lunedì 23 maggio 2022

Nella valle del Belbo: Beppe Fenoglio e il racconto delle Langhe

In una splendida giornata al confine fra novembre e dicembre di qualche anno fa, colui che poi sarebbe divenuto un amico mi svelò, durante un sostanzioso pranzo albese, le ragioni della mia difficoltà. Gli stavo infatti raccontando della mia impossibilità a scrivere qualcosa su Alba e sulle colline: «Ogni volta che salgo da queste parti provo grandi emozioni, mi ribollono dentro pensieri, vorrei metterli sulla carta, ma quando mi siedo a scrivere non ci riesco, diventa tutto banale…»

Il mio amico sorrise, ingollò una forchettata, sorrise ancora e, con tutta la naturalezza del mondo, mi disse: «È proprio l’emozione che ti impedisce di scrivere»; «… ma io di solito scrivo perché sono emozionata…», obiettai. Il mio amico sorrise ancora, con un leggero sbuffare dal naso, e ribadì con impeccabile cortesia piemontese: «È l’emozione ti dico. Tu lasciala fluire, lasciala depositare e vedrai che, al momento giusto, le parole arriveranno».


Può essere che questo ora sia un momento giusto.


Quello stesso giorno salimmo in Alta Langa e per me era la prima volta. Paolo aveva deciso di condurmi nel cuore dei racconti di Fenoglio. Quelli dove la miseria, la meraviglia, la violenza, lo stupore, le fanfaronate, la dolcezza, gli adulti e i bambini, gli uomini e le donne, i piccoli sprazzi di speranza subito spenti si impastano sulla pagina insieme alle marne calcaree e sabbiose delle colline, qui ricoperte di noccioleti e perlopiù di pioppi, di ontani, di arbusti di varia specie perché l’Alta Langa è un luogo selvaggio, a centinaia di metri sul livello del mare, e la vite quassù non può dimorare.

Mentre ci lasciavamo alle spalle le terre dolci del Barolo, salivamo per curve sempre più ripide; io ero in silenzio con gli occhi giganti a catturare con lo sguardo paesaggi ancora sconosciuti. «Ah-ah! Guarda là!», voltai la testa nella direzione indicata dalla voce di Paolo: «Quello è il Monviso». Così vidi all’orizzonte le Alpi già innevate con il Monviso troneggiante e inconfondibile nella sua geometrica regolarità; come quinte impazzite di un teatro, le vette scomparivano e ricomparivano insieme al girare dei tornanti. In quel preciso istante ho capito che la visione improvvisa delle montagne per me è un’emozione prossima all’assoluto; ne avevo già avuto il sospetto quando dal molo Audace di Trieste mi è capitato di scorgerle a chiudere l’orizzonte marino, proprio dirimpetto alla città. Il sospetto si è trasformato in certezza matematica sui tornanti verso l’Alta Langa.


Un’ultima curva, infine, e proprio lì la Natura ha escogitato uno stratagemma da scenografa: il fitto della boscaglia si dirada e San Benedetto Belbo, con i suoi due campanili quasi l’un l’altro giustapposti, si mostra in tutta la sua aggregata compattezza, mollemente disteso a occupare l’intera cresta della collina. La distanza che separava i miei occhi dal paese si riempì della vertigine della valle del Belbo, il fiume che scorre appena sotto e che ha ridisegnato l’intero paesaggio scavando gole e mulinando in gorghi.


Molto dell’immaginario struggentemente concreto di Fenoglio è qui, addensato in qualche centinaio di metri, trasferito tal quale tra le sue pagine: il gorgo del fiume appunto, il cimitero del paese, la via principale con le due chiese, la casa della maestra, la casa del suo amico fraterno Ugo Cerrato – nella quale Fenoglio ha scritto molti dei suoi racconti durante le estati trascorse a prendere l’aria buona di quassù –, i due ippocastani – anch’essi numi tutelari del ticchettio dell’Olivetti Studio 44, quando Beppe sedeva a lavorare sotto la loro maestosa ombra –, le piccole corti – dove si improvvisavano partite di pantalera perché qui i tetti sono adatti a far rimbalzare il balon –, la censa di Placido Canonica.


Ecco, la censa di Placido è una magia nella magia: in un minuscolo paese che ha moltissimi cuori disseminati qua e là, la censa di Placido è forse fra essi il più grande. 

Definirla un sali e tabacchi (perciò censa, da licenza, concessa dai monopoli di Stato), un’osteria, una drogheria, non le rende ragione. La censa di Placido pompava vita nell’intero apparato circolatorio di San Benedetto e perciò da essa sono fluiti e ancora ricircolano i racconti di Fenoglio. Tutto il quotidiano e lo straordinario del paese distillava da quei muri di pietra male intonacati, dalla porta rialzata a doppio battente di legno, dall’insegna dipinta a caratteri cubitali, “Trattoria | commestibili”, come se si potesse fare confusione sulla natura del posto. Ecco, quando quel giorno al confine fra novembre e dicembre, con Paolo siamo giunti davanti alla censa di Placido, ecco, io ho ripensato al momento preciso e indimenticabile nel quale, leggendo Il partigiano Johnny, ho avuto il desiderio urgente, fisico e insopprimibile di partire e di arrivare nei posti raccontati da Fenoglio, per poterli vedere davvero con i miei occhi e non solo immaginare. E mentre ripensavo a quell’istante, ho dovuto, con fatica, ricacciare indietro due lacrimoni, ché non mi pareva bello mettermi a piangere come un vitello lì davanti alla censa, sotto gli ippocastani di Beppe e sotto gli occhi di Paolo.


Muri sbrecciati, intonaci corrosi, lampioncini monchi, finestre aperte sul vuoto, vetri in frantumi, una triste tenda rossa che si agitava in un vento leggero: la censa quel giorno era l’incarnazione dello scorrere del tempo impietoso. E mentre riflettevo su questa inesorabile assenza di pietas, il clangore di una saracinesca e la voce di Paolo mi richiamarono: «Entriamo… attenzione… c’è un bel po’ di confusione qua dentro, però mi fa piacere mostrarti anche l’interno…»


All’esterno il tempo aveva trasformato la censa in un rudere, ma quasi nessun potere aveva invece avuto sull’interno, a parte un uniforme deposito di polvere e una coltre di ragnatele lanuginose. Il bancone di Placido era ancora lì, massiccio e splendido nel suo inaspettato color verde Tiffany, insieme a fiaschi in vetro e paglia, piccole damigiane, bicchieri da vino, tavoli di legno e perfette sedie da osteria con le sedute in paglia intrecciata. Allora di fronte a quella visione, oltre a commuovermi di nuovo di nascosto, pensai che Fenoglio è realmente esistito e insieme a lui Placido e tutti i Paco, Pietro, Gemma, Catinina, Maggiorino, Juccia, Giulia, Davide, Superino, Menemio, e pensai che tutti questi uomini e queste donne erano passati tutti da quel bancone che in quel momento io osservavo ricoperto di polvere e di ragnatele.

E la censa era così viva e così concreta che ebbi l’impulso di prendere un bicchiere, di rimettere in piedi una sedia, di accomodarmici sopra e di attendere Placido. Mi dissuase solo lo scricchiolio del pavimento sotto i miei passi cauti.


Quindi uscimmo dalla censa, la saracinesca fu richiusa. Fui grata a Paolo per quella giornata. Fui grata a tutta la mia comunità albese che aveva reso possibile quella giornata.


Il 14 maggio scorso, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, la censa di Placido è stata aperta al pubblico, recuperata e trasformata in un luogo dedicato alla memoria letteraria dello scrittore albese. E io, ora, sono impaziente.


(post e foto di Eva Ponzi)