleffo pronunciato dalla Fornero, la sua gravità discende soprattutto dalla profonda ignoranza, a proposito di quale debba essere il compito della politica, che esso purtroppo rivela. Una politica che non sia solo politica delle banche ma innanzitutto politica degli uomini, degli individui, oltre che ad assicurare a ciascuno la possibilità di esercitare il diritto al lavoro su cui si basa la costituzione italiana, ha il dovere di collaborare alla realizzazione, non solo economica, ma anche personale, di questi ultimi. Se quella di oggi è una generazione choosy, ciò è anche perché, rispetto alle precedenti, è quella che sulla propria formazione ha maggiormente investito. 
Corsi di studio universitari, master, scuole di specializzazione, SSIS, dottorati, adesso i nuovi TFA (super costosi): a questa classe dirigente e a quelle che l'hanno preceduta va ed è andato bene che ‘i giovani’ intraprendessero questi percorsi formativi (perdendo tempo?); anzi, in alcuni casi (come in quello dei nuovi TFA) sono stati spinti a farlo, sotto il ricatto dell'impossibilità di poter accedere altrimenti allo sbocco occupazionale già normalmente previsto dal loro piano di studi. Si è lasciato così che i giovani si specializzassero, diventando così sempre più selezionati e, di conseguenza, anche più legittimati ad essere, a loro volta, selettivi. Quindi perché poi irridere la loro aspirazione ad essere, giustamente choosy, a sperare di raccogliere i frutti di un investimento, misurato in anni di denaro speso e fatica?
Malgrado questa crisi, reale e mediatica a seconda dei casi, i finanziamenti per creare posti di lavoro e permettere a tutti o quasi, secondo l'impegno e la capacità, di accedere alla posizione lavorativa per cui si è studiato – in cui dovrebbe consistere l'obiettivo principale dell'unica politica da considerare degna di rispetto, quella per gli uomini – ci sono; o ci sarebbero, nel caso di una più corretta distribuzione del reddito tra le varie categorie, a cui il governo dovrebbe pensare, invece di limitarsi a bacchettare i disoccupati. Per questo, il fatto che un simile commento sulla mancanza di senso pratico dei giovani sia stato espresso non da una persona qualunque, ma da un ministro del lavoro, che invece dovrebbe offrire risposte serie al problema dell'occupazione, è tanto più inaccettabile. Basta con questa classe dirigente che nasconde nell'insulto la sua incapacità di governare.   

(Post di Simona Carretta)
Foto di Giordano Aita

venerdì 28 gennaio 2011

La schiavitù del telaio

Negli anfratti della città di Tlemcen, in Algeria, sopravvivono due miserabili etnie: i mendicanti e i tessitori. Il lavoro è ciò che li distingue. I mendicanti l’hanno perduto; costretti ad abbandonare la campagna non hanno più campi da coltivare né armenti da allevare, cosicché una deriva incessante li sospinge ad occupare i vicoli della città, il grande ventre brulicante tanto diverso dalle distese vuote a cui i loro occhi sono abituati, e lì elemosinano quanto basta, o forse nemmeno, per non morire. In evidente contrapposizione, i tessitori al lavoro si aggrappano come all’unico legno nel disastro di un naufragio umano che pare aver scordato ogni dignità. Quest’unico fondamentale privilegio dovrebbe togliere loro il diritto di lamentarsi, ma l’officina tessile vibra di insofferenza e malcontento; così ogni giorno che passa, ogni giorno inesorabilmente più simile al precedente, non fa che accumulare amarezza nel cuore dei tessitori.
Ci sono questioni attuali nel libro di Mohammed Dib: c’è il nord Africa, oggi in subbuglio, con le sue contraddizioni in riva al Mediterraneo; ci sono le prove di forza fra padroni e operai, il braccio di ferro fra chi può garantire il lavoro – e a volte abusa del potere che ne deriva – e chi del lavoro non può fare a meno; c’è l’angoscia di una prospettiva di vita senza respiro, a cui si oppone come unica barriera il discutere incessante, nel tentativo di immaginare un futuro migliore, verso il quale però quasi nessuno sa muovere davvero un passo. Infine c’è l’oggetto che simboleggia tutto ciò, il telaio, che rimanda ad antiche lotte di lavoratori sfruttati, al luddismo e a tutte le forme di rivolta che dalle officine hanno preso le mosse.
Fra i tanti personaggi sconfitti, spicca per contrasto il saggio e silenzioso Ocacha, l'unico che non parla di sé con disgusto. Egli conosce la ragione della miseria dei tessitori: «Bisogna accordare agli uomini il rispetto a loro dovuto. Perché il mondo è diventato qualcosa su cui non si desidera rivolgere lo sguardo? È mancanza di rispetto»; per gli europei, Mahi Bouanane – il loro padrone – «è l’arabo, l’individuo senza ideali sprofondato nel sudiciume e nella trascuratezza», e per lui, «noi [tessitori] siamo degli affamati senza ideali, più simili alla bestia che all’essere umano» (pp. 130-131).
La massa lamentosa dei mendicanti è improvvisamente cresciuta fino ad occupare le strade, e gli abitanti di Tlemcen faticano a trovare un atteggiamento coerente nei loro confronti, prima li ignorano, poi li riconoscono esseri simili caduti in disgrazia, infine provano ad aiutarli mentre l'autorità non sa far di meglio che espellerli periodicamente, provocando il riflusso incessante di un’umanità negletta. Ma sono esseri umani questi? In una delle taverne in cui Omar, il giovane protagonista, vede entrare un vecchio consunto dall'elemosina, un commerciante si alza e apostrofa il povero: «La carestia non può averla vinta su qualcuno che lavora!» (p. 126). Il vero cruccio è questo: quando la sera risali dal sottoscala a cogliere l’ultima luce del giorno, ritrovi i mendicanti, e ti chiedi se davvero qualcosa ti distingua da loro. Dentro un racconto che si bea della propria lentezza e della propria ciclicità, emerge alla fine una sconsolata amarezza: «Qui, la vita è sabbia: te ne riempi le mani ma non ti resta niente» (p. 173).

Mohammed Dib, Il telaio, Milano, Epoché, 2007.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: al commesso della Fruit of the Loom.