martedì 6 novembre 2012

I ribelli del tramonto

Matteo Speroni, giornalista culturale del Corriere della Sera, dopo I diavoli di via Padova (Cooper, 2010), torna a scrivere della città che conosce così bene: Milano. Il paesaggio urbano è quello di una città che presenta caratteri propri di tante metropoli contemporanee – e sempre di più, anche di città più raccolte, per dimensioni e prospettive. Ampie zone degradate, che assomigliano a ghetti – quando non lo sono, di fatto –, vedono il proprio lugubre, pulsante tessuto di vie, fabbricati, relazioni interrotto da isole artificiali di lusso e apparente sicurezza. Anche la fisionomia civile e politica ritratta da Speroni ci è familiare, per quanto le vicende narrate siano ambientate in un futuro prossimo: impoverimento delle classi medie, scandali sessuali e finanziari che fanno collassare strutture ospedaliere un tempo all'avanguardia, forze dell'ordine senza risorse economiche, neanche quelle necessarie per fare benzina. In generale, smantellamento dello stato sociale ed un processo di privatizzazione che salva i pochi che si salverebbero comunque e condanna alla miseria tutti gli altri. In questo scenario, si muovono i personaggi stanchi, rabbiosi, lucidi e disperati del secondo romanzo di Speroni, Brigate Nonni. Il titolo – ed il sottotitolo: I ribelli del tramonto –, fortemente evocativi, richiamano un immaginario ben noto a chi abbia vissuto la storia politica italiana degli ultimi quarant'anni o sia anche solo entrato in contatto con essa grazie a libri, film, documentari televisivi. Le Brigate cui Speroni allude sono quelle Rosse che agirono negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in Italia, soprattutto nel nord, tra Piemonte, Lombardia e Veneto. I “nonni”, che si ribellano al tramonto – della loro vita, ma anche, ci sembra poter dire, di una società anagraficamente e culturalmente vecchia – sono i pensionati senza pensione, la generazione di chi adesso, nel 2012, sta nascendo o ha meno di cinquant'anni, che vive o ha vissuto ancora un'infanzia di relativa ricchezza e dovrà affrontare una maturità ed una vecchiaia di stenti. A meno che non succeda qualcosa. Su questo what if, il romanzo di Speroni è fortemente pessimista: non tanto per il finale –  inevitabilmente aperto –, quanto piuttosto per il fatto che qual 'qualcosa' che potrebbe succedere l'autore lo ricalchi sulle tante dinamiche già accadute, già viste, già fallite: un manipolo di rivoltosi che lavora e si ribella nell'anonimato, in una rete di relazioni di cui si perdono i confini, provando a scatenare moti di indignazione e sommosse tra l'ampia zona grigia del disimpegno e della rassegnazione, con azioni esemplari. È una storia antica – ma potente, perché sembra illudere con rinnovato vigore sempre qualcuno, da qualche parte. Se Speroni voleva dirci, tra le righe, che la nostra sconfitta sta nel non saper immaginare altro, il suo romanzo è di una spietata saggezza – ed un invito a pensare, agire, raccontare diversamente.

(Recensione del Piccolo Festival)
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In quale scenario ci troveremo a vivere nei mesi a venire? La domanda inizia a farsi pressante, perché le ferie, con il loro potere anestetizzante, sono ormai alle spalle e tocca tornare a fare i conti con una realtà che è, inutile dirlo, quanto mai incerta e preoccupante. Siamo prossimi ad incrociare per strada un nostro concittadino pronto a scagliare la prima pietra? Quell’insospettabile vicino di casa che avrà nel frattempo deciso di averne abbastanza e girerà armato e deciso a svuotare il caricatore su uno dei nostri leader o capitani d’industria, come nello scenario recentemente tratteggiato con gran pregnanza da Nicola Lagioia? Certe domande potrebbero rivelarsi sempre meno provocatorie. Forse da qui deriva l’inquietudine che mi ha accompagnato nella lettura dell’ultimo romanzo di Matteo Speroni. In bilico fra ucronia e fantascienza, Brigate Nonni. I ribelli del tramonto si svolge nell’ambiguità di un’epoca che non si capisce se sia lontanissima dal nostro mondo, oppure dietro l’angolo rispetto all’oggi. Quelle poche, a volte superflue, trovate futuristiche non sempre risultano convincenti (prima fra tutte la saltarola, un esercizio da palestra consistente nel comporre sms appendendosi a maniglie pendenti dal soffitto). Quando certi arzigogoli vengono lasciati da parte la storia accelera, ci trascina verso un baratro che, c’è da sperare, sia davvero solo fantascienza. Ma la realtà descritta risulta molto simile al nostro quotidiano, è appena scentrata, come in un leggero fuori fuoco che continuamente spinge a chiedersi se Speroni stia giocando di fantasia oppure provi ad immaginare il futuro.
Il protagonista Vincent Guerra, nomen omen, non può più darsi pace: il suo paese l’ha preso a schiaffi, l’ha umiliato giorno dopo giorno nella sua precaria vecchiaia, lo costringe ad inventarsi sempre nuovi mestieri per sbarcare il lunario. Ma alla fine, tutto quello che avverrà, non sarà provocato da questa pur difficile situazione. All’incertezza del quotidiano il buon Vincent si poteva pure abituare, a quella sì, però accettare la morte di Mitha ¬– a cui era mancato il denaro per un operazione al cuore – e il conseguente suicidio di suo fratello Abel che non aveva retto alla perdita della moglie, accettare tutto ciò era al di sopra delle sue capacità. La rabbia, abilmente compressa e plasmata, trasforma l’uomo qualunque in un freddo organizzatore, un raccoglitore di malcontento che sa gestire situazioni pericolose e complesse, lo mette a capo di una squadra speciale facente parte di una rete addirittura nazionale. Più si avanza nella lettura, più si scopre in Vincent una sorta di James Bond di Villa Arzilla, un uomo che pare non farsi mai cogliere di sorpresa dagli eventi, neppure quando questi divengono enormi, spropositati, quando la quotidianità è sovvertita e per le strade c’è ormai un’aperta guerra.
Altre persone, come Vincent, non più in grado di accettare lo status quo, anelano ad un orizzonte diverso e si immolano in un’impresa che sarebbe stata fino a poco prima non solo inimmaginabile per loro, ma addirittura folle, da rifuggire con sdegno. Persone che del rispetto della legge avevano fatto una bandiera, finiscono per fare il salto oltre la legalità, entrano in un supermercato – così inizia il romanzo – con un fucile mitragliatore che a mala pena riescono a reggere quando, per sconsiderata imperizia, inizia a sputare fuoco sul soffitto. Rimangono insomma nonostante tutto vendicatori de noantri – e come spesso succede con armi e violenza, la situazione sfugge di mano. 
Dall’altro lato sta il poliziotto, il capitano Palude, la controparte integerrima, decisa a non scendere a compromessi, fino all’estremo, fino ad affondare – anche qui nomen omen – e perdere tutto. «In queste giornate ho visto e sentito la funerea maestosità del dolore, il lugubre impianto meccanico della cattiveria, l’ineluttabilità del male, il suo tuono, la sua potenza. Il mio problema (…) non è avere perso la fiducia nella Polizia o nello Stato, ma è non credere più nell’umanità» (p. 245). Perché la speranza pare davvero non avere spazio in questo mondo parallelo (e così vicino) al nostro. Matteo Speroni mette in scena la rivolta delle persone per bene – e in quel gruppo ci sembra immodestamente di vederci riflessi, sempre più esasperati.

(Recensione di Sebastiano Bisson)

Matteo Speroni, Brigate nonni. I ribelli del tramonto, Roma, Cooper, 2011.

giovedì 1 novembre 2012

La legge del pane


Sono seduta al caffè del Villaggio Internazionale Padova 3 a pochi km da Rab, capoluogo dell’omonima isola croata. Mi sono appena svegliata, è il mio terzo giorno di ferie e in attesa del solito cappuccino “internazionale”, mi guardo attorno con il taccuino sul tavolino. C’è una splendida vista sul mare, luce calda e cielo limpido di mezza estate. La giornata è appena iniziata e già c’è la fila al fornaio. Gente di ogni nazionalità si ritrova lì davanti ogni mattina per il pane. Avevo promesso di staccare la spina con l’impegno e la politica, avevo promesso che questa sarebbe stata una vacanza senza giornali e senza pensieri, ma questi, come pesci guizzanti, riaffiorano a galla quando meno me l’aspetto. Ecco, ci siamo, penso tra me, mentre il mio lui è andato a pagare il conto. Mi sto scrivendo addosso! Cerco con foga una penna, spalanco il taccuino e metto giù qualcosa d’inevitabile. L’urgenza di certe istanze non mi lascia neppure qui.
Se il buon giorno si vede dal mattino, una buona civiltà comincia da una buona fila. Accodati uno dietro l’altro in silenziosa dignità, ciascuno attende il proprio turno senza livore. Non ci sono numeretti a disciplinare la progressione, eppure nessun litigio. Chiunque arrivi prende posto dietro l’ultimo  e gli altri scorrono quando il primo rompe le righe con il suo cartone di pane.
La forma di questo serpentone che si snoda è semplice e chiara. Ripenso alla massa informe di certe code italiane al supermercato, al cinema, in banca o all’anagrafe quando la macchinetta è fuori servizio. Mi alzo col taccuino e mi avvicino al fornaio di Rab. Non è difficile entrare a far parte di questa forma, trovare il mio posto, attendere il mio turno assumendo quel silenzioso contegno che mi fa sentire d’un tratto cittadina del mondo. Incolonnati uno alla volta ci avvicendiamo senza intoppi. Dopo poco tocca a me, è piacevole e rilassante prendere il pane e seguire il naturale deflusso delle cose. In fondo è così semplice, nessuno sgomita, nessuno tenta di prenderti il posto, niente trucchi né inganni. Si chiede il pane e si paga. Ciascuno sa chi viene prima e chi dopo, non ci sono privilegi: è la legge del pane. Ce n’è per tutti, basta saper attendere il proprio momento, non importa se sei grande, grosso, magro, alto o basso, se conosci il cassiere, sei parente del fornaio o se e quanto pagherai alla fine. L’ordine cronologico è l’unico concesso. C’è un tot di tempo entro il quale è lecito fare le proprie richieste al panettiere, ed è un range implicito, dettato dal buonsenso. Quando tocca a te saprai regolarti, avendo impiegato parte dell’attesa nell’osservare gli altri prima di te, invece di pensare a come scavalcarli o buggerarli. Gli altri sono un modello per capire come funziona; non serve che qualcuno stia lì a spiegare o vigilare.
Al di là del bancone, commesse sorridenti sono messe in condizione di accontentare tutti, senza dare in escandescenze o beccarsi improperi dogni tipo. Non ci sono monologhi deliranti alla cassa o gente che scambia il garzone del negozio per uno psicoanalista o un confessore. Mantenere la fila non è solo questione di spazi e di tempi. È un’abilità che richiede senso di identificazione negli altri che attendono; senso di giustizia, socialità, la capacità di saper stare al proprio posto, di lasciarlo a tempo debito, il saper concentrare le proprie richieste alla cassa, il contenimento della propria impellente ansia di arrivare sempre primi. 
Questa della fila è una di quelle forme di civiltà che dovrebbe essere appresa sin dall’infanzia, assieme ai primi passi. Ciò che non è facile far capire a chi si occupa di politiche educative, è proprio l’esigenza di inserire nelle scuole adeguati programmi di psicomotricità che possano allenare i futuri cittadini a gestire i propri spazi in relazione alle proprie emozioni, gestire i propri spazi emotivi senza invadere quelli altrui. 
Anche una banale fila può diventare difficile da seguire senza un paziente allenamento nell’uso del corpo rispetto allo spazio-tempo sociale. Nella fila s’incontrano gestioni intra-psichiche e interpersonali. E la fila diventa metafora di processo democratico, alternanza, avvicendamento, rispetto e futuro.

(Post di Valentina Rizzi)