mercoledì 18 novembre 2009

Per non parlar del cane

Ogni autorità risulta in qualche modo ostile, quando ci si para di fronte. Il vigile urbano, il guardiaparco, i loro distintivi possono renderci improvvisamente nervosi, siamo pronti a cacciar fuori le unghie, fiutiamo nell’aria l’abuso, percepiamo teso e sofferente fra le dita il filo di rispetto per l’autorità che, ci hanno insegnato, non bisognerebbe mai spezzare. Ma ci sono terre aspre in cui quel filo ha davvero poca speranza di rimanere intero, in cui l’autorità – intesa in senso lato e comune – viene sbattuta dal vento come una bandiera stanca; in cui certi limiti vengono di continuo valicati; sono terre segnate da leggi non scritte che sanno di sputo, sangue e merda di cane.
Così appaiono certi angoli di Puglia, che a guardarli sembrano ancora oggi antichi, con le loro piane brulle interrotte da inattese foreste, con le case diroccate chiuse come pugni, il mare vivido sulle rocce e placido sulla sabbia. Sembrano antichi, come sembra antica questa storia, scandita in sette giorni infernali in un Sud ancestrale, dimentico di quasi tutte le regole del vivere civile, nelle mani di un’umanità primitiva. Eppure c’è tutto il nostro moderno ed evoluto mondo in Uomini e cani; allora a volte si deglutisce faticosamente, e ci si ripete che in fondo è solo finzione narrativa, è solo finzione, oppure no?
Sorvolando sui pochi luoghi comuni in merito all’abusivismo edilizio a danno delle aree protette o all’atmosfera pre-elettorale nel piccolo comune, risulta difficile scovare qualcosa di inessenziale nel romanzo di Omar Di Monopoli, nonostante un’inventiva lessicale che avrebbe potuto scivolare nel barocco e invece riesce senza fatica a far immaginare «un’umanità scalena e abnorme» (p. 33). In questo senso la vera punta di diamante sono i dialoghi, affogati in una prosa tagliente, ricca, ma appunto misurata. Pare davvero di sentirle tutte le voci malsane e sbilenche di quella selva di martiri e dannati che sono i personaggi che costellano il romanzo, personaggi buoni e cattivi, ciascuno a modo proprio schiavo di una terra che pare non lasciare scampo.
Uomini e cani è un libro straniante perché fa perdere molti dei naturali punti di riferimento del vivere comune, perché ci ricorda che il cane è il miglior amico dell’uomo, ma solo se non è incazzato.

Omar Di Monopoli, Uomini e cani, Milano, Isbn, 2007.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: al dog-sitter dei vicini

giovedì 12 novembre 2009

Non giriamo attorno al cespuglio (2)

Delle perplessità che Io sono Dio di Giorgio Faletti ha sollevato in alcune attente lettrici, ho già avuto modo di parlare. Di per sé non ci sarebbe stato motivo per tornare sulla faccenda, ma la risposta che lo stesso Faletti ha imbastito a sua difesa - pubblicata su «La Stampa» il 22 agosto 2009 - imponeva di tornare sul luogo del "delitto". Quella risposta mi sembra manifesti due principali difetti: da un lato non controbatte alle obiezioni sollevate; dall’altro presenta un tono ingiustificatamente aggressivo e poco elegante. In una tenzone cortese il rispetto dell’avversario dovrebbe essere la prima regola, a maggior ragione se l’avversario è una donna, invece è proprio in quella direzione che Faletti dimostra di volare davvero basso e in barba a qualsiasi forma di bon-ton si lascia andare ad affermazioni sprezzanti e offensive, forse senza immaginare che così facendo aumenta i sospetti nei suoi confronti e induce a ritenere egli non abbia a disposizione armi migliori, cioè più intelligenti, da usare a propria difesa. Ma andiamo con ordine.
«Se in un giallo [...] cinque frasi non funzionano, è un gran risultato» dice lui, e noi possiamo essere d’accordo, tuttavia il problema non sta nelle cinque frasi in sé - al di là del fatto che sono ben di più -, ma sta nel ruolo che tali frasi hanno quali indizi pesanti dello zampino di un ghostwriter di madrelingua inglese. Secondo Faletti la frase idiomatica "non girare attorno al cespuglio" ha un significato facilmente comprensibile anche per un lettore italiano (provate a fare un test fra i vostri conoscenti); scrivere "grandi" per dire "biglietti da mille dollari" va benissimo, dato che in italiano usiamo già una parola quale "verdoni" che non ha riscontro con la realtà, essendo verdi i dollari ma non gli euro (peccato che solo "verdoni" sia un termine che tutti comprendono); "non te ne devo una, ma mille" al posto di "ti devo un favore enorme" sarebbe un prestito da un modo di dire piemontese (ma il romanzo non è ambientato negli Usa?).
Insomma la difesa risulta perlomeno maldestra e si ferma solo su alcune delle obiezioni, cercando di ridicolizzare chi le ha sollevate e facendo ricorso, come dicevo, a modi riferibili al Vito Catozzo dei tempi d’oro piuttosto che al Giorgio Faletti dei giorni nostri: «risibile querelle estiva e premestruale». Per pudore mi fermo solo a risibile, perché in verità non c’è nulla di cui ridere. In questo caso, o abbiamo a che fare con un’operazione truffaldina mal congegnata, oppure stiamo scoprendo che un autore pubblicato in pompa magna, osannato per le 12 milioni di copie vendute, non sa valutare se sta scrivendo una frase che ha un significato chiaro e compiuto. A questo punto tutta la vicenda potrebbe rappresentare un altro complessivo, grande indizio: della bassissima capacità critica dei lettori italiani.

Foto: Duello al tramonto © Andrea Mucelli