tag:blogger.com,1999:blog-76573381933919264582024-03-14T01:36:53.456+01:00ilVoltaPagineDivagazioni per lettori esigentiilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.comBlogger175125tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-62677006118021756712022-06-05T16:17:00.007+02:002022-06-05T16:34:57.354+02:00La molteplicità negata<p style="text-align: justify;">Sarei curioso di vedere quanto convergiamo oggi sulla necessità del sacro e della sua complementarietà <span style="text-align: justify;">con la ragione, intendo se statisticamente siano più le persone che pensano – nel profondo – di poter vivere benissimo senza un legame con il divino, o se invece siano più quelle che pensano che di Dio non si possa fare a meno. La riflessione mi viene dopo la lettura de <i>La ragione degli dei</i>, un viaggio attraverso i secoli, seguendo le più differenti correnti di pensiero, che mette a confronto Occidente e Oriente. E da cui emerge l’India come terra salvifica.</span></p><p></p><div style="text-align: justify;">L’adozione dell’alfabeto come sistema astratto di comunicazione ha aperto la strada della filosofia. Come dice McLuhan, «il mezzo è il messaggio», nel senso che inevitabilmente esso interviene a modificare il messaggio. E l’alfabeto scompone, impedisce di vedere il tutto. In questo modo, un po’ alla volta, l’Occidente si è emancipato da religione e mito. In principio i Greci non avevano una fede, erano immersi nel divino, solo in seguito i Romani ne fecero una religione. La società cristiana ha messo l’uomo al centro, desacralizzando la natura e dato il via all’individualismo, al materialismo, col risultato alla fine di far scomparire la religione.</div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhPhr5p-AmSE6hL3EW4FwGKf0bY-wseArS8lvXb_0DysyolX2ZjSt3iF9XUri5HiZCul_lB7k7P0Y8Y7nPYVTywJRoFMXudF6nJgGBklpb6WROL0kCclrMXJuc2IyAHB9rsACVLLCIFVxvOGzxQrhjCPIrKEUoj_wXriwSSeRfjVK76L2QG8mc2VWn7/s708/Schermata%202022-06-05%20alle%2015.58.09.png" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="708" data-original-width="448" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhPhr5p-AmSE6hL3EW4FwGKf0bY-wseArS8lvXb_0DysyolX2ZjSt3iF9XUri5HiZCul_lB7k7P0Y8Y7nPYVTywJRoFMXudF6nJgGBklpb6WROL0kCclrMXJuc2IyAHB9rsACVLLCIFVxvOGzxQrhjCPIrKEUoj_wXriwSSeRfjVK76L2QG8mc2VWn7/s320/Schermata%202022-06-05%20alle%2015.58.09.png" width="202" /></a></div><p></p><p style="text-align: justify;">Uno degli strumenti più efficaci di cui dispone il monoteismo cristiano e islamico è il concetto di una vita nell’aldilà. Queste due religioni sono molto vicine se viste da una prospettiva appena un po’ più ampia, ed entrambe hanno contribuito a creare le cattive pratiche che contraddistinguono l’epoca contemporanea. Entrambe hanno al vertice un Dio dittatore che non accetta altri da sé, producendo i primi esempi di “totalitarismo” moderno da cui derivano quelli politici. Un mio dubbio: il cristianesimo, anziché una causa, non potrebbe essere un effetto? Il controllo sulla comunità induce a creare dei sistemi che hanno radici simili, che sfruttano meccanismi affini, trasformare una cronologia in una genealogia potrebbe non avere senso. E in effetti anche in Egitto e in Iran si diffondono tendenze monoteistiche (p. 32).</p><p style="text-align: justify;">Proselitismo e dogmatismo sono i principali ‘difetti’ di Cristianesimo e Islam, due eresie dell’Ebraismo. I martiri pagani non si ricordano, è la lontananza che non giustifica, è l’appartenenza alla schiera che non reca il vessillo in cui tutti dovremmo riconoscerci; se volete, sono un po’ come i martiri delle foibe. Quello che è utile ricordare, è che intolleranza e fondamentalismo sono elementi comuni in società diverse, nel luogo e nel tempo, e quella Occidentale non ne è immune. Dovremmo invece aver imparato ad agire con maggiore intelligenza, sfruttando quanto la filosofia e la storia ci insegnano. «L’intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo» scrive Schopenauer, citato a pag. 33, e l’espansione delle religioni aggressive ci ha fatto scordare la naturale tendenza alla tolleranza e all’apertura.</p><p style="text-align: justify;">Dalle religioni come oppio dei popoli, si arriva paradossalmente oggi ai popoli senza spiritualità che abusano dell’oppio. Il progresso fine a se stesso non migliora la qualità della vita dell’uomo. Per questo il modello liberal-democratico è il più consono da applicare all’Occidente; morale e spiritualità servono a sorreggere l’essere umano nel tentativo di deviare dall’individualismo. Secondo Diego Infante, è Cartesio che ha formalizzato la separazione fra pensiero e materia, cancellando una visione olistica che oggi sopravvive forse solo in India. Europa e Usa garantiscono più diritti che imporre doveri, mentre in Oriente la collettività ha maggiore valore in un tutto che raccoglie il mondo. Non c’è dualismo: uomini, dei e natura sono un tutt’uno, sacro e profano si annullano.</p><p style="text-align: justify;">In Occidente la materia è «elevata a paradigma unico del senso di vivere» (p. 37) ed è davvero difficile cancellare duemila anni di pensiero, o recuperare il valore sacrale del cosmo che avevano greci e romani. In India è fondamentale l’unità dell’espressione vitale, eppure esistono le caste. La nostra invece è un’uguaglianza in senso materialistico. L’essere è nella relazione, ma nel mondo occidentale la coesione sociale è a livelli molto bassi e molte dipendenze del mondo contemporaneo, come la ludopatia, sono esiti di un consumismo narcisistico.</p><p style="text-align: justify;">Gli Usa si basano su un falso mito, il diritto alla felicità. È un principio socialmente disgregante ed ecologicamente insostenibile. Ne deriva un paese senza equilibrio che si sente investito del ruolo di missionario della civiltà, quando in realtà basa la sua storia sul genocidio dei nativi e sulla tratta degli schiavi. L’applicazione dell’etica puritana, fortemente antropocentrica, basata sul profitto, si oppone alla natura sentita come selvaggia. Un orizzonte sociale e culturale molto stretto e angusto che ha prodotto e produce le molte storture che conosciamo: le contraddizioni degli Stati Uniti fra ricchezza e povertà, libertà e discriminazione, il culto delle tecno-scienze, la spiritualità perduta. La legge è l’unica salvezza, almeno del nord del paese, mentre il sud, in una quasi anarchia, è il «prodotto dell’abominio coloniale» (p. 54).</p><p style="text-align: justify;">L’opera di Infante è disseminata di spunti interessanti, alcuni stressati forse oltre un giusto limite, ma senza dubbio di stimolo alla discussione. Si arriva infine ad uno snodo chiave molto concreto, «il modello del benessere che non soddisfa solo i bisogni essenziali ma che ne crea di nuovi del tutto inutili, è palesemente insostenibile nel lungo periodo» (p. 120); c’è da chiedersi quando l’Occidente – ovvero noi tutti – vorremo accettare questa verità. Significherà allora invertire la rotta per quanto possibile e «conservare l’alterità ove questa sia sopravvissuta agli attacchi violenti degli universalismi» (p. 122). La profondità e la saggezza dell’India saranno perciò la nostra ancora di salvezza, dice Infante. Mi chiedo tuttavia se, nel momento in cui andremo a cercarle, le troveremo intatte. </p><p><br /></p><p><b>Diego Infante, <i>La ragione degli dei. La bellezza del molteplice e la dittatura dell’unico</i>, Ancona, Italic, 2015.</b></p><p><br /></p>ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-78078578942828773732022-05-23T19:18:00.000+02:002022-05-23T19:18:06.147+02:00Nella valle del Belbo: Beppe Fenoglio e il racconto delle Langhe<p><span style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">In una splendida giornata al confine fra novembre e dicembre di qualche anno fa, colui che poi sarebbe divenuto un amico mi svelò, durante un sostanzioso pranzo albese, le ragioni della mia difficoltà. Gli stavo infatti raccontando della mia impossibilità a scrivere qualcosa su Alba e sulle colline: «Ogni volta che salgo da queste parti provo grandi emozioni, mi ribollono dentro pensieri, vorrei metterli sulla carta, ma quando mi siedo a scrivere non ci riesco, diventa tutto banale…»</span></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Il mio amico sorrise, ingollò una forchettata, sorrise ancora e, con tutta la naturalezza del mondo, mi disse: «È proprio l’emozione che ti impedisce di scrivere»; «… ma io di solito scrivo perché sono emozionata…», obiettai. Il mio amico sorrise ancora, con un leggero sbuffare dal naso, e ribadì con impeccabile cortesia piemontese: «È l’emozione ti dico. Tu lasciala fluire, lasciala depositare e vedrai che, al momento giusto, le parole arriveranno».</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Può essere che questo ora sia un momento giusto.</span></p><p class="p2" style="font-family: Garamond; font-size: 12px; font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; min-height: 13px; text-align: justify;"><br /></p><p class="p1" style="font-family: Garamond; font-size: 12px; font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUfnj4mY0hpQFx-kuSDPuUDA33fJw0lYVbSuZq2c3ugQXEdtWLZIAT8BYb-hCj9ElVbMs-gIpjSNvdjUYistpy5oaMPZlzKoVfIpEVfT1V3lV4tGmz2CroLGdUnDlukgqekLPUYGGjaePBpYfzKz54DQj4krKdJXtrlS9w9xL91HigUFAyc5Z-1nI2/s2892/racconti.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2892" data-original-width="2480" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUfnj4mY0hpQFx-kuSDPuUDA33fJw0lYVbSuZq2c3ugQXEdtWLZIAT8BYb-hCj9ElVbMs-gIpjSNvdjUYistpy5oaMPZlzKoVfIpEVfT1V3lV4tGmz2CroLGdUnDlukgqekLPUYGGjaePBpYfzKz54DQj4krKdJXtrlS9w9xL91HigUFAyc5Z-1nI2/w343-h400/racconti.jpg" width="343" /></a></div><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Quello stesso giorno salimmo in Alta Langa e per me era la prima volta. Paolo aveva deciso di condurmi nel cuore dei racconti di Fenoglio. Quelli dove la miseria, la meraviglia, la violenza, lo stupore, le fanfaronate, la dolcezza, gli adulti e i bambini, gli uomini e le donne, i piccoli sprazzi di speranza subito spenti si impastano sulla pagina insieme alle marne calcaree e sabbiose delle colline, qui ricoperte di noccioleti e perlopiù di pioppi, di ontani, di arbusti di varia specie perché l’Alta Langa è un luogo selvaggio, a centinaia di metri sul livello del mare, e la vite quassù non può dimorare.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Mentre ci lasciavamo alle spalle le terre dolci del Barolo, salivamo per curve sempre più ripide; io ero in silenzio con gli occhi giganti a catturare con lo sguardo paesaggi ancora sconosciuti. «Ah-ah! Guarda là!», voltai la testa nella direzione indicata dalla voce di Paolo: «Quello è il Monviso». Così vidi all’orizzonte le Alpi già innevate con il Monviso troneggiante e inconfondibile nella sua geometrica regolarità; come quinte impazzite di un teatro, le vette scomparivano e ricomparivano insieme al girare dei tornanti. In quel preciso istante ho capito che la visione improvvisa delle montagne per me è un’emozione prossima all’assoluto; ne avevo già avuto il sospetto quando dal molo Audace di Trieste mi è capitato di scorgerle a chiudere l’orizzonte marino, proprio dirimpetto alla città. Il sospetto si è trasformato in certezza matematica sui tornanti verso l’Alta Langa.</span></p><p class="p2" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; min-height: 13px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Un’ultima curva, infine, e proprio lì la Natura ha escogitato uno stratagemma da scenografa: il fitto della boscaglia si dirada e San Benedetto Belbo, con i suoi due campanili quasi l’un l’altro giustapposti, si mostra in tutta la sua aggregata compattezza, mollemente disteso a occupare l’intera cresta della collina. La distanza che separava i miei occhi dal paese si riempì della vertigine della valle del Belbo, il fiume che scorre appena sotto e che ha ridisegnato l’intero paesaggio scavando gole e mulinando in gorghi.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiZNa7eQfgpMOOg67Wh0cepllZwrTL6GAKgnHvAvYcfi4EqzV_tET4XTCC7X-Dbm2GbakG67OfQ0QeJwP3iR6T7-jYZUkHGxncekRyCq78KuwpG2bGzv2fRBsNvseenrdugx2UCdxQCzAvN5a6fUJagUY_EylFWX1b3QdWCRVaBVncVO9BsaVtdIkV8/s4128/Veduta%20San%20Benedetto.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="3096" data-original-width="4128" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiZNa7eQfgpMOOg67Wh0cepllZwrTL6GAKgnHvAvYcfi4EqzV_tET4XTCC7X-Dbm2GbakG67OfQ0QeJwP3iR6T7-jYZUkHGxncekRyCq78KuwpG2bGzv2fRBsNvseenrdugx2UCdxQCzAvN5a6fUJagUY_EylFWX1b3QdWCRVaBVncVO9BsaVtdIkV8/w400-h300/Veduta%20San%20Benedetto.jpg" width="400" /></a></div><p></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Molto dell’immaginario struggentemente concreto di Fenoglio è qui, addensato in qualche centinaio di metri, trasferito tal quale tra le sue pagine: il gorgo del fiume appunto, il cimitero del paese, la via principale con le due chiese, la casa della maestra, la casa del suo amico fraterno Ugo Cerrato – nella quale Fenoglio ha scritto molti dei suoi racconti durante le estati trascorse a prendere l’aria buona di quassù –, i due ippocastani – anch’essi numi tutelari del ticchettio dell’Olivetti Studio 44, quando Beppe sedeva a lavorare sotto la loro maestosa ombra –, le piccole corti – dove si improvvisavano partite di pantalera perché qui i tetti sono adatti a far rimbalzare il <i>balon</i> –, la censa di Placido Canonica.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><br /></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiJj3F7pjr-9fAUoCU7Had6dMu25B6FuxA8blxHxb2e7ZG6Bbjm3bDC5GYrtixxTXmi4Jy-WrWXMTNyvXQYDCnGADyl2g7CGLAN9n_5HS0Q7mpK__GVLR6SzFQBvL1vtkUtggl8mevDHXeNLvkfsBAYtM3pcftGyA7xGSky55xHqM6Xb_M2jmaXpMtU/s4128/Ippocastani.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="3096" data-original-width="4128" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiJj3F7pjr-9fAUoCU7Had6dMu25B6FuxA8blxHxb2e7ZG6Bbjm3bDC5GYrtixxTXmi4Jy-WrWXMTNyvXQYDCnGADyl2g7CGLAN9n_5HS0Q7mpK__GVLR6SzFQBvL1vtkUtggl8mevDHXeNLvkfsBAYtM3pcftGyA7xGSky55xHqM6Xb_M2jmaXpMtU/w400-h300/Ippocastani.jpg" width="400" /></a></div><p></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;">Ecco, la censa di Placido è una magia nella magia: in un minuscolo paese che ha moltissimi cuori disseminati qua e là, la censa di Placido è forse fra essi il più grande. </p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Definirla un sali e tabacchi (perciò censa, da licenza, concessa dai monopoli di Stato), un’osteria, una drogheria, non le rende ragione. La censa di Placido pompava vita nell’intero apparato circolatorio di San Benedetto e perciò da essa sono fluiti e ancora ricircolano i racconti di Fenoglio. Tutto il quotidiano e lo straordinario del paese distillava da quei muri di pietra male intonacati, dalla porta rialzata a doppio battente di legno, dall’insegna dipinta a caratteri cubitali, “Trattoria | commestibili”, come se si potesse fare confusione sulla natura del posto. </span><span style="font-family: inherit;">Ecco, quando quel giorno al confine fra novembre e dicembre, con Paolo siamo giunti davanti alla censa di Placido, ecco, io ho ripensato al momento preciso e indimenticabile nel quale, leggendo <i>Il partigiano Johnny</i>, ho avuto il desiderio urgente, fisico e insopprimibile di partire e di arrivare nei posti raccontati da Fenoglio, per poterli vedere davvero con i miei occhi e non solo immaginare. E mentre ripensavo a quell’istante, ho dovuto, con fatica, ricacciare indietro due lacrimoni, ché non mi pareva bello mettermi a piangere come un vitello lì davanti alla censa, sotto gli ippocastani di Beppe e sotto gli occhi di Paolo.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8MyYQcurrz_1XbO8LriwJC8XckO5XT7D5nB4qRhwHjSsmdEtUnuZRcrPQQwVMh61SY0Pb7dPMnMagqicklOzBkNwlcLqwLw3HgTzuRNy0anIoyq-zIAHY2cUKkhXUueXrBr3iKYbroo0tdV8VW2Uw2hf27ZmDYX7xkLKcNEysNudlR8OgUJWfL8Ny/s4128/Censa%20totale.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="3096" data-original-width="4128" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8MyYQcurrz_1XbO8LriwJC8XckO5XT7D5nB4qRhwHjSsmdEtUnuZRcrPQQwVMh61SY0Pb7dPMnMagqicklOzBkNwlcLqwLw3HgTzuRNy0anIoyq-zIAHY2cUKkhXUueXrBr3iKYbroo0tdV8VW2Uw2hf27ZmDYX7xkLKcNEysNudlR8OgUJWfL8Ny/w400-h300/Censa%20totale.jpg" width="400" /></a></div><p></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Muri sbrecciati, intonaci corrosi, lampioncini monchi, finestre aperte sul vuoto, vetri in frantumi, una triste tenda rossa che si agitava in un vento leggero: la censa quel giorno era l’incarnazione dello scorrere del tempo impietoso. E mentre riflettevo su questa inesorabile assenza di <i>pietas</i>, il clangore di una saracinesca e la voce di Paolo mi richiamarono: «Entriamo… attenzione… c’è un bel po’ di confusione qua dentro, però mi fa piacere mostrarti anche l’interno…»</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">All’esterno il tempo aveva trasformato la censa in un rudere, ma quasi nessun potere aveva invece avuto sull’interno, a parte un uniforme deposito di polvere e una coltre di ragnatele lanuginose. Il bancone di Placido era ancora lì, massiccio e splendido nel suo inaspettato color verde Tiffany, insieme a fiaschi in vetro e paglia, piccole damigiane, bicchieri da vino, tavoli di legno e perfette sedie da osteria con le sedute in paglia intrecciata. Allora di fronte a quella visione, oltre a commuovermi di nuovo di nascosto, pensai che Fenoglio è realmente esistito e insieme a lui Placido e tutti i Paco, Pietro, Gemma, Catinina, Maggiorino, Juccia, Giulia, Davide, Superino, Menemio, e pensai che tutti questi uomini e queste donne erano passati tutti da quel bancone che in quel momento io osservavo ricoperto di polvere e di ragnatele.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">E la censa era così viva e così concreta che ebbi l’impulso di prendere un bicchiere, di rimettere in piedi una sedia, di accomodarmici sopra e di attendere Placido. Mi dissuase solo lo scricchiolio del pavimento sotto i miei passi cauti.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p3" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px;"><span style="font-family: inherit;">Quindi uscimmo dalla censa, la saracinesca fu richiusa. Fui grata a Paolo per quella giornata. Fui grata a tutta la mia comunità albese che aveva reso possibile quella giornata.</span></p><p class="p4" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; min-height: 13px;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p3" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Il 14 maggio scorso, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, la censa di Placido è stata aperta al pubblico, recuperata e trasformata in un luogo dedicato alla memoria letteraria dello scrittore albese. E io, ora, sono impaziente.</span></p><p class="p3" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></p><p class="p3" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: right;"><span style="font-family: inherit;"><i>(post e foto di Eva Ponzi)</i></span></p>Eva Ponzihttp://www.blogger.com/profile/11340780819577294809noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-81930453066131326842021-03-21T14:33:00.001+01:002021-03-21T14:35:53.683+01:00Ed era come un mal di Bosnia #5<p style="text-align: justify;"><i>Quinta parte</i></p><p style="text-align: justify;"><span style="background-color: white; font-family: inherit; font-size: 16px; text-align: right;"><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> </span><span> <span> </span> </span><span> </span>(qui trovi </span><a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/04/mal-di-bosnia-1.html" style="background-color: white; color: #0b5394; font-family: inherit; font-size: 16px; text-align: right; text-decoration-line: none;" target="_blank">la prima parte</a><span style="background-color: white; font-family: inherit; font-size: 16px;">,</span><span style="background-color: white; font-family: inherit; font-size: 16px; text-align: right;"> </span><a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/06/mal-di-bosnia-2.html" style="background-color: white; color: #0b5394; font-family: inherit; font-size: 16px; text-align: right; text-decoration-line: none;" target="_blank">la seconda</a>,<span style="background-color: white; font-family: inherit; font-size: 16px;"> </span><a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/10/mal-Bosnia-3.html?fbclid=IwAR1lUfyKpXEOBP9IOhAn3zNRrODRXaxxKjqxaZLPO8LoSfyjVMXGiOxlQjY" style="background-color: white; color: #0b5394; font-family: inherit; font-size: 16px; text-decoration-line: none;" target="_blank">la terza</a> e <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2021/01/ed-era-come-un-mal-di-bosnia-4.html" target="_blank">la quarta</a><span style="background-color: white; font-family: inherit; font-size: 16px; text-align: right;">)</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Sarajevo ci aspetta, noi invece non sappiamo cosa aspettarci da lei. Siamo in terra di Bosnia da meno di ventiquattr’ore e il senso di straniamento che abbiamo provato subito al confine, con l’attraversamento della Sava, non si attenua. Si fa al contrario più intenso e non ne riconosciamo le ragioni. Appena ieri eravamo a Zagabria, che solo per un caso della vita ci è divenuta familiare, e ieri l’altro eravamo a Trieste, familiare per lo stesso casuale motivo; ora invece siamo in un’automobile a percorrere la rete stradale bosniaca. Lo stupore nella dimensione del viaggio è una sorta di tormentone della nostra famiglia – leggendaria è rimasta quell’ennesima gita a Parigi nella quale io, a ogni angolo già ben noto, non facevo altro che esclamare: «Che meraviglia! Che meraviglia!» –; questa volta però la sorpresa dell’essere altrove è particolarmente intensa, forse proprio perché non ne individuiamo la radice, è sorpresa pura. L’indeterminatezza di questo viaggio estemporaneo, nato senza preparazione e senza progetto, ci emoziona.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Tea è quieta sul plaid che abbiamo steso sul sedile posteriore – al noleggio croato sono stati categorici, l’auto deve tornare nelle stesse esatte condizioni di consegna, ogni leggerezza sarà severamente punita in solido –, è tranquilla come non mai, sembra una piccola sfinge nera e riccia che di tanto in tanto si umetta il naso con la lunga lingua rosa. Seguire l’esempio di Tea: accomodarci anche noi in carrozza e abbandonarci alla strada.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">La macchina rulla sull’asfalto impeccabile, la radio suona nemmeno a dirlo musica balcanica, la cagnetta sonnecchia; dopo il viaggio in notturna della sera precedente, noi possiamo finalmente osservare il paesaggio illuminato dal giorno. E, come avevamo potuto intuire tra la bruma, il buio e i nostri fari accesi, attorno a noi, con la luce, si materializzano scenari suggestivi. L’autunno rosso e giallo è nel pieno del suo rigoglio, la Vrbas scorre, ci affianca e continua a indicarci la via, tra gole scavate dall’acqua, colline spruzzate di colore, paesaggi non popolati da esseri viventi. </span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Una natura solitaria, dove l’umano prende la forma di moschee rurali con l’immancabile cimitero di lapidi bianche tutte identiche tra loro, o di piccole fattorie sempre circondate da orti variamente estesi, con i monumentali covoni di fieno che montano la guardia ai campi coltivati. Oltre ad alcuni curiosi e minuscoli ponti tibetani, fra le tracce indirette dell’umano più di tutte mi incuriosiscono i binari ferroviari: da dove arrivano e dove vanno queste rotaie ravvicinate su traversine corte, segmenti di percorsi frammentati, privi di un inizio e di una fine, che scorgo al di là del finestrino? Sembrano tante graffette di spillatrice che ancorano la terra a sé stessa. Mi chiedo se siano ancora in uso o se si tratti di retaggi metallici del vecchio mondo jugoslavo. Poi, in un momento ormai imprecisato del nostro andare bosniaco, compare lui, come in una visione onirica e felliniana: un convoglio sottile e lunghissimo che, miniaturizzato nell’estensione del paesaggio aperto, sembra un trenino elettrico di quelli belli del modellismo <i>d’antan</i>.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJsNdv44wlA0-AiuhceA7HIxsO8V5tvciQ20F_UhEcb0ge1KOM4EPWb4KHpuh_tRLI4g57szAsIk1mu1pJL6AmMNZjFICaWRctNw14ZHybc8pQg_xCx10fExFdiwcSvLfV-fddPgLgnw0/s2048/peperoni.JPG" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1536" data-original-width="2048" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJsNdv44wlA0-AiuhceA7HIxsO8V5tvciQ20F_UhEcb0ge1KOM4EPWb4KHpuh_tRLI4g57szAsIk1mu1pJL6AmMNZjFICaWRctNw14ZHybc8pQg_xCx10fExFdiwcSvLfV-fddPgLgnw0/w400-h300/peperoni.JPG" width="400" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">A intervalli quasi costanti, il ciglio della strada si popola dei frutti delle attività agresti: bancarelle espongono, racchiusi in grandi reti rosse a maglie fini, cavoli cappucci bianchi, di quella speciale qualità piatta che prima di quel momento avevo visto solo al Dolac, il principale mercato di Zagabria; piccoli peperoni albini sistemati in forma di piramide, anch’essi noti per le vie zagabresi (nella foto); pile di vasi di miele di tutte le sfumature dell’ambra – al ritorno in Italia leggerò sul sito di Slowfood che il miele dell’Erzegovina è il più rinomato dei Balcani e, in effetti, ricordo di aver visto anche molte arnie. Il profilo pastorale del paese si manifesta, ugualmente sul ciglio della strada, nelle indicazioni fotografiche, sempre molto eloquenti e invitanti, dei ristoranti che servono ogni tipo di carne alla brace; in un caso, una schiera di dorati agnelli allo spiedo sfrigola in bella mostra poco oltre la striscia laterale della carreggiata. «Tra le specialità bosniache riconosciute a livello internazionale si distinguono le carni alla griglia», avevo letto nella guida. Mai ci fu tanta corrispondenza tra una guida e un viaggio. Per un momento siamo tentate di fermarci al volo per una seconda e inconsueta colazione, ma poi il richiamo di Sarajevo vince sull’acquolina.</span></div><p></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">«Tra i formaggi, la Bosnia Erzegovina ne offre tra i più nobili e saporiti di tutti i Balcani […] Sempre fresco è il travnički sir, originario della cittadina di Travnik nella Bosnia centrale». Mentre seguo il nostro percorso sulla mappa cartacea, mi accorgo che, anche in questo caso, la guida non sbaglia: i banchetti di cavoli e di peperoni hanno improvvisamente lasciato il posto a una analoga miriade di espositori, ma di ‘formaggio di Travnik’, appunto. Una sequenza quasi senza fine di piccole forme bianchissime che diventa per noi, estimatrici di latticini, oltre che motivo di meraviglia anche un incontrovertibile segno che siamo sulla strada giusta. Sappiamo infatti di dover oltrepassare la città per proseguire nel nostro corretto andare verso sud-est.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Travnik. I più colti, o anche solo appassionati di una certa narrativa, lo avrebbero pensato subito: Travnik, Ivo Andrić. Io l’ho scoperto attraversando la Bosnia in automobile. Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura nel 1961, era nato nel 1892 appunto nella città che ci apprestiamo ad attraversare, quando quelle terre erano ancora territorio dell’Impero austro-ungarico e ancora prima – poco prima, in realtà, 1878 – dell’Impero Ottomano. Ora, mentre scrivo, sfoglio la mia copia de <i>Il ponte sulla Drina</i>, tra i suoi più celebri romanzi: l’ho pescata dallo scaffale dell’usato della mia libreria di fiducia; la stavo attendendo da mesi e alla fine si è materializzata in piena estate: esempio del fatalismo che talora mi piglia in fatto di approvvigionamento di libri, di tanto in tanto acquisiti non per ordinazione, ma per via epifanica.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqXhmvFsqbcMoqach6JnPKOe20raOUc1_JXoutIHoy0dcrUz0MtPg4Sj41EkEJozv-3NPzsLJZ8Q4uJyB2yCw_1mgKl2ZOOe2Joq2SEtZRCpw8Q6KfYKagc61B93lijaGu49NmTOe7cyc/s2048/drina+vero.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1452" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqXhmvFsqbcMoqach6JnPKOe20raOUc1_JXoutIHoy0dcrUz0MtPg4Sj41EkEJozv-3NPzsLJZ8Q4uJyB2yCw_1mgKl2ZOOe2Joq2SEtZRCpw8Q6KfYKagc61B93lijaGu49NmTOe7cyc/w284-h400/drina+vero.jpg" width="284" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">La mia </span><i style="font-family: inherit;">Drina</i><span style="font-family: inherit;"> è una edizione del 1963, ben tenuta, appartenuta a ‘S. Maria’ che la acquistò in quello stesso anno e che ha voluto fissare l’evento con un inchiostro grigio dal tratto sottile, sul primo foglio dopo la copertina. La narrazione ha lo stesso andamento del fiume del quale racconta: si incunea, scava, si gonfia nella piena per tornare a un placido corso, e poi daccapo. «Ma nell’anima loro erano seriamente preoccupati, e ciascuno, sotto quelle celie e quelle risate controvoglia, come sotto una maschera, rimuginava nella propria mente pensieri affannosi, e tendeva incessantemente l’orecchio per sentire lo strepitio dell’acqua e del vento proveniente dalla parte bassa della cittadina, dove erano rimasti tutti i suoi averi».</span></div><p></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Siamo in macchina, a metà del nostro tragitto, e ancora non possiamo sapere che Sarajevo ci avrebbe insegnato a non fidarci della spensieratezza, dell’allegria, della normalità che pure avremmo visto; che, al contrario, ci avrebbe costrette a guardare oltre quelle maschere. È a Travnik però che giunge il primo e potente invito a modificare il nostro sguardo. Siamo ferme a un semaforo in periferia, ma sulla direttrice principale e, nell’ordine: inveiamo contro un traffico che ci sembra fuori controllo; ci diciamo che abbiamo fatto bene a dormire a Jajce perché Travnik sarebbe stata troppo caotica; ci assicuriamo del benessere di Tea; saltiamo da una stazione radio all’altra; sgranocchiamo gli ultimi taralli del giorno prima. Facciamo insomma cose normali dentro l’abitacolo dell’auto. Infine, un’ulteriore azione normale: rivolgo lo sguardo fuori dal finestrino.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Raggelo all’istante. D’improvviso non è più normale alcunché. Spero che il semaforo continui a essere rosso quel tanto che mi permetta di poter sciogliere la lingua, riprendere la respirazione, rimettere in moto i muscoli facciali ed espirare il fiato necessario a richiamare l’attenzione di Junior e di Seniorsenior su ciò che sto fissando con gli occhi ormai dilatati su tutto il mio viso. Tra i palazzoni grigi dalle inconfondibili forme dell’edilizia sovietica, ne spicca uno dalla medesima discutibile estetica e perfettamente intatto come gli altri, tranne che per un dettaglio: nell’intonaco tra l’ultimo piano e il lastrico solare si apre una estesa screpolatura a forma di stella molto irregolare. I segni del mortaio.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Come davanti ai monumenti ai caduti di Jajce, il cortocircuito si innesca di nuovo nel tempo di uno sguardo: attraverso il battito delle mie ciglia, la dimensione agreste-pastorale, i colori dell’autunno, le suggestioni letterarie, il nostro stesso essere in viaggio in un fine settimana lungo di novembre entrano in collisione con quella traccia sull’intonaco di un palazzo qualsiasi sulla strada principale di Travnik. Silenzio nell’abitacolo. Poi sento il suono della mia voce: «Ma quello è il segno di un mortaio vero». Venticinque anni dalla fine della guerra e quel segno è ancora lì, mentre l’intorno è permeato di quotidianità e di vita che scorre. E quel segno è lì. Senza il filtro della testimonianza, del racconto, del libro di storia.</span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Il verde infine scatta, Junior ingrana la prima e poi la seconda, Tea – che si era alzata sulle quattro zampe come a voler anch’ella prendere parte a quel momento – si accuccia di nuovo accanto a Seniorsenior che tace e la accarezza sulla testa; io do distrattamente un’occhiata alla mappa stradale.</span></p><p style="text-align: right;"><span style="font-family: inherit;"><i>(Post e foto di Eva Ponzi)</i></span></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><b>Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)</b></span></div><div style="text-align: justify;"><i>Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto</i></div>Eva Ponzihttp://www.blogger.com/profile/11340780819577294809noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-8233862756007099882021-01-13T12:16:00.004+01:002021-01-13T19:52:32.698+01:00Ed era come un mal di Bosnia #4<div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: left;"><span style="font-family: inherit; text-align: justify;"><span style="text-align: right;"><i>Quarta parte</i></span></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: left;"><span style="font-family: inherit; text-align: justify;"><span style="text-align: right;"><i><br /></i></span></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: right;"><span style="font-family: inherit;">(qui trovi </span><a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/04/mal-di-bosnia-1.html" style="font-family: inherit;" target="_blank">la prima parte</a><span style="font-family: inherit; text-align: justify;">,</span><span style="font-family: inherit;"> </span><a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/06/mal-di-bosnia-2.html" style="font-family: inherit;" target="_blank">la seconda</a><span style="font-family: inherit; text-align: justify;"> e </span><a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/10/mal-Bosnia-3.html?fbclid=IwAR1lUfyKpXEOBP9IOhAn3zNRrODRXaxxKjqxaZLPO8LoSfyjVMXGiOxlQjY" style="font-family: inherit; text-align: justify;" target="_blank">la terza</a><span style="font-family: inherit;">)</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><br /></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Nel grigio brumoso del risveglio a Jajce, la varietà cromatica dei crisantemi colpisce il mio occhio. Accostate le une alle altre, turgide e rigogliose piante dal portamento cespuglioso creano una distesa di cupolette fiorite, meta di un viavai di persone, perlopiù uomini, incaricati di acquistare per i propri morti uno di quegli omaggi brillanti. E l’impressione è che qui i morti siano ben più dei vivi. Ma non è solo un fatto di numeri, piuttosto di peso: appena oltrepassato il confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina, i cimiteri divengono parte integrante del paesaggio nell’autunno in fiamme. Agglomerati bianchi di steli sobrie – così come impone la tradizione dell’Islam –, erette nel terreno a declivio sulle alture oppure tra un campo coltivato e una piccola moschea di campagna. A dire il vero, mi chiedo chi siano i veri destinatari di tutti quei vasi: da quello che so, l’austerità islamica in fatto di addobbi tombali prevede l’assenza di chincaglierie, di esibizioni di dubbio gusto, di fiori appunto. Il cimitero monumentale di Sarajevo, sulla collina di Alifakovac, mi dimostrerà una volta di più che anche il dogma può essere sfumato. Lì arbusti di rose e cespugli variamente fioriti condividono la terra con i trapassati, concime per le piante: tra loro e le radici nessuna barriera di legno e di zinco a impedire lo scambio di vita – l’inumazione avviene infatti senza feretro. In questo viaggio, i morti visibili e invisibili ci ricorderanno di continuo, e nei momenti più impensati, della loro presenza.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span><span style="font-family: inherit;">Il nostro nuovo ingresso in città è epica e cinematografo – peccato non ci fosse nessuno a riprendere la scena –: appena varcata la porta Banja Luka (quella a nord), un nutritissimo branco di cani randagi di ogni razza, taglia, colore ci viene incontro per fare gli onori di casa (e ora capisco decisamente meglio il problema segnalato dalla guida). Si muovono tutti insieme verso di noi, incedono lenti e compassati, non si curano degli autoctoni, siamo noi che sentono di dover accogliere, procedono come un’unica nuvola pelosa, un corpo patchwork con tante zampe, silenzioso, coordinato nei movimenti con precisione marziale. Poi la nuvola si apre e, sempre lenta ma sicura, ci ingloba completamente; benché bipedi (la nostra barboncina saggiamente lasciata nell’appartamento), iniziamo anche noi a ondeggiare allo stesso passo di quei dieci-quindici cani, che io tanti cani così in vita mia non li ho mai visti e meno male che nel frattempo nella nostra vita è entrata Tea ché altrimenti a Jajce con tutti quei cani randagi intorno un attacco di panico non ce lo avrebbe tolto nessuno. La falange canina sa che il nostro corpo ha bisogno di energia, ci scorta perciò fino a un ottimo bar-pasticceria per la colazione.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiua2_9oJsTdkx0Jq3o3osLX-_RjlL4Ck-P0nduonJT6EHUTzt48FZRyQhz_FE1tc8oR1Wxn9NrxMW3iM_TCyBL0olwwsB4SMNOcvhVXU9_m7WOgP1FuDruoIQDQ2pASC-u3v07G95WQ28/s2048/colazione.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1536" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiua2_9oJsTdkx0Jq3o3osLX-_RjlL4Ck-P0nduonJT6EHUTzt48FZRyQhz_FE1tc8oR1Wxn9NrxMW3iM_TCyBL0olwwsB4SMNOcvhVXU9_m7WOgP1FuDruoIQDQ2pASC-u3v07G95WQ28/w300-h400/colazione.jpg" width="300" /></a></div></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Appena entriamo, il branco si dilegua così come era apparso, mentre sul nostro tavolo si materializzano triangoli di </span><i style="font-family: inherit;">baklava</i><span style="font-family: inherit;"> preparato a regola d’arte, un miracolo di sciroppo di zucchero, frutta secca, sfoglie croccanti e dorate. È un prodigio della fisica il </span><i style="font-family: inherit;">baklava</i><span style="font-family: inherit;">, umido ma non ammollato, morbido ma sodo sotto i denti, familiare ma esotico. Molti lo trovano troppo dolce e stucchevole, io non smetterei mai di mangiarne proprio per gli stessi motivi. È l’equilibrio nell’eccesso. Gustato poi insieme al caffè turco, servito con il servizio di rame come usa da queste parti, il </span><i style="font-family: inherit;">baklava</i><span style="font-family: inherit;"> spalanca le porte della percezione.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">«Da ieri mattina la città di Jajce, a metà strada tra Banja Luka e Sarajevo, è controllata dalle forze serbe. I difensori croati e musulmani e la popolazione civile si sono ritirati verso Travnik. Si conclude così la battaglia per quello che fonti serbe definiscono il ''confine meridionale della Krajna'', con capoluogo Banja Luka» e poi «Resta incerta intanto la situazione a Jajce e Travnik sottoposti ieri a intensi bombardamenti. Da Jajce verso Travnik e verso Bogaj si riversano decine di migliaia di profughi per cui gli attacchi delle artiglierie vengono visti in funzione di questo esodo, cioè come una manovra per costringere gli sfollati, anche a costo di uccisioni di massa, ad allontanarsi quanto più possibile dalla zona che evidentemente le truppe serbe intendono ''epurare'' etnicamente in via definitiva». Trovo on line nell’archivio dell’Adnkronos queste brevissime notizie, datate fine ottobre-primi novembre 1992, quando cerco di capire perché nel bel mezzo del centro storico della città vi siano due monumenti ai caduti, l’uno di fronte all’altro, uno con la bandiera blu/gialla a stelle bianche della Bosnia, l’altra rossa/bianca/blu con lo scudo a scacchi rossi/bianchi della Croazia. Eccoli i morti, arrivano così, tra una passeggiata con i cani randagi e una dolcissima colazione. Solamente tornata in Italia leggerò <i>Maschere per un massacro</i> di Paolo Rumiz, lucido, illuminante, dolorosissimo, denso volume che racconta vita morte e nessun miracolo dell’incredibile guerra al di là dell’Adriatico tra il 1991 e il 1996. Difficile capire fino in fondo anche quando a spiegare è uno come Rumiz, che quelle cose le ha viste, sentite e persino annusate, perciò su questo argomento non dirò null’altro se non delle emozioni raccolte sui luoghi.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span><span style="font-family: inherit;">Mi guardo intorno, il cielo è plumbeo, gli abitanti di Jajce sembrano sereni, fanno cose normali, gli uomini parlano tra loro in piccoli capannelli, le donne con il capo cinto da fazzoletti portano buste della spesa oppure vendono agli angoli delle strade i prodotti del loro orto, alcune hanno persino allestito bancarelle di fortuna sulle soglie dei negozi ancora chiusi; passano due poliziotti a piedi a pattugliare la via principale; a una a una aprono le piccole botteghe turistiche con souvenir molto artigianali, come i magneti da frigorifero ottenuti dalla sovrapposizione tra calamita, tassello di formica, foto delle cascate nella bella stagione o ghiacciate dal freddo invernale (naturalmente ne prendo una per la mia collezione).</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMJbcfVn86StiD5ZlC13ln24UJP1gnJYk7jVaTWV6vDuGDKgM_RmkD4XrYmlvfd_5YmnuMQgevk1dRwiF7ypyHS0thmvCM0aLERtQqSIf06Ax_11_yoFNmRZakaA0E9OxZX77WQugDVv4/s2048/84029243_692548877949789_4401763315672416256_n.jpg" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="1536" data-original-width="2048" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMJbcfVn86StiD5ZlC13ln24UJP1gnJYk7jVaTWV6vDuGDKgM_RmkD4XrYmlvfd_5YmnuMQgevk1dRwiF7ypyHS0thmvCM0aLERtQqSIf06Ax_11_yoFNmRZakaA0E9OxZX77WQugDVv4/w400-h300/84029243_692548877949789_4401763315672416256_n.jpg" width="400" /></a></div></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Il cartello marrone indica come punti di interesse storico il convento francescano e la moschea Esme Sultanije, il sottofondo sonoro è lo scroscio dell’acqua che appena fuori dalle mura fa un salto di 20 metri. Osservare e ascoltare questa vita, poi girarsi verso i monumenti ai caduti crea un cortocircuito difficile da raccontare: la memoria della guerra occupa uno spazio visivo maggiore di quello della moschea, ma è contemporaneamente compresso tra una specie di pub e una panetteria; è una presenza difficile da ignorare, ci devi per forza passare in mezzo, ma è un attraversamento che ti porta all’attrazione principale della città o alla pizzeria riadattata alla bosniaca. La vita e la morte qui si confondono, si compenetrano, non hanno confini definiti, sei continuamente costretto a passaggi di stato tra le due condizioni, non puoi considerare l’una senza imbatterti nell’altra, e viceversa. Realizzo che la maggior parte delle persone che incontriamo per la strada era qui – o chissà dove, a dir la verità – durante il conflitto; non sparuti testimoni di un passato da tramandare (questo normalmente è il nostro orizzonte, per questioni cronologiche), ma protagonisti vivi e attivi (da quale parte stavano?) di drammatiche vicende che ancora oggi serpeggiano in questa società.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">«In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: “Est”. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude. “Quando mi presento come europeo d’Oriente”, mi raccontò un giorno Aydin Uğur, professore di comunicazione all’Università di Istanbul, “mi godo lo smarrimento nei miei interlocutori dell’Ovest. Pensano che l’Oriente stia solo in Asia”». Rileggo queste parole ancora in Paolo Rumiz, <i>È Oriente</i>: la sensazione di essere in un luogo distante eppure familiare aumenta.<br /></span><span style="font-family: inherit;">Ci rimettiamo in macchina, attraversiamo porta Travnik, aperta verso il Meridione.<br /></span><span style="font-family: inherit;">Sarajevo calling.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: right;"><i><span style="font-family: inherit;">(Post e foto di Eva Ponzi)</span></i></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px;"><div style="text-align: left;"><strong><span style="font-family: inherit;"><br /></span></strong></div><div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><b>Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)</b></span></div><div style="text-align: left;"><i><span style="font-family: inherit;">Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto</span></i></div></div></span></div>Eva Ponzihttp://www.blogger.com/profile/11340780819577294809noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-11481049650868964722021-01-08T12:36:00.000+01:002021-01-08T12:36:34.805+01:00La felicità è altrove<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiN27_wilE4Wyudt9alMy68_rLWV15tFVf-tmqs956JU_UoEq8_Q3f9IjunO4Rxcb2RhrfqW56g6VW0jfbql7O_WPmYn088ZmMWMK8lwg7yNKz_HyL3onlQ6703Zgvoi4p7_Vk7PrVZj4s/s2048/cover_Altrove.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img alt="romanzo bisson" border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1385" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiN27_wilE4Wyudt9alMy68_rLWV15tFVf-tmqs956JU_UoEq8_Q3f9IjunO4Rxcb2RhrfqW56g6VW0jfbql7O_WPmYn088ZmMWMK8lwg7yNKz_HyL3onlQ6703Zgvoi4p7_Vk7PrVZj4s/w270-h400/cover_Altrove.jpg" width="270" /></a></div>Più di dieci anni orsono, in uno dei primi post di questo blog, citavo Anton Ego, il severo recensore gastronomo di <i>Ratatouille</i>: «Per molti versi la professione del critico è facile. Rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare, è che nel grande disegno delle cose anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale».<p></p><p style="text-align: justify;">C'è dunque sempre inevitabile la tentazione a mettere più anima nelle cose. Anche se una norma a cui il recensore di libri dovrebbe sempre attenersi, è quella di non provare mai a saltare sull'altra riva. Il recensore che diviene scrittore si espone ad un alto rischio, anzi almeno a due. Offrire il destro alla vendetta di chi fu a suo tempo stroncato dalle sue parole, e perdere la libertà di potersi esprimere liberamente rispetto alle creazioni dei 'colleghi'.</p><p style="text-align: justify;">Detto ciò, mi sento serenamente tranquillo nel correre il rischio, non tanto per la fiducia in ciò che vado qui sotto a proporvi, quanto per simpatia verso il motto "in fondo si vive una volta sola".</p><p style="text-align: justify;">Per farla breve, ecco la notizia: è uscito per l'editore Diacritica il mio romanzo <i>La felicità è altrove</i>, lo potete <a href="https://bit.ly/3n1IQ3z" target="_blank">scaricare liberamente da qui</a>, ma a quel punto vi toccherà pure leggerlo e se volete commentarlo.</p><p style="text-align: justify;">Mi farà in ogni caso piacere.</p><p style="text-align: right;"><i>(Post di Sebastiano Bisson)</i></p>ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-84505062728002700272020-10-19T12:39:00.003+02:002021-01-13T19:50:36.263+01:00Ed era come un mal di Bosnia #3<p><i><span style="font-family: inherit;">Terza parte</span></i></p><p style="text-align: right;"><span style="font-family: inherit;">(qui trovi <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/04/mal-di-bosnia-1.html" target="_blank">la prima parte</a>, <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/06/mal-di-bosnia-2.html" target="_blank">la seconda</a> e <a href="http://www.ilvoltapagine.com/?fbclid=IwAR3sXhCkKZTqwmRSQISALxaVudLA4hD_R_-Y-e7OrgcdgneLJi3Rqfwde8E" target="_blank">la quarta</a>)</span></p><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;">Bruma e foschia ci accolgono a Jajce, centro della Bosnia Erzegovina; la stufa a pellet nel nostro appartamento è stata accesa da poco, i muri trasudano umido. Insomma si gela. Quella fornace rimarrà in funzione per tutta la notte, con un crepitio continuo intenso e irregolare, una specie di respiro affannoso interrotto da improvvisi accessi di tosse. E noi che abbiamo guardato con sgomento le trapunte sottili poggiate sui giacigli e dunque abbiamo indossato strati di maglioni sopra ai pigiami, ci svestiremo durante un sonno turbolento. Anche Tea sarà continuamente indecisa tra il parquet e l’accoccolarsi sul letto ai piedi di Junior.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br />Scenari inconsueti per sensazioni primarie: freddo e fame; i taralli di viaggio hanno assolto alla loro funzione lungo la via, ma ormai abbiamo bisogno di cibo vero, caldo. In un’aria sospesa usciamo nel deserto cittadino e, costeggiate le mura monumentali, entriamo in centro per uno degli antichi varchi – scopriremo l’indomani che il nucleo originario di Jajce è una strada-segmento tra due porte, l’una di accesso al Nord, l’altra al Sud.</span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: right;"><br /></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; font-family: "Times New Roman"; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEikLenPmx6drP2mm5ofshDtx31bEQit3CrbdLanw7dgyeSd15xo62skBFk-1UeJorwclpbHNx3iw6nc-Jk776eXMthxX5s78839pgVm2MX1gz1Oh1VPti8PyNCLbGUaXsXFZ8nD0r3NUFM/s2048/minareto.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1271" data-original-width="2048" height="249" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEikLenPmx6drP2mm5ofshDtx31bEQit3CrbdLanw7dgyeSd15xo62skBFk-1UeJorwclpbHNx3iw6nc-Jk776eXMthxX5s78839pgVm2MX1gz1Oh1VPti8PyNCLbGUaXsXFZ8nD0r3NUFM/w400-h249/minareto.jpg" width="400" /></a></div><span style="font-family: inherit;"><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px;"><span style="font-family: inherit;">Nell’aria il rumore dei nostri passi e il ticchettio delle unghie di Tea; un nugolo di adolescenti vocianti passa e sparisce veloce come è comparso; costruzioni basse, pietra e legno, malta e canne, tetti spioventi, qui tra una manciata di settimane inizierà a nevicare, parecchio; il piccolo minareto in legno con altoparlante bene in vista. Poche luci soffuse, tranne un angolo illuminato da un bancomat, l’unico elemento a noi familiare in un panorama alieno, una visione alla Juan Miranda di fronte alla Banca di Mesa Verde in <i>Giù la testa</i> di Sergio Leone. La valuta corrente in Bosnia è il marco, valore 51 centesimi di euro, ma noi in tasca abbiamo la nostra moneta unica e le kune croate; richiamo alla mente quanto letto nella guida: “Nei centri più grandi spesso sono accettati anche gli euro, ma potreste ricevere marchi in resto; pos e bancomat sono generalmente molto diffusi”. La macchina elettronica per il prelievo di denaro, l’unico vero punto luminoso sul nostro orizzonte visivo, emana aloni verdi e mistici: vado a procurarmi quattrini autoctoni. E mi ritrovo in mano volti ignoti che mi guardano dal mazzetto di banconote color pastello. Dopo quasi 20 anni di euro, questo fatto dei soldi diversi mi impressiona sempre; proprio come la frontiera, il <i>limes</i> mentale che si fa fisico, tangibile, sotto forma di file di camion, di automobili, di tempo perso.</span></div></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>Fame, necessità di caldo e di cibo: l’altro punto luminoso all’orizzonte è un locale rischiarato da lampioncini. Sarà la via più rapida per nuovi attimi di straniamento e per un ulteriore confronto con il relativismo culturale. «Portate fuori quel cane e andatevene anche voi, immediatamente!»: gli occhi e la bocca dell’oste gridano, ma il suo sguardo luciferino urla ancora di più. Egli presta nel modo peggiore corpo e voce a quanto letto nella guida: Bosnia, luogo moderatamente <i>pet-friendly</i> e, in ogni caso, prima chiedere. Nella bruma di Jajce, non potevamo ancora sapere che Tea a Sarajevo avrebbe riscosso diffuso successo tra grandi e piccini, tanto stupiti ed emozionati nel vederla da richiedere spesso foto e “posso fare una carezza?” nella lingua dei gesti e dei sorrisi. A oggi, rimangono ignote le ragioni di tanta simpatia, se l’aspetto dolce di Tea, se la combinazione tra pelo nero e guinzaglio/imbracatura rosso fiammante, se la sua sola presenza a spasso per le strade di Sarajevo (in effetti, di cani domestici in giro da quelle parti non ne abbiamo visti granché).</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br />A Jajce, in quel momento, però, tutte e quattro usciamo dal locale con la coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Non facciamo in tempo a ripigliarci dal rifiuto che ci viene incontro lui: il cane randagio. Eccola qua, l’altra questione critica segnalata dalla guida, materializzata davanti a noi nel cupo deserto novembrino della città alle ore 22. Un enorme placido arruffato cane fulvo, dal muso bonaccione e dalle zampe corte. Calma e gesso, sembra tranquillo, annusa tutte, continuiamo a camminare; Tea per indole ostenta indifferenza e contegno aristocratico, non un abbaio non un ringhio; nessuno fiata, né umani né mammiferi a quattro zampe. Poi Junior, con abile e calma manovra, si prende in braccio la barboncina: siamo nel frattempo arrivate a una panetteria, ma vista la reazione dell’oste di poco fa, meglio non rischiare, loro rimangono fuori insieme al randagio fulvo, più curioso che aggressivo.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br />Morale: consumiamo la lauta cena acquistata a caso – impossibile decifrare i cartellini esplicativi in bosniaco – a base di pane al burro, pane al sesamo, pane dolce, una specie di rustico, accasciate sul divano della nostra momentanea casa, in compagnia della stufa a pellet ribattezzata Efesto.</span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: right;"><i><span style="font-family: inherit;">(Post e foto di Eva Ponzi)</span></i></div><div style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><div style="text-align: left;"><strong><span style="font-family: inherit;"><br /></span></strong></div><div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit;"><b>Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)</b></span></div><div style="text-align: left;"><i><span style="font-family: inherit;">Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto</span></i></div></div>Eva Ponzihttp://www.blogger.com/profile/11340780819577294809noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-43326136002366671082020-09-25T09:35:00.000+02:002020-09-25T09:35:35.197+02:00Come sarebbe, buffo?<p style="text-align: justify;">Quando nella notte dei tempi gli elfi neri quattrocchi forgiarono, invece di martelli frantumatori, le Frasi Fatte da disseminare ad ogni anfratto di mondo per soccorrere l'esigenza di sintesi da parte di spettatori esultanti, non mancarono di pensare al tizio (<i>moi</i>) che, una manciata di exaannum dopo, alla fine della visione integrale della serie tv <a href="https://www.hbo.com/the-sopranos" target="_blank">«I Soprano»</a>, si sarebbe trovato ad esclamare: "Ecco, Friðþjófr, un'opera-degna-della-sua-fama".</p><p style="text-align: justify;">Rimandavo il recupero perché ad un certo momento i film di mafia m'erano andati in uggia, poi quasi un anno fa son partito e fui da subito avvinto tra le spire dell'artefice David Chase (fu De Cesare), Minosse dalla lunga coda e la smorfia risentita a stanarmi vizi condivisi e simpatie sospettosamente riposte, fin da subito tra le sue spire fui avvinto tanto che <b>per protrarre il disagevole godimento ho inframmezzato le sei stagioni</b> con altre serie più recenti. Quindi c'è stata, grazie dio, la prima stagione di <i>Legion</i> (come una coppa gelato after eight con spruzzi di panna montata), una gran baldoria di scrittura regia recitazione (le prime tre stagioni di <i>Better Call Saul</i>), la prima stagione di <i>Mr. Robot</i> (esteticamente soggiogante ma dagli assunti parassitari e dai proclami paludosi), <i>The Leftovers</i> per intero (serie che s'incaparbisce nel farti cacciar fuori lacrime come un allevatore sadico strizza l'ultimo latte da una vacca stenta, ma c'è Carrie Coon), e giù ad incappare nell'occasione sprecata (la prima stagione di <i>Penny Dreadful</i>), nello 'stiabnormicazzi (la prima di <i>Big Little Lies</i>), e nel ludibrio (l'ultima di <i>House of Cards</i>). </p><p>E in <i>The Young Pope</i>. </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJ-dO4OQ__D8AJcG7-sAIgPb3sj6W3BtoExFIMEDu3FymhT2jDrbApuWZ5Sg8g_4wZ6HYnjgPRItxiZ_IEqYDvUcbcp_nhXNqsv0t2EvmEq43FGntY_moovrmv2YZC8MFXNt4Yi2DsjjM/s1200/soprano.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="Soprano" border="0" data-original-height="675" data-original-width="1200" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJ-dO4OQ__D8AJcG7-sAIgPb3sj6W3BtoExFIMEDu3FymhT2jDrbApuWZ5Sg8g_4wZ6HYnjgPRItxiZ_IEqYDvUcbcp_nhXNqsv0t2EvmEq43FGntY_moovrmv2YZC8MFXNt4Yi2DsjjM/w640-h360/soprano.jpeg" width="640" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">La visione di tutte queste serie aveva comunque un fine interlocutorio, un modo per riprendere fiato dalla chiassosa funerea sarabanda italoamericana, che è stata fucina di talenti (vi hanno scritto Matthew Weiner creatore di <i>Mad Men</i> e il Terrence Winter di <i>Boardwalk Empire</i>, entrambe stupende variazioni sul tema della serie di Chase ma che, a differenza di quest'ultima, pur sfoggiando uno sfondo maggiormente variegato e cangiante, non hanno mancato di girare a vuoto per lunghi tratti: mai è successo con <i>I Soprano</i>, che subito ti disarma subissandoti di parole e ti stende con le ininterrotte sventagliate della sua turbinosa umanità - gli impulsi frenati per sessanta minuti e infine sfogati immancabilmente a danno altrui, le montagne russe dei sentimenti, almeno un'ammazzatina a puntata, le sfuriate epocali e le richieste di perdono e di affetto, effimere, un'eterogeneità di registri armonizzati in un distintivo e compatto contrappunto intonato da un coro di voci sovreccitate), influente sulla TV a venire ma ancora coi piedi in quella passata, con le trame verticali (magari non sempre convincenti ma quasi mai a perdere grazie a conseguenze che ricadono a distanza di stagioni intere, rielaborazioni in sogno e nel delirio, e le sempre ben centrate apparizioni fantasmatiche) e la regia al servizio della scrittura (confezione sempre più sofisticata ma che mai s'infighetta nella stilosità che tenta di compensare la scarsezza dell'impianto). </p><p style="text-align: justify;">Sei stagioni per giungere alla conclusione che non si cambia per un cazzo. <b>O se si cambia, lo si fa in peggio</b>. </p><p style="text-align: justify;">Il pessimismo di David Chase innerva tutti gli snodi narrativi giunti o meno alla loro risoluzione, e contempla tutti i personaggi nel momento in cui li si lascia sulla scena (tutti i personaggi! pure i figli per cui ci si giustifica nell'obbrobrio: futuri adulti senza personalità, opportunisti e inconcludenti), la consapevolezza di sé (quel che distingue l'uomo dalla bestia) è un intralcio all'esistenza, nei rapporti con chi amiamo siamo tutti un po' mafiosi, un po' strozzini, quando non ci rassegniamo al fatto che ai nostri sentimenti non si risponda nel modo che esigeremmo, il senso di colpa per quanto vagamente sofferto è un fastidio, e alla terapia psicoanalitica che pretenderebbe di riacciuffare la stabilità emotiva dal caos della notte della mente è riservato un anticlimax beffardo che lascia attoniti.</p><table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><tbody><tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhm8Tr8FNAyk_15Q9XvgFjcfl8amOnoddOlnobgeuiUGwlSQih86AFh9WSmUf1SVSIR5x-F4UD6_K-OEODZdDkb2VN9xEREpzZsE3fXpxZeW9fXna-zzka5zrxum5LaKN4Jt82vkmiPmkc/s1600/chase.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img alt="David Chase" border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhm8Tr8FNAyk_15Q9XvgFjcfl8amOnoddOlnobgeuiUGwlSQih86AFh9WSmUf1SVSIR5x-F4UD6_K-OEODZdDkb2VN9xEREpzZsE3fXpxZeW9fXna-zzka5zrxum5LaKN4Jt82vkmiPmkc/w640-h360/chase.jpg" title="Lo sceneggiatore David Chase" width="640" /></a></td></tr><tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><i><span style="font-size: x-small;">Lo sceneggiatore David Chase</span></i><br /></td></tr></tbody></table><br /><p style="text-align: justify;">E il bello è che questa visione di degrado esistenziale non è ridondata dal tono generale, mai le battute perdono lo smalto della migliore commedia, mai i caratteri si involvono nella sterile autocommiserazione, fino alla fine ci si appassiona, e <b>si ride, si ride amaro e si ride bastardo e si ride macabro</b>, mi sfugge di dire: «E' proprio buffo», e Chase si fa di colpo serio: «Come sarebbe, buffo?... Buffo come un pagliaccio, ti diverto? Ti faccio ridere? Sto qua per divertirti? Come sarebbe, buffo?». Mi si ghiacciano i ventricoli cardiaci al solo pensiero di quella sua smorfia risentita. </p><p style="text-align: justify;">Questo per marcare la differenza con il Refn di <i>Too Old to Die Young</i> il quale (fuor dei benvenuti momenti di farsa e delle derive visionarie) pareggia stile e contenuto, illumina il suo mondo con neon che hanno i colori della decomposizione che si riflettono sulla bava che cola a ventaglio in punta di mento dello spettatore esanime davanti al pc, e doppia la violenza pervasiva del contesto con una retorica da trombetta dell'apocalisse, alla lunga finendo per assomigliare non ad un profeta di sventura ma al compagno di classe emo che hai imparato a tenere a distanza non solo perché ha l'alito che puzza di Geenna e ascolta musica nefanda ma perché il rettotono è la fiamma bassa sui cui cuociono le tue uova barzotte.</p><p style="text-align: justify;">Il teatro di Chase invece, per quanto il senso di accoramento sia alla fine della fiera debordante, è percorso da un vitalismo che mai demorde, per quanto si muoia sparati, sgozzati, con la mascella divelta dopo averle fatto mordere il marciapiede, esplosi, accoltellati, pestati a morte e con una mazza da baseball infilata su per il retto, avvelenati, soffocati nel proprio sangue, col laccio o con le mani-tenaglie al collo, gettati ai pesci o nella calce viva, per quanto ci si inculi col sorriso, tutti lì s'affannano a vendere cara la pelle e nel frattempo ad intrattenere l'ospite spettatore, il taglio realistico è stilizzato in copioni d'altissima fattura, alcune puntate si aprono con dissolvenze dal nero emozionanti quanto il lento spalancarsi di un sipario, si recupera dalla ritualità antica l'alternanza di convivio ed esequie, <b>ci si immedesima in Corrado Junior come in Iago</b>. E noi si assiste con la spiccia volubilità che, nel giro di due inquadrature, passa dall'empatia per questa torma di assassini e merde umane al bramare che una nemesi tremenda si abbatta presto sugli stessi, e sui cari che li circondano, fradici di arroganza egotismo avidità insipienza e ipocrisia, quanta ipocrisia...</p><p style="text-align: justify;">Comunque c'è tanto e tanto e tanto di cui stupirsi e di cui <b>applaudire in questi 86 episodi</b>, dall'incipit con lo starnazzare delle anatre nella piscina di casa Soprano all'ineluttabile trillo del campanello all'ingresso del diner, e quel primo piano segato via che è la migliore delle chiuse, in assoluto.</p><p style="text-align: justify;">Le ultime parole le dedico al mio personaggio preferito, un concentrato di spregevolezza dietro un faccione simpatico. Una figura esemplare in quanto la sua stronzaggine è a quanto pare gratuita (non ha la mente psicopatica di Paulie né l'animo dissestato di Christopher, non deve far fronte alle responsabilità del consigliere Silvio né ha ragione di considerarsi un guerriero in una guerra atavica come Tony), e non basta essere consapevoli da che famiglia è stata generata. Agisce da carogna come respira, e ci si chiede se dietro quegli occhi scuri spiri nel vuoto l'ottusità o dilaghi la disperazione. </p><p>È Janice Soprano, la sorella maggiore del boss, che dio ce ne scampi.</p><p style="text-align: right;"><i>(Post di Giovanni Grandi)</i></p>ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-76932728343629282772020-06-01T12:57:00.005+02:002021-01-13T19:45:07.683+01:00Ed era come un mal di Bosnia #2<div><i>Seconda parte</i></div><div style="text-align: right;">(qui trovi <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/04/mal-di-bosnia-1.html" target="_blank">la prima parte</a>, <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/10/mal-Bosnia-3.html" target="_blank">la terza</a> e <a href="http://www.ilvoltapagine.com/?fbclid=IwAR3sXhCkKZTqwmRSQISALxaVudLA4hD_R_-Y-e7OrgcdgneLJi3Rqfwde8E" target="_blank">la quarta</a>)</div><div style="text-align: right;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La guida c’è, la mappa stradale pure, ma la Bosnia, la Bosnia… Solo pensieri sparsi, senza una coerenza. Paolo Rumiz. Cercare tra i suoi libri le parole per il viaggio. <i>La cotogna di Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna</i>. Primo foglio bianco, in alto a destra a lapis: Eva, Lecce, 28-II-11. Altro viaggio intenso. Tore e io ci eravamo addottorati mesi prima, quello era il turno di Chiaretta, si chiudeva una fase della vita, ma noi ancora non lo sapevamo; brindammo, mangiammo e ci divertimmo come sempre era accaduto in tutte le nostre trasferte salentine degli anni precedenti. Ora mi accorgo che quella è stata anche la mia ultima volta laggiù. Aver ripreso in mano oggi <i>La cotogna</i> è un cerchio che si chiude (ma il Salento e il cerchio chiuso sono un’altra storia). Ho messo Rumiz in valigia insieme a una pila di maglioni di lana. Lo avrei riaperto, ri-commovendomici sopra, solo nelle notti di Sarajevo.</div><div><br /></div><div style="text-align: justify;">Viaggiare di sera, incontro alla notte, in un posto del quale sfugge qualsiasi coordinata, ha un effetto straniante. Il tempo si espande, il paesaggio sparisce e con esso ogni riferimento, solo la strada illuminata dai fari al di là del parabrezza rimane reale, concreta. La strada, il rumore del motore, tutta la parte femminile della mia famiglia in macchina con me, il respiro di Tea placida sul sedile. L’asfalto, la mappa stradale bene in vista, il buio, ognuna di noi pensava pensieri suoi, ci avvolgeva l’oscurità; io lo sentivo che eravamo in apprensione perché l’andare sembrava lungo e la domanda “sarà la strada giusta?” di notte ha tutta un’altra intonazione. Mi sono decisa ad attivare il navigatore informatico, che è stata un poco una resa all’inquietudine e un poco un’illusione di controllo su una geografia ignota. Jajce era a metà strada. Noi percorrevamo una striscia di asfalto chiusa a sinistra dal fiume Vrbas – bagliori neri quando il suo corso diveniva perpendicolare alla nostra via – e a destra da uno sperone roccioso alto e continuo, presenza incombente solo percepita. Acqua asfalto roccia acqua asfalto roccia, sporadiche luci, acqua asfalto roccia, aggregati di casette, acqua asfalto roccia, piccole centrali idroelettriche, acqua asfalto roccia. Un paesaggio che di giorno sarebbe stato mozzafiato.</div><div><br /></div><div style="text-align: justify;">La Vrbas ci indicava la direzione verso Jajce, quasi al centro del paese, città della Federazione di Bosnia ed Erzegovina appena dopo il confine interno con la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (la geopolitica da quelle parti è ancora un affare complesso e di ardua comprensione).</div><div><br /></div><div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQkNbe69lJAJokqPmPOqTqGN4-Xb4hVMOtH6xpo2FvIhyxDZasYHe8jqRISBdNNose4PLpB76-Au-6ad569GtJHRu15LFa3hjtmDqpOf_y59DeuGdaox4qWIE_pbnGQfwNJx8sTSU_C90/" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="726" data-original-width="1000" height="290" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQkNbe69lJAJokqPmPOqTqGN4-Xb4hVMOtH6xpo2FvIhyxDZasYHe8jqRISBdNNose4PLpB76-Au-6ad569GtJHRu15LFa3hjtmDqpOf_y59DeuGdaox4qWIE_pbnGQfwNJx8sTSU_C90/w400-h290/cascate+Jaice.jpg" title="Le vie d'acqua di Jaice" width="400" /></a></div><div style="text-align: justify;">L’acqua era la via: <i>mirabilia</i> di Jajce è infatti un sistema di cascate naturali che segna il centro cittadino, laddove la Vrbas confluisce con la Pliva, perché la storia di queste terre è anche storia di fiumi che si rimescolano di continuo e il nome stesso del paese è preso in prestito da uno di essi, la Bosna. L’alone di umidità all’orizzonte, oltre il parabrezza, annunciava la meta, in perfetta corrispondenza con quanto segnalato dal navigatore informatico. Jajce, ore 21.00 circa, novembre, un presepe deserto e brumoso. Ci siamo guardate un poco attonite, negli occhi di tutte un interrogativo: ma dove siamo? L’impressione di essere state prese e catapultate in una diversa dimensione spazio-temporale. Totale silenzio, luci basse, foschia diffusa, fame molta, curiosità mista a sorpresa, le mura della città vecchia, una piccola moschea con minareto di legno. Abbiamo iniziato a ridere. Tea ci osservava, con la sua testina mobile piena di occhioni neri dietro al pelo perennemente arruffato. Chissà lei cosa stava pensando.</div></div><div><br /></div><div style="text-align: right;"><i>Post di Eva Ponzi</i></div><div style="text-align: justify;"><i><br /></i></div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: left;"><strong><span style="font-family: inherit;">Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)</span></strong></div><div style="text-align: left;"><i><span style="font-family: inherit;">Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto</span></i></div></div><div style="text-align: right;"><i><br /></i></div>ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-88553891884059209742020-04-08T15:03:00.007+02:002021-01-13T19:44:22.433+01:00Ed era come un mal di Bosnia #1<div style="text-align: center;">
<div style="text-align: left;">
<i>Prima parte</i></div>
</div>
<div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">
Al tramonto, il muezzin ci ha sorprese sulla Sava che tiene insieme i Balcani in orizzontale prima di arrivare a mescolarsi con il Danubio. La Sava, confine naturale, burocratico, delirante, tra Croazia e Bosnia Erzegovina. Tra l’Unione Europea, seppure lì ancora a ‘statuto speciale’, e un luogo localizzato con incertezza sulla nostra mappa mentale del Continente. Abbiamo attraversato il ponte sul fiume, intercapedine / spazio franco / lingua di congiunzione, e il richiamo serale alla preghiera ci ha avvisate che un mondo diverso ci si stava facendo incontro.
Ignare che la profondità balcanica aveva appena iniziato a rimodellarci.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1AzJH7e59RpwvY872kVp_REanDb9YbZniSXlhlThgERTI-NxVy3M_SPanqs6r-A-RJ-fL_SZm20oNvvVcRG3d5uoez4PNBdAYyB79T7-DhLq58IPC4vrYrUuVdb2u8JjhmJLGc1V1rdk/s1600/copertina+guida+bosnia.png" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1AzJH7e59RpwvY872kVp_REanDb9YbZniSXlhlThgERTI-NxVy3M_SPanqs6r-A-RJ-fL_SZm20oNvvVcRG3d5uoez4PNBdAYyB79T7-DhLq58IPC4vrYrUuVdb2u8JjhmJLGc1V1rdk/s320/copertina+guida+bosnia.png" width="266" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="text-align: justify;">Un viaggio quasi alla cieca, quasi improvvisato, senza il tempo sufficiente per inserire in un contesto più preciso cose sparse come: la guerra degli anni ’90, gli Ottomani, Gavrilo Princip e Franz Ferdinand, Bregović e Kusturica (nel frattempo naturalizzato serbo, perciò no, Kusturica va espunto dall’elenco), la Jugoslavia e la fine del Comunismo, i bosniaci.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
Nessuna guida verde Touring in soccorso: della Bosnia Erzegovina, semplicemente, non esiste. «Tra tutti i paesi dei Balcani, è il meno turistico», mi spiega l’omino Touring del punto Touring in piazza Santi Apostoli a Roma, la miniera dalla quale normalmente attingo prima di partire. Ripiego allora sull’unica documentazione possibile, un volumetto tascabile, ma non leggero, di carta lucida con pagine fitte di un carattere tipografico minuscolo: Marco Vertovec, <i>Sarajevo e la Bosnia Erzegovina</i>, anno 2019. Lo sfoglio un poco per coglierne il grado di affidabilità; leggo qua e là, noto che è pieno di dettagli, di minuziose proposte di itinerario, di cartine e di piccole mappe. Lo prendo, insieme all’immancabile gigantesca carta stradale, ché noi siamo veteroviaggiatrici e googlemap è solo per i momenti di sperdimento (non potevo saperlo, ma stavolta il navigatore informatico sarebbe stato di grande aiuto al navigatore umano, cioè io nel ruolo che mi è consueto in queste occasioni).<br />
<br />
Informazioni utili e usanze gastronomiche, le prime letture appena apro la guida di un paese o di una città che non conosco.<br />
Informazioni utili (cito a memoria, qui e oltre): «Se pensate di addentrarvi in uno degli innumerevoli e suggestivi percorsi che caratterizzano le colline di Sarajevo, fatevi accompagnare da qualcuno che conosce bene i luoghi. Il territorio non è ancora del tutto bonificato dalle mine». Va bene, forse ho letto male, riprendo il periodo daccapo. «Se pensate di addentrarvi … mine». Ah.<br />
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMLfvYwyloIAKBtWADQrBxmusMrOGdwXhUgts8eZi-vzgy96-IbZ8u0EDgztAA0CclPiUFqmtTjhVvWgHZfMNP1kQk4ttB45_fP0dRh6jZx8207lvVtVpy_B4o089FVY98LZdC3BqsLoQ/s1600/Tea_2.jpg" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="756" data-original-width="567" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjMLfvYwyloIAKBtWADQrBxmusMrOGdwXhUgts8eZi-vzgy96-IbZ8u0EDgztAA0CclPiUFqmtTjhVvWgHZfMNP1kQk4ttB45_fP0dRh6jZx8207lvVtVpy_B4o089FVY98LZdC3BqsLoQ/s320/Tea_2.jpg" width="240" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Tea, di spalle</td></tr>
</tbody></table>
Continuo a leggere: «La Bosnia Erzegovina è da tempo afflitta dal problema dei cani randagi; le autorità stanno tentando di porvi rimedio, ma le difficoltà sono ancora molte. Muovetevi perciò con cautela in caso di incontri ravvicinati del terzo tipo e siate ancora più prudenti se avete un cane con voi». E con noi, per la prima volta nella storia della nostra famiglia, un cane in effetti c’è. Bene.<br />
Proseguo: «Rispetto agli standard ai quali siamo generalmente abituati, in Bosnia Erzegovina cani e luoghi pubblici vivono un rapporto molto dialettico. Ricordatevi sempre di chiedere se il cane può fare con voi ciò che voi vi accingete a fare». Già, penso, per l’Islam i cani sono animali impuri – benché permangano controversie interpretative al riguardo – e la Bosnia Erzegovina è un paese a maggioranza musulmana.<br />
Aggiungo all’elenco delle ‘cose senza coordinate’: mine, cani randagi, <i>pet-friendly</i> con moderazione, Islam.<br />
Sulle usanze enogastronomiche per ora soprassiedo, ma posso senz’altro affermare che, al pari della turca, la cucina bosniaca è tra le migliori e più commoventi del nostro Continente (almeno tra quelle che ho avuto occasione di assaggiare).<br />
<br />
Abbiamo tagliato il paese in verticale, prima verso sud poi verso nord per due diverse direttrici, su impeccabili autostrade e strade statali (lo ammetto, ne sono rimasta sorpresa). I fiumi che reticolano quelle terre ci hanno sempre segnalato il percorso, infuocato dall’autunno. In alcuni momenti, abbiamo constatato divertite che tutto ci sembrava Umbria; ma i cimiteri, diffusi ovunque, ci ricordavano di continuo che eravamo in un diverso centro geografico.<br />
Tre donne e una cagnetta on the road, e le soste tecniche divengono subito epica. La scelta casuale dettata dalla necessità ci ha portato in locali di dubbia frequentazione, tutta maschile, tutta alcolica, tutta densa di fumo, tutta composta, in un’aria spesso satura di musica techno-balcanica sparata a volumi indicibili. La qual cosa si è rivelata un vantaggio: voce e orecchie diventano inutili perciò l’assenza di una lingua in comune non è più un problema, i gesti rimangono l’unica via di comunicazione praticabile.<br />
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: right; margin-left: 1em; text-align: right;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt1AQ78fxFhrQQl05YIO9zbnqmdDvRu-auwsV9aidpjugJtmC7z9NvYmRSQ0UQy8BGE_EGaIrOObJ_QWqT6hyxBzaGIOJzI07D6URjA-kur62Izd9oZ_owvdbVR2riDyCHj8yMVD2hb5I/s1600/mura_2.jpg" style="clear: right; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="330" data-original-width="510" height="207" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt1AQ78fxFhrQQl05YIO9zbnqmdDvRu-auwsV9aidpjugJtmC7z9NvYmRSQ0UQy8BGE_EGaIrOObJ_QWqT6hyxBzaGIOJzI07D6URjA-kur62Izd9oZ_owvdbVR2riDyCHj8yMVD2hb5I/s320/mura_2.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Jajce</td></tr>
</tbody></table>
Il copione era questo: io, Senior, andavo in avanscoperta, Junior teneva Tea, Seniorsenior attendeva il cenno ‘si può fare’. Aprivo la porta, sorridevo, entravo con cautela nel tentativo di cogliere l’insieme del panorama. Sospensione di perplessità al mio ingresso, teste ruotate, archi sopraccigliari aggrottati e occhi stretti tra le palpebre, sguardi da saloon, gesticolavo «abbiamo bisogno di un bagno + c’è un cane con noi», ancora sospensione. Quindi iniziava la fase di reciprocità nella comunicazione, con braccia e dita mosse all’indirizzo della toilette. Si può fare. Commiato: il Mediterraneo incontra l’Entroterra. Il nostro festival labiale di <i>hvala hvala</i> (grazie grazie) tra mezzi inchini e diversi sorrisi trovava in risposta lievi cenni del capo e un’aspirata di sigaretta. Ospitalità discreta, gratuita, con sapone-carta igienica-fazzoletti per asciugarsi le mani sempre al posto giusto e ogni volta, immancabilmente, fare i conti con il proprio pregiudizio, ché siccome si è nel nulla nel mezzo della Bosnia si pensa che le toilette debbano essere borderline come quelle nostrane. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">[qui trovi la <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/06/mal-di-bosnia-2.html" target="_blank">seconda parte</a>, la <a href="http://www.ilvoltapagine.com/2020/10/mal-Bosnia-3.html" target="_blank">terza</a> e la <a href="http://www.ilvoltapagine.com/?fbclid=IwAR3sXhCkKZTqwmRSQISALxaVudLA4hD_R_-Y-e7OrgcdgneLJi3Rqfwde8E" target="_blank">quarta</a>]<br />
<span style="text-align: right;"><i><br /></i></span>
<span style="text-align: right;"><i>Post e foto di Eva Ponzi</i></span><br />
<div style="text-align: right;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<div style="text-align: left;">
<strong>Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)</strong></div>
<div style="text-align: left;">
<i>Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto</i></div>
</div>
<div style="text-align: right;">
<br /></div>
</div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-22852988537154501612020-03-21T17:23:00.002+01:002020-03-21T17:24:43.424+01:00Consigli di lettura in tempi di clausura<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIIXJH9-QBR7UlaOnvmIfTgOWN0FYOVV5OJ4hy2yCUXRhkHEGH45SGl2TcJBZ6h2LvnQBnO2tw4PgL1DhVl4KNTIV1XYTLT5o75RNxudBwgfNwIM2kRm7bvn2RgwQnr1Pl_ecFNCmuxsI/s1600/lettrice.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="542" data-original-width="407" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIIXJH9-QBR7UlaOnvmIfTgOWN0FYOVV5OJ4hy2yCUXRhkHEGH45SGl2TcJBZ6h2LvnQBnO2tw4PgL1DhVl4KNTIV1XYTLT5o75RNxudBwgfNwIM2kRm7bvn2RgwQnr1Pl_ecFNCmuxsI/s320/lettrice.jpg" width="240" /></a>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Al tempo del Corona Virus gli inviti ad andare a pescare un buon libro si sprecano. Sarebbe bello se <span style="text-align: justify;">questa buona pratica sopravvivesse al virus, ma già sappiamo che probabilmente non sarà così, come per tante altre cose buone che nella disgrazia conosceremo e impareremo. Ad ogni modo cogliamo l'attimo, e il bene che ne consegue, per il momento è il meglio che possiamo fare.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
Il punto piuttosto è: con tutto questo tempo, finalmente cosa leggo? Sento pareri arrivare da chiunque, sembrano grandi esperti, tuttavia segnalo che per avere contezza di quel che si propone, bisognerebbe aver letto anche prima del Covid-19, altrimenti si rischia di fornire consigli imprecisi e giudizi parziali. Sentivo qualcuno stamattina alla radio che lanciava delle pillole di letteratura e incidentalmente è saltato fuori il titolo di un romanzo «in cui si bruciavano i libri, quello di Truffaut, Fahreneit...» e poi un numero intero a caso. Un filino impreciso.</div>
<div style="text-align: justify;">
Per dare un contributo modesto, ma puntuale, trovate in fondo elencati alcuni titoli recensiti nel corso dei dodici anni di vita del VoltaPagine, titoli dei quali ancora serbo un ottimo ricordo, per cui possono diventare suggerimenti con un minimo di solidità alle spalle. </div>
<div style="text-align: justify;">
Ma come procurarsi i libri? Le librerie on-line mi risultano siano attive, però certo non saprei garantire sui tempi di consegna. Allora potrebbe essere l'occasione per sperimentare la lettura di un ebook, scegliendo appunto di scaricarlo sul computer o sul tablet tramite uno dei vari negozi on-line. Altrimenti verificate i servizi di prestito digitale offerti da diverse biblioteche, come ad esempio l'<a href="https://emilib.medialibrary.it/" target="_blank">Emilia Digital Library</a>. Una volta recuperato l'ebook, per leggerlo vi basterà aver installato <i>Adobe Digital Editions</i>, un software gratuito che potete <a href="https://www.adobe.com/it/solutions/ebook/digital-editions/download.html" target="_blank">scaricare qui</a> o dallo store del tablet.</div>
Ed ecco la selezionata dozzina con relativa recensione:<br />
<br />
Niccolò Ammaniti, <i>Che la festa cominci</i>, Torino, Einaudi, 2009<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2011/10/come-toccare-il-fondo-ridendoci-su.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Muriel Barbery, <i>L’eleganza del riccio</i>, Roma, e/o, 2007<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2008/11/la-camelia-sul-muschio.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Thomas Brussig, <i>Litania di un arbitro</i>, Roma, 66thand2nd, 2009<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2010/09/il-trono-e-il-fischietto.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Omar Di Monopoli, <i>Uomini e cani</i>, Milano, Isbn, 2007<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2009/11/per-non-parlar-del-cane.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Frans Kellendonk, <i>Corpo mistico</i>, Villa San Secondo (AT), Scritturapura, 2007<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2011/03/una-trinita-moderna.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Amos Oz, <i>Una storia di amore e di tenebra</i>, Milano, Feltrinelli, 2003<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2010/05/i-ricordi-di-oz.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Paolo Piccirillo, <i>La terra del sacerdote</i>, Vicenza, Neri Pozza, 2013<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2014/08/il-sangue-che-bagna-la-terra.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Claudio Piersanti, <i>Il ritorno a casa di Enrico Metz</i>, Milano, Feltrinelli, 2006<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2009/05/le-sirene-del-manager.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Carlos Ruiz Zafón, <i>L'ombra del vento</i>, Milano, Mondadori, 2004<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2012/02/lo-scrittore-scomparso.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Carola Susani, <i>Eravamo bambini abbastanza</i>, Roma, Minimum Fax, 2012<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2013/04/un-mondo-di-estremi.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Giorgio Vasta, <i>Il tempo materiale</i>, Roma, Minimum Fax, 2008 (segnalo anche la graphic novel tratta dal romanzo: Luigi Ricca, <i>Il tempo materiale</i>, Latina, Tunué, 2012)<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2013/08/quando-schierarsi-e-una-necessita.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
Enrique Vila-Matas, <i>Dublinesque</i>, Milano, Feltrinelli, 2010<br />
<a href="http://www.ilvoltapagine.com/2013/04/addio-alleditore.html" target="_blank">Leggi la recensione</a><br />
<br />
<br />ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-11605964424197322602020-03-08T14:45:00.000+01:002020-04-08T14:55:35.094+02:00Il destino del Milite Eterno<br />
<div style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUYoAZIbiYgYthZCQ-mO6XZhB-5IR2LzTLOIKLb6JOEzBy1dFQUaDnNuaKfRCUN1_PcsFRMa0jkpcPkNgk3ReJff12Yy7XjR22O5FgUpfXHA41ZlqqQ8Uz9IxGVipYSpNe0resQQQHVlg/s1600/1917.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img alt="" border="0" data-original-height="1000" data-original-width="631" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUYoAZIbiYgYthZCQ-mO6XZhB-5IR2LzTLOIKLb6JOEzBy1dFQUaDnNuaKfRCUN1_PcsFRMa0jkpcPkNgk3ReJff12Yy7XjR22O5FgUpfXHA41ZlqqQ8Uz9IxGVipYSpNe0resQQQHVlg/s400/1917.jpg" title="" width="251" /></a>Per quel che ne so (ho smesso coi videogiochi a dieci anni, avevo l'Atari 2000, ricordo le partite di tennis in cui la palla era un quadratino bianco che passava da una parte all'altra della rete divisoria e quando il giocatore - che era una lineetta - lo colpiva faceva puk ... puk ... puk ... puk ... nel silenzio del sepolcro: ai tempi ancora nessun variegato brusio di sottofondo da parte del pubblico tifoso) il videogioco consiste di base in un avanzare implacabile da una situazione all'altra superando ostacoli. Per cui sì, il riferimento alle dinamiche dei videogiochi in <i>1917</i> di Sam Mendes c'è - se ne ha piena contezza quando uno dei due giovani soldati chiede all'altro a malapena sopravvissuto al crollo della tana tedesca: «Vuoi continuare?» e la domanda potrebbe pulsare sulla parte alta dello schermo: sì o no? - ma il riferimento è consapevole, e consapevolmente lo si contrasta nella sua essenza di immersività e sguardo proiettato in avanti, come in quel momento appena dopo la morte di uno dei due giovanotti, mentre se ne trasporta il cadavere nel giaciglio di erba folta si scorge sullo sfondo l'orto dei ciliegi che i due poco prima avevano attraversato chiacchierando inconsapevoli e il film ti spinge a risalire mentalmente il filo della loro corsa vissuta in un ininterrotto piano sequenza e pensare: in quel punto (di uno spazio e di un tempo che lì a due passi paiono ancora vibrare della presenza di entrambi) il giovane che rievocava il pollice verde della madre ora giace grigio in faccia nell'erba folta, così riuscendo ad acuire la percezione non solo dell'indeterminatezza dell'esistenza ma della sostanziale ambivalenza di vita o morte del ruolo di Milite Ignoto.</div>
<div style="text-align: justify;">
Quando è iniziato il film mi ero ripromesso di badare al lato tecnico immaginandomi a fianco della mdp del magno Deakins ma ad un certo punto mi son lasciato sfuggire l'intento, questo significa che mi ha coinvolto emotivamente (a proposito di Mendes rammento bene che <i>Era mio padre</i> mi aveva lasciato freddo quanto le cosce di una strega strette alla sua scopa in volo nel cielo sopra Pendle Forest), però non credo che il fine sia quello di smuovere l'emotività. Per questo il riferimento al videogioco non ha nulla di importuno, fa riflettere anzi sul <i>loop</i> in cui i soldati si prestano a farsi carne da macello, è rappresentazione stilizzata di un universo chiuso qui senza possibilità di interazione in cui più che le gesta contano le ambientazioni elegiache o di infernale onirismo o di stasi, tutti fermi ad ascoltare un canto funebre e fidente in un aldilà che si teme non spezzi affatto il filo narrativo che tutti imbriglia, e l'apparizione fantasmatica di vittime civili figlie di nessuno, ciascuno interpretando il proprio ruolo come gli automi nei parchi a tema di <i>Westworld</i> ma senza speranza di emancipazione, e il finale non concede per nulla il sospiro di sollievo di un game over, rimarcando la condizione di emergenza e vulnerabilità senza sbocco del Milite Eterno.</div>
<br />
<br />
<b><i>1917</i>, regia di Sam Mendes - 2019</b><br />
<div style="text-align: right;">
<i>Post di Giovanni Grandi</i></div>
<div style="text-align: right;">
<i><br /></i></div>
<div style="text-align: right;">
<i><br /></i></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-15687985311046596712020-02-05T18:57:00.000+01:002020-02-06T08:10:35.549+01:00Viva viva viva l'Inghilterra<div style="text-align: justify;">
Della prima volta ricordo i monumenti – già mitici per via di letture infantili, su tutte <i>In giro per il mondo</i> di Richard Scarry, e per i racconti di viaggio dei nonni –, gli scoiattoli nei parchi e gli orribili panini che ci preparavano i nostri ospiti, pieni di quel formaggio fatto a vermicelli che ancora oggi genera in me un persistente ribrezzo. Gli impianti sportivi della scuola, dove davo sfoggio delle mie abilità di tennista mancina, e i cimiteri curati e sobri; gli enormi gabbiani con i quali di tanto in tanto condividevo il <i>fish and chips</i>, mangiato sulla spiaggia di fronte a un mare freddo e spesso agitato. Entrarono di diritto nella categoria mirabilia anche gli assorbenti distribuiti automaticamente nei bagni delle ragazze, pensai che fossero testimonianza di una civiltà avanzata, nonostante poi vivesse con la moquette dentro casa, ovunque.</div>
<div style="text-align: justify;">
Partii con l’Agatha Christie di <i>Poirot a Styles Court</i> e la guida verde Touring nella borsa (gli adulti accompagnatori trasecolarono), i Beatles di <i>Abbey Road</i> e i Queen di <i>A night at the Opera</i> nel walkman (unica, in tutto quel gruppone di tredici-quindicenni che impazzivano per gli Ace of Base di <i>All that she wants</i>, senza che questo fortunatamente scuotesse le mie fondamenta adolescenziali).</div>
<div style="text-align: justify;">
Ancora non sapevo che si trattava forse della prima manifestazione di una abitudine che conservo ancora oggi: per il viaggio, musica e libri evocativi.</div>
<div style="text-align: justify;">
Tornai che naturalmente non conoscevo una parola in più della lingua, ma mi ero misurata con tutto il resto.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
L’impatto fu tanto forte che una manciata di anni dopo l’intera famiglia partì alla volta dell’Isola; ci attendeva un hotel sito a Elephant & Castle, una specie di casermone degno di un film di Ken Loach. Il momento della colazione era parimenti da cinematografo: un uomo di colore (e già questo mi sembrò incredibile) smistava con piglio carcerario le persone da ammettere alla sala, attento a che nessuno si introducesse prima che lui avesse controllato il tesserino associato alla chiave della camera. E noi di camere ne avevamo due, e pure quella fu credo una prima volta: le due sorelle a dormire totalmente da sole in un albergo, cioè, a parlottare fino a tardi e a ridere, introducendo una consuetudine mai più abbandonata. La notte era piena di sirene e di allarmi, suoni per me completamente inediti e che da allora associo alla colonna sonora delle grandi città.</div>
<div style="text-align: justify;">
A volte mi sembra ancora di sentire l’odore e il sapore di un terribile panino mangiato a Chinatown, dall’impasto dolce mescolato a pezzetti di una non meglio identificata pancetta; un’impressione nauseabonda attenuata solo dalla bellezza dei gesti dei cuochi in vetrina, che trattavano anatre glassate e totani arancioni (!) con la grazia di chi si accosta a corpi ancora vivi. Trascorsi tutta quella vacanza vestita con coloratissimi abiti di seta indiana, usciti in grande quantità dagli armadi di mamma, e animata dal continuo stupore per le persone tutte diverse che vedevo brulicare intorno a me.</div>
<div style="text-align: justify;">
Varietà e libertà, e a quindici anni Londra divenne la città del cuore (solo da qualche anno il podio è stato riassegnato: Parigi, ma questa è un’altra storia).</div>
<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4xZR8hGn8V0ZIrpxcNU60M7DMnZrdmhgOTvKlBYoBPm6110dyqPasbjo5LaO0MxmoPVw-75e5R7fRVghL867gAMp-1gjREDO4tCl9UXhOKkP3aWbgGGpHrLX0VqnlWw5q-hdSetlR4DY/s1600/foto+london.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" data-original-height="399" data-original-width="600" height="424" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj4xZR8hGn8V0ZIrpxcNU60M7DMnZrdmhgOTvKlBYoBPm6110dyqPasbjo5LaO0MxmoPVw-75e5R7fRVghL867gAMp-1gjREDO4tCl9UXhOKkP3aWbgGGpHrLX0VqnlWw5q-hdSetlR4DY/s640/foto+london.jpg" width="640" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><i>Fotografia anarchica (agosto 2007), per gentile concessione dell’occhio prensile e appassionato di Tore Sansone</i></td></tr>
</tbody></table>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Quindici anni: quanti ne aveva la Junior quando partimmo da sole, io ventenne e lei, in un soggiorno londinese nel quale non successe nulla di incredibile, poiché la follia era già nelle sue stesse premesse. La valigia era piena di cibo in scatola, che con cura certosina dividemmo per le dieci cene consumate nella nostra camera in un sottoscala di un hotel a Kensington – “ché è importante che stiate centrali, in un posto comodo e curato”. Oggi litigheremmo con il <i>receptionist</i> per farci cambiare l’alloggio, allora iniziammo a ridere senza requie. Il letto a una piazza e mezza coincideva con la metratura della stanza e ci toccò stare sempre con la finestra chiusa perché affacciavamo su un semaforo pedonale – o meglio, il semaforo affacciava sui nostri vetri. Però il ragazzetto rosso di pelo che ci serviva la colazione ci prese in simpatia, così ci onorava di abbondante cibo e di sorrisi.</div>
<div style="text-align: justify;">
Girammo la città in lungo e in largo, con tubi di Ringo e di Prince sempre nella borsa, tanto per variare la nostra dieta essenzialmente a base di McDonald e di <i>fish and chips</i>; usavamo le cabine rosse per chiamare a casa e avvisare che “qui va tutto bene, ci stiamo divertendo e vediamo tante cose”, tacendo che Junior aveva una certa immotivata apprensione per i soldi. Temeva che finissero da un momento all’altro, nonostante le mie ben note qualità di amministratrice attenta e parsimoniosa. Fu per questo che non riuscii a convincerla ad acquistare a Soho una bellissima parrucca corta nera con ciocche viola, molto molto chic: le stava benissimo e, poiché allora ella sfoggiava capelli di volta in volta mezzi verdi, mezzi rossi, mezzi blu, quella spesa mi sembrava perfettamente in linea con il suo look dell’epoca. La paura finanziaria inibì invece anche me, quando tra gli scaffali di una libreria scovammo una vecchia edizione di <i>On the road</i> di Kerouac: ci limitammo a fotografarla perché davvero non si poteva fare altro. Il testone di Karl Marx ci accolse all’Highgate Cemetery, casa Freud ci aprì le sue porte e Abbey road ci offrì le sue zebre, dopo un’attesa estenuante ché in quel momento tutte le automobili di Londra avevano deciso di passare da lì.</div>
<div style="text-align: justify;">
Di alto livello, ma pur sempre <i>freak</i>, entrammo un pomeriggio in una raffinatissima sala da tè, dopo essere state incollate per un poco alla vetrina, nel tentativo di capire se le nostre scelte in fatto di abbigliamento avrebbero potuto essere compatibili con il luogo. Non lo erano, è chiaro, ma un cameriere in livrea, dopo un primo momento di sbandamento subito ricacciato con aplomb British, ci accolse con tutti i crismi del caso, mentre Junior e io continuavamo a ridacchiare, soddisfatte per la nostra impresa. Non ripartimmo prima di aver visitato il Globe Theater e la Tate Modern che allora si stagliavano quasi in mezzo al nulla, in contrasto visivo con il pieno della City dirimpetto.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
È stato un corto circuito quando sono tornata da quelle parti dopo un’assenza di quindici anni (mi accorgo solo ora che, in questa storia, è una cifra costante). Quel nulla si era nel frattempo riempito di nuovi, organizzatissimi, pezzi di città, con nuovi ponti, nuove costruzioni, nuove strade. Il Millennium Bridge, per me nuovo pure lui, mi offriva una prospettiva diversa. Ho avuto la sensazione di ri-incontrare una persona molto cara senza riconoscerla subito, per poi afferrarne ancora la vecchia sembianza da un guizzo nei suoi occhi.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Da anni vagheggio una visita nello Yorkshire (la Cornovaglia è già all’attivo, ma anche questa è un’altra storia): per quanto non sopporti il vento, devo andare a sentire quello che soffia nella brughiera per ritrovarci dentro gli spiriti di Catherine e di Heathcliff.</div>
<br />
Pare che stavolta mi ci vorrà il passaporto.<br />
<br />
<div style="text-align: right;">
<i>Post di Eva Ponzi</i></div>
<br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
(Devo il titolo baglionesco al multiforme ingegno di Massimiliano Capo)<br />
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-88496752162893487212020-01-27T18:43:00.000+01:002020-01-27T18:43:03.152+01:00La memoria degli scacchi<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFz_4dw8OWhEt18EYtfCmvAuvI4ah3g4ClIoEUyFF4zP-JO1ZCuPluBrDWHVG1Hfvxe7DBbX357XubIMllAUV2BYjAnfbdqTXFNf4LurKQaCTgD3guXkKHeQRdkIuYrpaDDS1EUgN2aUc/s1600/luneburg.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" border="0" data-original-height="374" data-original-width="240" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFz_4dw8OWhEt18EYtfCmvAuvI4ah3g4ClIoEUyFF4zP-JO1ZCuPluBrDWHVG1Hfvxe7DBbX357XubIMllAUV2BYjAnfbdqTXFNf4LurKQaCTgD3guXkKHeQRdkIuYrpaDDS1EUgN2aUc/s320/luneburg.jpg" title="" width="205" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Ho letto da qualche parte che fu Bobby Fischer a dire che gli scacchi sono il gioco più violento che esista. Fatico a dargli torto. Il tuo avversario potrebbe tenerti inchiodato a quelle sessantaquattro case per ore, per giorni, demolendo pezzo dopo pezzo la tua sicurezza, la fiducia in te stesso, la tua sanità mentale, se dopo tanti anni di gioco ne avessi ancora una da spendere.</div>
<div style="text-align: justify;">
Lo scompartimento chiuso del rapido Vienna-Monaco è lo spazio ritagliato fuori dal tempo dove ogni settimana vanno in scena le schermaglie tattiche dei bianchi e dei neri, mossi dalle dita anziane di Dieter Frisch e del signor Baum, suo fedele dipendente, amico, e compagno di tante sfide. Le partite a scacchi sono sempre battaglie silenziose durante le quali i nervi finiscono per essere scoperti dallo sforzo di governare ogni pezzo, di tenere costantemente l’equilibrio grazie al quale l’alfiere è pronto ad entrare, come una lama, nelle difese dell’avversario; il cavallo si apposta dietro ai pedoni per difendere i suoi compagni di battaglia; il re osserva cogitabondo l’attacco, simbolo potente ma quasi inerte nei suoi brevi passi, ritratto di un vecchio saggio sull’orlo dell’estremo addio.</div>
<div style="text-align: justify;">
Difficile non amare gli scacchi: un gioco perfetto, ripetibile all’infinito, senza sbavature, che non reca su di sé nessuna ruga nonostante l’età millenaria. Forse per questo gli scacchi possono diventare un’ossessione, trasformarsi da gioco in arma di distruzione del nemico o di se stessi. Il romanzo di cui parliamo si apre con un suicidio sospetto, che si scoprirà essere l’atto finale dell’incrocio di innumerevoli sfide nell’arco di un tempo lunghissimo, percorso passando sopra a troppe vite. Nel giorno della memoria, <i>La variante di Lüneburg</i> è un racconto imprevedibile che aiuta a sferrare i necessari colpi allo stomaco; è un possibile finale di partita del tutto immaginario, ma che nella finzione riesce ad essere crudelmente reale.</div>
<div style="text-align: justify;">
Quando Hans Mayer arriva al palazzo in decadenza in cui vive quello che diventerà il suo maestro di scacchi, Tabori, compie un lungo percorso fra un portinaio sordo, innumerevoli stanze abbandonate, un ascensore incerto nella marcia, corridoi ricoperti da passatoie lise, in una discesa che si fa sempre più angosciante, quasi un rito di passaggio ad una dimensione altra, terribile. D’altro canto era stato avvisato che Tabori è un uomo «che ha giocato all’inferno». Da lì le storie si srotolano e i personaggi saltano avanti e indietro nel tempo, in una trama dalle sequenze impeccabili che non lascia scampo a nessuno, men che meno al lettore.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ho iniziato con Bobby Fischer, una figura controversa. Di discendenza ebraica per parte di madre, fu accusato di antisemitismo, visse con l’idea d’essere un superuomo della scacchiera, probabilmente ossessionato dalla volontà di vincere, forse soffriva della sindrome di Asperger. Ebbe contrasti con tutti, quasi sbatté il telefono in faccia a Kissinger, da americano andò a giocare in Jugoslavia quando il paese era sotto embargo da parte degli USA, passò i suoi ultimi giorni in Islanda, il che appare come una nostalgica stramberia, considerando che a Reykjavik aveva vinto il suo unico oro ai Campionati del Mondo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Forse per tutto questo assurdo mescolarsi mi è venuto di pensare a lui, forse l’assurdo è l’unica cifra che può spiegare cosa è stata la Shoah, forse l’assurdo ci consente di affrontare la memoria. Ma non per relegarla fuori dal tempo presente, assolutamente no. Per prenderne invece piena consapevolezza, e impedire che l’umanità debba subire un altro tragico scacco.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b>Paolo Maurensig, <i>La variante di Lüneburg</i>, Milano, Adelphi, III ed., 2004.</b></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-87563734539828870142020-01-02T10:57:00.001+01:002020-01-02T10:57:37.351+01:00Un amore fra le colline in guerra<div style="text-align: justify;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPFtolfUEyVPWViZ_Cl5ckqXmDF0sPhD-HXcntWI_oNaKzMETIrJ8qmQyviBstOz1darZrmZ3GoailUvpEZm8MIQr7rugLW48pwZFPw9TYBGg8KRr7gqmBDdHbEUTx1-TnQIPUXZk7uoE/s1600/fenoglio.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="300" data-original-width="194" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPFtolfUEyVPWViZ_Cl5ckqXmDF0sPhD-HXcntWI_oNaKzMETIrJ8qmQyviBstOz1darZrmZ3GoailUvpEZm8MIQr7rugLW48pwZFPw9TYBGg8KRr7gqmBDdHbEUTx1-TnQIPUXZk7uoE/s1600/fenoglio.jpeg" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Le nostre questioni private alla fine prevalgono sempre. Hanno la meglio su tutto il resto, vincono persino contro le ragioni di guerra, perché anche la guerra è solo un’interferenza rispetto alle esigenze basilari dell’essere umano. Siamo costantemente immersi in un’altalena di atti sublimi e banali, così che ci capita di perderci nei ricordi e dimenticare, o voler dimenticare, impegni che a parole giureremmo con la mano sul cuore di considerare fondamentali e degni di sacra attenzione.</div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
L’amore poi, non ha pietà né rispetto per nessun solenne impegno, è la questione privata che prevale comunque. L’amore, anche solo quando si accenna come primo invaghirsi, oppure quando riaffiora come un’eco, ci strappa da tutto e da tutti, senza alcuna remora. Milton il partigiano non sa più che farsene del fucile che regge sulla spalla, nel momento in cui fiuta il profumo, che è solo un’immagine, di Fulvia. Inizia così un viaggio che pare quello di un folle, fra le colline attorno ad Alba. È come l’<i>Orlando furioso</i>, dirà Calvino: un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
D’altro canto la Resistenza fu fatta perlopiù da uomini appena nati, incerti in molto, passionali e dunque facili prede delle distrazioni. Esseri umani che ancora pochissimo sapevano della vita, avendola vissuta in un regime costante di incertezza e dunque troppo spesso trovandosi impreparati di fronte alle prove più impegnative, come molte ve ne furono. <i>Una questione privata</i> è un ritratto vero della Resistenza, dei suoi chiaroscuri, un ritratto distaccato e senza retorica, in quanto raccontato da una prospettiva divergente, quella degli occhi di Milton perduti in ricordi lontani. Non fu per nulla gradito all’epoca questo taglio del racconto, c’è voluto del tempo per accettare che, come tutte le imprese umane, persino la Resistenza non fu perfetta, che ci furono scelte discutibili, atti che sarebbero divenuti rimorsi.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Tuttavia la guerra ti costringe ad un gioco quasi mai leale, come quando Milton e Hombre catturano dei giovani soldati fascisti (pp. 71-72). I due compagni di lotta rappresentano l’instabile alleanza fra badogliani, con al collo il fazzoletto azzurro, e comunisti con la stella rossa. Insieme stanano i quattro ragazzi nascosti dietro l’altare della chiesa: sono impauriti e hanno già lasciato le armi da un pezzo. Li fanno camminare e poi correre, come prigionieri, almeno finché la cavalleria non arriva ad incalzare e allora non resta che falciarli alle spalle, con una sventagliata di mitra. In seguito, scuotendosi da quel ricordo, Milton si sarebbe massaggiato il petto «che gli doleva in ogni punto».</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Il risvolto della prima edizione dice di Fenoglio: «narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile, asciutto ed esatto». È così quando tratteggia la nebbia (pp. 27, 31-32) che pare un elemento come un altro del paesaggio, mentre in realtà è protagonista della svolta; sarà per colpa della nebbia che tutto inizierà ad andare nel verso sbagliato. Eppure Fenoglio la descrive con poetica precisione e sembra quasi bella, nonostante dietro quel muro bianco l’amico Giorgio perderà la libertà e Milton dovrà tentare di salvarlo. Spesso in questo breve romanzo le svolte narrative e i flashback sono introdotti di sguincio, arrivando da punti inattesi, come nemici che in battaglia ci si parano davanti, emergendo improvvisamente dalla nebbia.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Vale la pena leggere <i>Una questione privata</i> anche solo per scorrere la galleria di personaggi, belli e vividi. Spesso si tratte di donne anziane, come la «vecchia» che pare saper leggere nel pensiero di Milton (pp. 68-69) o quella che lo ragguaglia sulle frequentazioni equivoche del sergente fascista, potenziale ostaggio per lo scambio di prigionieri (pp. 89-92). Sono donne che si affezionano a Milton in pochi istanti, che rischiano per aiutarlo, lo nutrono e lo proteggono, perché è come un loro figlio, un ricordo vivente dei figli che la guerra ha portato via da loro. L’unica donna giovane ad essere non presente ma evocata è Fulvia, pure lei un ricordo mitico, e nel ricordo per sempre giovane.</div>
<br />
<br />
<b>Beppe Fenoglio, <i>Una questione privata</i>, introduzione di Gabriele Pedullà, Torino, Einaudi, 2014.</b><br />
<br />ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-46639771275640331462017-12-24T20:36:00.001+01:002017-12-24T20:36:32.954+01:00La bici e la cittadinanza<div style="text-align: justify;">
In questa stagione di buoni propositi, mi metto sempre alla ricerca di una piccola storia che mi dia coraggio, e immancabilmente la storia arriva. Mentre cammino sotto ai portici portando a mano una vecchia e scassatissima bicicletta, passo accanto ad un gruppetto composto da un padre con tre bambini di età compresa fra i quattro e gli otto anni, imbacuccati nei giubbotti e impegnati in una fitta conversazione. Al mio passaggio il più piccino si zittisce, attirato come una calamita dal mio mezzo di locomozione. Allunga una mano verso il sellino posteriore come se si trovasse di fronte ad una reliquia sacra.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il padre, alle sue spalle, lo richiama: «Non si toccano le cose degli altri». Sorrido ad entrambi, facendo cenno di non preoccuparsi. L’uomo ricambia, si affianca e facciamo alcuni passi assieme. Il taglio della barba, l’abbigliamento, i tratti del volto dimostrano una provenienza orientale, forse il Pakistan. «A mio figlio piacciono le biciclette» mi spiega «ne avevo comprata una per lui. Bella, da Decathlon. Ma l’hanno rubata. Ed era dentro al cancello!».</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhj0BG7EqbFEMLPVkJ5WwTyUVI0CyEQYWSJlnME51CDRtR0I9yfsNCyjXx6ZcbkG_NYYLWPI7xWOhyWp2Gdcb8eQf8RUPKqciAfPqijw74aJysfqtk70_5zQfXxyeFdWvwgONyqbgVbCZs/s1600/3760774791_983b12184e_o.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" border="0" data-original-height="336" data-original-width="668" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhj0BG7EqbFEMLPVkJ5WwTyUVI0CyEQYWSJlnME51CDRtR0I9yfsNCyjXx6ZcbkG_NYYLWPI7xWOhyWp2Gdcb8eQf8RUPKqciAfPqijw74aJysfqtk70_5zQfXxyeFdWvwgONyqbgVbCZs/s640/3760774791_983b12184e_o.jpg" title="" width="640" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Dopo averlo salutato, penso che il nostro parlamento sta commettendo un terribile errore, che sta facendo un torto a quello straniero, capitato a vivere in un paese che non riconoscerà ai suoi figli il diritto di cittadinanza, anche se sono nati qui, già parlano l’italiano come me e cresceranno studiando a scuola le stesse cose che ho studiato io.</div>
<div style="text-align: justify;">
La cosa più triste è che sono convinto della mala fede della nostra politica. Chi ha fatto affossare la legge sullo <i>ius soli</i>, lo ha fatto per un calcolo personalistico, per ammiccare ad alcuni elettori arrabbiati, magari anche giustamente arrabbiati, alla ricerca di un sacco sul quale scaricare i pugni. Quei politici però sanno che quella legge era una buona base su cui almeno discutere, ma hanno voluto presentarla del tutto diversa da come effettivamente è, le hanno dipinto una faccia falsa, quella che a loro faceva più comodo. O forse non l’hanno nemmeno letta.</div>
<div style="text-align: justify;">
Discriminare i bambini è un atto miope, oltre che tristemente grave, e non fa bene a nessuno, neppure ai “fortunati” che si trovano nel gruppo privilegiato. Se dovessi puntare sulla salvezza dell’umanità, come potrei affidarmi a persone che travisano le parole su un tema così fondamentale per il futuro, nel nome di un calcolo elettorale? Preferisco rivolgermi, senza conoscerlo per nulla, ad un padre straniero che continua ad educare il proprio figlio al rispetto degli altri, nonostante che il paese in cui abita non gli ricambi la cortesia ed entri dentro a casa sua per rubargli la bicicletta, o peggio ancora il sogno di dare un futuro di eguaglianza ai suoi bambini.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-size: x-small;"><i>First Time</i> (<a href="https://flic.kr/p/6JjXjF" target="_blank">foto di Bruno Pagnanelli</a>)</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-37962973555468032872017-12-03T12:06:00.000+01:002017-12-03T12:06:53.957+01:00Una bella maglietta bianca<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhu0v-HTTAVGQ3G6LeK9G36wpPZ9Wwe1Fa3Jc5nqLcwwunezzjye60E1dd7vaHOJXierCoGkWHy51AF8ZJ8CTM_neAT5igcn6eaF8Zi6R7CajLJ4LYNZTnlWF4sIguRz-LR2xISyPdx0bY/s1600/primo-levi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="600" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhu0v-HTTAVGQ3G6LeK9G36wpPZ9Wwe1Fa3Jc5nqLcwwunezzjye60E1dd7vaHOJXierCoGkWHy51AF8ZJ8CTM_neAT5igcn6eaF8Zi6R7CajLJ4LYNZTnlWF4sIguRz-LR2xISyPdx0bY/s320/primo-levi.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
I campi di calcio sono stati ultimamente teatro di rappresentazioni fuori luogo, scene in cui si mescolano esibizionismo, simbologia, e una buona dose di cattivo gusto, per usare un eufemismo. Qualche domenica fa, Marzabotto è stata sconfitta due volte: nella partita contro il “65 Futa SSD Calcio” e nel gesto di uno dei suoi calciatori. L’incontro del campionato di seconda categoria dilettanti si chiude con il goal di Eugenio Lippi, il quale, correndo verso gli spalti, si toglie la maglia per scoprire <a href="http://bologna.repubblica.it/cronaca/2017/11/15/news/saluto_fascista_a_marzabotto_il_club_di_loiano_ora_pensa_al_ritiro-181145649/" target="_blank">una t-shirt nera con l’aquila nera della Repubblica di Salò</a>. Evocare certi ricordi nel paese che ha conosciuto l’eccidio di 770 civili da parte dei nazifascisti, è una scelta che si commenta da sola.</div>
<div style="text-align: justify;">
Si dice che il calciatore abbia tentato di difendersi nascondendosi dietro l’ignoranza. Forse non sapeva cos’è accaduto a Monte Sole nell’autunno del 1944, forse non sapeva il significato dell’aquila impressa sulla bandiera italiana. C’è un vecchio adagio che recita: la legge non ammette ignoranza. Vorrei dire che anche la storia non dovrebbe ammettere ignoranza. Se scelgo di indossare un simbolo, un volto, una frase, e di portarlo in giro per le strade o su un campo di calcio, ho il dovere di sapere di quale messaggio mi sto facendo portatore.</div>
<div style="text-align: justify;">
E non è vero che serva aver fatto studi specifici, né che si debbano passare ore sui libri prima di infilarsi una maglietta. Ci sono vie più rapide e disponibili a tutti. Cito senz’altro <i>L’uomo che verrà</i>, il film diretto da Giorgio Diritti che racconta magistralmente quel tragico episodio. Casualmente proprio il giorno dell’uscita della notizia di Marzabotto, mia figlia venne a consigliarmi <i>Primo Levi</i>, <a href="http://www.beccogiallo.org/shop/184-primo-levi.html" target="_blank">una graphic novel di Matteo Mastragostino e Alessandro Ranghiasci</a>. Lascio allora solo questo ulteriore suggerimento di lettura, che mi è parso arrivare con significativo tempismo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Se Eugenio Lippi, e altri come lui, non hanno voglia di fare nemmeno questo minimo sforzo, non mi sento di obbligarli, ma do loro un consiglio: per la prossima partita, una bella maglietta bianca senza simboli o scritte, vuota, almeno per un motivo di coerenza.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-18755463820759262642016-08-23T17:00:00.000+02:002016-08-23T17:00:07.068+02:00Il piacere di leggere spiegato da un ragazzo<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjRpezcMqqgzR-1ZOSK2iZism3Iqpd-bGxadYhZuLgxB0sAoEUSWO4_GRUJXuCojfwabTo-cKeYZ4i2rGvJ5LmRyljGfMSHu0k304mv7ZW6I7hDB5M_y8SyNOPndCrVGssnfKXI-HI-w54/s1600/littleprincequote.jpeg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjRpezcMqqgzR-1ZOSK2iZism3Iqpd-bGxadYhZuLgxB0sAoEUSWO4_GRUJXuCojfwabTo-cKeYZ4i2rGvJ5LmRyljGfMSHu0k304mv7ZW6I7hDB5M_y8SyNOPndCrVGssnfKXI-HI-w54/s320/littleprincequote.jpeg" width="215" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Chiudere in una scatola i libri dell'anno precedente è uno dei riti che chiudono oppure riaprono l'anno scolastico, a seconda del quando preferite gestire il passaggio. In ogni caso, quello che immancabilmente accade ai genitori, è di trovarsi a sfogliare le pagine e far correre lo sguardo sul lavoro compiuto dai figli, magari dedicando un po' più tempo a quei quaderni che durante l'anno erano rimasti a scuola. E' stato così che una nostra lettrice esigente ha scoperto il tema del proprio figlio, alunno di seconda media, dedicato al piacere della lettura e ha ben pensato di condividerlo con noi. A nostra volta lo pubblichiamo, così com'è uscito dal quaderno, senza aggiungere parole che sarebbero superflue. Il titolo è <i>Leggere: sogni su carta</i>.</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ricordo ancora come fosse ieri quando mia mamma mi leggeva <i>Il grande ponte grigio e il piccolo faro rosso</i>; fu lì che mi appassionai alla lettura. La lettura è ciò che apre la mente senza bisogno di una chiave, ciò che attira come una calamita, ciò che trascina senza spostare.
Io adoro leggere. Il profumo delle pagine ed il crepitio della carta mi attraggono e mi allietano, mi risvegliano e rallegrano. Per non parlare poi del desiderio che provo nel vedere un libro.</div>
<div style="text-align: justify;">
Tutto questo è il leggere, che aiuta a calmarsi, a immaginare, a ricordare ma soprattutto ad aprire la mente ed a condurla verso obiettivi sempre più alti. Chi non legge non conosce. Non serve leggere solo racconti per arricchirsi. Qualsiasi altra forma di pezzo di carta scritto può essere considerata una fonte di informazioni. Se questa teoria non valesse, beh, non conosceremmo i segreti dei quadri più famosi, non sapremmo dove andare in vacanza, non avremmo idea di come distinguere una pianta dall'altra .. Non conosceremmo nulla.
Come pensate abbia imparato a leggere? Ascoltando letture.</div>
<div style="text-align: justify;">
Non si può dire di saper leggere solo conoscendo l'alfabeto. Per leggere bisogna immaginare, gustare, assaporare le parole.
Di letture ne ho fatte di tanti tipi: ho riso con Marcovaldo, ho visitato luoghi sconosciuti con <i>Viaggio al centro della terra</i> e ho viaggiato con i <a href="http://www.ippocampoedizioni.it/" target="_blank">libri dell'Ippocampo</a>.
Non so se diventerò uno scrittore, so solo che non smetterò mai di leggere.
Ma perché una persona dovrebbe cominciare a leggere?
Beh, se le mie parole non vi avessero convinto, pensate a questo: quale altra cosa al mondo vi permette di viaggiare ovunque stando seduti su una sedia?
Se non trovate la risposta, aprite un libro».</div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-44160923202967363402016-07-06T19:09:00.000+02:002016-07-06T19:09:35.762+02:00Il "Mein Kampf" non è un regalo opportuno<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjVHtZtEhf4WPFASFSygClEiOBReh4JYd6o20EvMWeGU7zOPk8-g8wUkUwUMZfsh1fM3LAp84iCyF3w3HI6cuX30WUU8zZ8etYT6uX20vjcuJufncuNU3qwMlrX_yzPeQJLWbsyBqsJSLg/s1600/res-gestae-bloch-strana-disfatta-dorso13-6-ok.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjVHtZtEhf4WPFASFSygClEiOBReh4JYd6o20EvMWeGU7zOPk8-g8wUkUwUMZfsh1fM3LAp84iCyF3w3HI6cuX30WUU8zZ8etYT6uX20vjcuJufncuNU3qwMlrX_yzPeQJLWbsyBqsJSLg/s320/res-gestae-bloch-strana-disfatta-dorso13-6-ok.jpg" width="212" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Di fronte alla marea che montava scandalizzata a biasimare la scelta di abbinare all'uscita del quotidiano «Il Giornale» una copia di <i>Mein Kampf</i> di Adolph Hitler, il direttore Alessandro Sallusti ha voluto spiegare le ragioni dell'iniziativa. Lo scopo era attenersi alla regola «di conoscere ciò di cui parliamo», regola in sé aurea e giustissima, sennonché quello che davvero conta è come viene applicata. Personalmente sono in forte dubbio sul fatto che il <i>Mein Kampf</i> sia lo strumento migliore per conoscere cosa è stato il nazismo. Non si può certo dire che l'autore sia stato un osservatore neutrale del fenomeno, gli manca quel distacco scientifico che sarebbe sempre auspicabile quando l'obiettivo è «conoscere». La storia non è una scienza esatta, ma nel confronto fra due campane essa si pone in mezzo, ascolta entrambe e da entrambe fa derivare le sue conclusioni. </div>
<div style="text-align: justify;">
Nel ribattere al tempestivo e scontato tweet di Matteo Renzi, il direttore del «Giornale» ha ritenuto di citare un brano dall'opera più nota di Primo Levi, <i>Se questo è un uomo</i>: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Probabilmente senza accorgersene, con questa citazione Sallusti ha suo malgrado messo in evidenza l'unico reale motivo per cui è sbagliato regalare un testo di Hitler come allegato gratuito ad un quotidiano. Ci sono migliaia (milioni?) di persone che non hanno accesso agli strumenti della storia, a cui non interessa di andarli a cercare e vivono benissimo lo stesso, ovviamente, ma in questo modo possono essere più facilmente sedotte. Trovo poi preoccupante - aggiunge Sallusti - che Renzi non sappia una cosa nota a tutti, cioè che il <i>Mein Kampf</i> lo si può acquistare già da tempo in molte librerie, quelle della Feltrinelli comprese, e con un clic su Amazon. Tutto vero, ma quelle migliaia di persone non mettono magari mai piede in una libreria e non verrebbe mai loro in mente di cliccare su Amazon per acquistare un libro. Nel momento in cui lo trovano invece in edicola, gratuitamente offerto, ecco in quel momento l'hanno in mano, ufficializzato, solennizzato come un libro importante (con tutta l'ambiguità che possiamo dare a questo termine). Il <i>Mein Kampf</i> non deve essere escluso dalle biblioteche, non deve sparire dai corsi universitari, è anzi necessario che continui ad essere argomento di studio. Deve essere studiato, sì, ma non merita di essere letto. La differenza è questa, ed è tragicamente sottile.</div>
<div style="text-align: justify;">
Per venire incontro alle buone intenzioni, mi sento di proporre un'alternativa di lettura. Il libro di uno storico, del Medioevo per la verità, ma una delle voci più alte della ricerca storica del Novecento, uno studioso che visse in prima persona l'occupazione nazista del proprio paese, fino al punto da perdere la vita, fucilato nei pressi di Lione nel 1944. Lo storico è Marc Bloch, il libro è <i>La strana disfatta</i> e racconta di come la Francia subì l'invasione senza sapere resistervi. L'analisi di Bloch scende in profondità ad analizzare le radici culturali e sociali di un mondo che per certi versi è quello dell'intera vecchia Europa, umiliata dagli eventi. Potrebbe essere la stessa disfatta a cui assistiamo oggi se qualcuno ancora rivendica il diritto di mettere in bella mostra delle svastiche. Purtroppo quest'opera di Bloch è stata per lungo tempo non disponibile, ed è oggi <a href="http://edizioniresgestae.it/libri/novecento/la-strana-disfatta.html" target="_blank">riproposta dall'editore Res Gestae</a>, con una distribuzione credo piuttosto limitata. Allora forse poteva essere più sensato regalare un libro come quello di Marc Bloch, anziché le teorizzazioni di Hitler che si possono comprare «con un clic su Amazon».</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-44599000562415005382016-06-13T11:19:00.001+02:002016-06-13T11:20:33.274+02:00Nuovi modi per presentare un libro: recensione animata #1<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjL97-Iw6orn5QPlGG7GrWM60-zmp9a_AS55cnyzOdu_T0-Q6AgdhvhamqOcJEpKk1-KjF5wb8tkcUHRFX82rV-TLnoNTjplJZvJiPGFNO8H_68DLcemK-0ZPb0j4NNj0U9QPycv-lYK8M/s1600/copertina+Donatore.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjL97-Iw6orn5QPlGG7GrWM60-zmp9a_AS55cnyzOdu_T0-Q6AgdhvhamqOcJEpKk1-KjF5wb8tkcUHRFX82rV-TLnoNTjplJZvJiPGFNO8H_68DLcemK-0ZPb0j4NNj0U9QPycv-lYK8M/s320/copertina+Donatore.jpg" width="219" /></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Il libro è una fonte imprevedibile di spunti, riflessioni, risate ed emozioni. A volte le presentazioni dei libri sono l'esatto contrario. Ci siamo allora chiesti se la presentazione di un libro potesse riuscire a zampillare come una vera fonte per stimolare piacevolmente la lettura, e diventare così un evento interessante al di là della passione personale per l'autore o dell'argomento del libro. La risposta che ci siamo dati si chiama <i>Recensione Animata</i>, una sorta di piccola rappresentazione teatrale che metteremo in scena il prossimo 21 giugno. In questa occasione al centro sarà <i>Il donatore </i>di <a href="http://www.andreapugliese.it/" target="_blank">Andrea Pugliese</a>, un’opera sull'imprevedibilità dei rapporti di coppia e sulle dinamiche di riappropriazione di se stessi dopo la fine di un matrimonio. L'autore sarà presente all'evento e verrà coinvolto nel gioco delle parti, forse scoprendo qualcosa del suo libro che neppure lui sospetta.</div>
<div style="text-align: justify;">
Della modesta regia si occuperà Sebastiano Bisson con la collaborazione di <a href="http://www.mvm-arts.com/artista/martina-valentini-marinaz/" target="_blank">Martina Valentini Marinaz</a>. Fedeli ad una delle note regole del VoltaPagine, sveleremo poco della trama, il giusto necessario per stimolare la curiosità, e divagando piuttosto fra gli spunti: dal formaggio d'alpeggio all'uso improprio dello smartphone, dall'importanza della grafica in una copertina al senso della fatica per chi ama la montagna. Il luogo d'incontro è la libreria <i>Amici di Socrate</i>, un punto di stimolo culturale e sociale del quartiere Savena a Bologna. Vi aspettiamo!</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
<b><a href="https://www.facebook.com/events/1637098893280183/" target="_blank">Recensione Animata #1</a> - Martedì 21 giugno 2016, h 18.30, presso libreria "Amici di Socrate", via Toscana 38/r, Bologna.</b></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-17640929731723084962016-05-12T13:30:00.000+02:002016-05-12T13:30:46.049+02:00La cisterna silenziosa<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWX6HRgPEx8hgvQq7PQA61NAaTwJCfy_KmcGvRk7qmOSZ0tRNrz0lIJKujBgNKvhk4THxqLTrBPn-mDDHFTIkXXGK3HEodPb84n3_U41HYmwsnOHyzrfNMfcrTZaLHnsxirvUHv9zY1V4/s1600/Kanafani.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWX6HRgPEx8hgvQq7PQA61NAaTwJCfy_KmcGvRk7qmOSZ0tRNrz0lIJKujBgNKvhk4THxqLTrBPn-mDDHFTIkXXGK3HEodPb84n3_U41HYmwsnOHyzrfNMfcrTZaLHnsxirvUHv9zY1V4/s320/Kanafani.jpg" width="228" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Il cuore di una terra è il cuore di ciascuno dei suoi abitanti; sono gli abitanti a dare il battito alla terra. Quel cuore Abu Qais lo sente battere ogni volta che si stende sul suolo della Palestina, il paese che lo ha visto nascere e che ora egli deve lasciare per avventurarsi in un viaggio clandestino verso il Kuwait, la terra promessa degli arabi negli anni in cui nasce lo Stato d’Israele. <i>Uomini sotto il sole</i> è una storia di profughi, raffinata nello stile del racconto, fulminante nella sua costruzione narrativa. Benché risalga a qualche anno fa, rimane una storia esemplare e purtroppo attualissima, forse meno politica di quanto l’autore avrebbe voluto, ma proprio per questo ancora più potente nella sua denuncia, guidata dalla forza pura che la letteratura sa esprimere quando sale di livello e trasmette emozioni universali, così da rendere fino in fondo il significato dei tanti esodi forzati di cui quotidianamente siamo testimoni, spesso disattenti.</div>
<div style="text-align: justify;">
Tre personaggi – Abu Quis, uomo maturo e affaticato, Asad, giovane e più risoluto, e Marwàn poco più che un ragazzo – scelgono di farsi rinchiudere nella stessa autocisterna, all’inseguimento di una salvezza che è collocata in fondo ad un percorso difficile, quasi disumano, ma che sembra essere l’unica alternativa possibile, o forse tale la fa apparire la disperazione dopo tanti anni di inutile attesa di una svolta positiva nelle loro vite. Le vicende personali sono diverse una dall’altra, hanno poco da spartire, o nulla, se non quel passaggio comune verso e oltre la frontiera; il lettore le scopre grazie al meccanismo dei flashback che si connettono al presente tramite un suono, una parola, un riverbero. Le ragioni della situazione in cui si trovano i tre personaggi vengono dunque centellinate, portate alla luce un po’ alla volta, grazie a degli inserti che sospendono per un breve tratto la spirale narrativa, sempre più avvolgente e inevitabile. In Medio Oriente il cinema francese è da sempre molto presente, e ha fatto scuola, sicuramente se ne colgono tracce nelle scene di <i>Uomini sotto il sole</i>, con alcune soluzioni di moderna efficacia cinematografica.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il percorso narrativo è all’insegna del prosciugamento. Il sole che picchia sulle teste ha l’ingrato compito di cancellare la vita, di portare via l’acqua, sia in senso fisico sia in senso simbolico. Pagina dopo pagina si sente l’esistenza venire meno, perché viene a sparire la sua fonte primaria. C’è un momento in particolare, proprio nelle pagine iniziali, in cui si preannuncia la perdita, nella forma di una fortissima nostalgia: «Ogni volta che, giacendovi sopra, annusava il profumo delle zolle, gli sembrava l’odore dei capelli di sua moglie appena uscita da un bagno d’acqua fresca. Proprio quell’odore, l’odore di una donna che si era appena lavata con acqua fresca, e che gli si accosta con i capelli ancora umidi, coprendogli il viso» (p. 17). Non è dunque solo perché lo scenario del racconto è quasi sempre il deserto, l’assenza d’acqua è qualcosa che innerva la storia in maniera più profonda. E non è un caso che assieme all’acqua appaia qui la figura della moglie di Abu Qais, a richiamare in fondo tutto il mondo femminile, anch’esso destinato a sparire, a prosciugarsi, un’altra fonte di vita che non riesce ad avere spazio nel racconto, che è già solamente nostalgia. La speranza che spinge i tre clandestini nasce dunque già indebolita, perché guarda indietro, gira le spalle al futuro; senza acqua, senza il suo complemento femminile, l’uomo si scopre chiuso in una realtà che non ha domani. </div>
<div style="text-align: justify;">
L’autista della cisterna, soprannominato Canna per via della sua figura alta e allampanata, non è la classica figura del trafficante di uomini, il cinico approfittatore della disperazione altrui che abbandona nel mezzo del Mediterraneo barconi fatiscenti con esseri umani assiepati in ogni angolo. Canna è anch’egli a suo modo una vittima. Sottoposto a torture a causa delle quali ha perduto la sua virilità, s’ingegna per guadagnare qualcosa in più sfruttando un trucco per eludere i controlli di frontiera. Il nostro Caronte nel deserto è dunque un uomo a cui è negato congiungersi con il lato femminile, e la valenza simbolica torna ad essere forte. È un personaggio che prova della compassione e non riesce ad essere cinico: che si sente lacerare il petto quando capisce quale ruolo il destino gli abbia assegnato. In una manciata di secondi risulta chiaro che da salvatore egli diventerà involontario carnefice, trattenuto dai soldati di confine per fantasiose storie di donne che sono appunto solo fantasie, doppiamente dolorose per Canna ed esiziali per i tre clandestini. La beffa dei pochi secondi è bruciante oltre la metafora, e dichiara come il tempo, anzi i tempi siano un’altra delle chiavi di lettura del racconto. C’è un tempo esteso, che è quello del passato alle spalle di ciascun personaggio, un grande raccoglitore di storie di sofferenza a cui Kanafani attinge con misura. C’è il tempo ristretto dei pochi giorni spesi nell’attesa dell’agognato passaggio attraverso la frontiera. C’è infine il tempo accelerato del presente, del viaggio spinto su quella spirale che converge inesorabile verso una fine purtroppo segnata.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ancora stupisce, ma forse nemmeno troppo, la lentezza con cui il nostro panorama editoriale mette in circolo opere di valore solamente perché non provengono dalle solite due o tre nazioni da cui importiamo ingordamente letteratura, senza quasi filtro critico. Succede così che <i>Uomini sotto il sole</i>, racconto lungo pubblicato in arabo nel 1963, arrivi in Italia solo nel 1991 per iniziativa della Sellerio, casa editrice attenta alla letteratura araba e all’epoca non ancora salita sulla grande onda di Camilleri. Tuttavia Kanafani, così come Camilleri, non era un perfetto sconosciuto, ma l’Occidente lo conosceva come attivo sostenitore del fronte di liberazione della Palestina. Era nato ad Acri nel 1938, si trasferì poi con la famiglia in Libano al momento della proclamazione dello stato di Israele, passando quindi in Siria e in Kuwait. Morì in un attentato, forse ad opera del Mossad, forse per lotte interne ad Al-Fatah. Dunque noto come politico, non come scrittore, Kanafani si rivela in realtà una penna raffinata, neppure troppo influenzata in quest’opera dal coinvolgimento in prima persona nelle convulse vicende del Medio Oriente. A livello teorico egli concepiva solo una letteratura impegnata, con uno scopo pratico, pur senza rinunciare alla forma che voleva rimanesse elevata. Dunque nessun estetismo fine a se stesso, l’asciuttezza pragmatica doveva essere il principio guida, sennonché da lettore l’impressione è che a volte la letteratura prevalga, si impossessi della mano di Kanafani e lo guidi dove il suo talento di scrittore è destino lo porti. Vorrebbe rimanere l’ideologo, il combattente, lo scrittore armato che persegue il suo specifico obiettivo di denuncia, tuttavia qualcosa lo distrae, è un’ispirazione potente, ed egli si ritrova a scrivere un racconto che è narrazione pura, strumento di un messaggio universale sulla sorte crudele dell’umanità che, a qualunque longitudine, cerca una terra in cui piantare dei semi, arrivando persino ad accettare il fatto che non sia la terra dei loro padri. </div>
<div style="text-align: justify;">
I tre personaggi di Kanafani si muovono verso est, verso il Kuwait, nazione in quegli anni poco sviluppata, senza una struttura politica stabile. Quando anche lì venne scoperto il petrolio, ci si rese conto che mancavano le maestranze, le professionalità, le competenze. Furono proprio i palestinesi ad occupare quei posti, a rispondere a quelle esigenze che il crescente emirato esprimeva. Lì i palestinesi, almeno alcuni di loro, poterono esprimersi, avviare attività economiche, fare tutto ciò che era loro negato sul suolo natio. Di fatto l’identità odierna del Kuwait, la sua ricchezza, molto deve ai profughi palestinesi che erano in quel momento una delle popolazioni più istruite di tutto il Medio Oriente. A parziale risarcimento dell’esproprio della terra, ai palestinesi era stata infatti offerta la possibilità di accedere a servizi educativi di livello, gestiti da istituzioni occidentali spesso di matrice religiosa, come nel caso delle scuole missionarie a cui erano ammessi anche i mussulmani. Attraverso la lente dell’analisi storica, appare evidente quanto fosse un modo per lavarsi la coscienza e ammettere indirettamente che a quella popolazione era stato fatto un torto, e della peggior specie, perché le radici di un popolo, come per un albero, sono nella terra in cui nasce, e sradicare è togliere senso all’esistenza, quale che sia la nuova destinazione prevista. Paradossale quanto la diaspora degli ebrei e la diaspora dei palestinesi possano apparire in fondo simili, nel momento in cui si lascino da parte le sovrastrutture ideologiche e politiche.</div>
<br />
<b>Ghassan Kanafani, <i>Uomini sotto il sole</i>, Palermo, Sellerio, 1991</b><br />
<br />
<div style="text-align: justify;">
<i>Questa recensione deve diversi spunti alla discussione avvenuta il 22 aprile 2016 all’interno del gruppo di lettura sulla letteratura araba contemporanea condotto da Francesca Biancani presso la Biblioteca Amilcar Cabral di Bologna.</i></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-79283993046260376202016-03-23T15:35:00.000+01:002016-03-23T15:35:42.029+01:00La piratessa e Fibonacci<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjQFcAcCHHnrcYHg2kLP22bdxpTEujw2Dld_Ux_uaEczJJyhBRCd8zLPiihP7ugQGuLOLIQ2WOOospiZs_U4HDNoJvj35ge68vouLDg6KCSrTUkJkFmltlAQj290lUwxSVLhju86AL8Pk/s1600/itinerario-don-chisciotte-la-mancha-mulini-a-vento.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjjQFcAcCHHnrcYHg2kLP22bdxpTEujw2Dld_Ux_uaEczJJyhBRCd8zLPiihP7ugQGuLOLIQ2WOOospiZs_U4HDNoJvj35ge68vouLDg6KCSrTUkJkFmltlAQj290lUwxSVLhju86AL8Pk/s320/itinerario-don-chisciotte-la-mancha-mulini-a-vento.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Quello che sta accadendo in questi mesi a Bruxelles, a Parigi e in decine di altri luoghi nel mondo, non mi dissuade dal pensare che l’educazione alla diversità sia una delle vie maestre per risollevarci da questo momento di prostrazione. Credo anzi che una delle strategie malvagie consista proprio nel far passare il messaggio che conoscere l’altro, instaurare un dialogo, sia un’attività insensata, un’impresa degna di don Chisciotte, utile quanto andare alla carica dei mulini a vento. Molti sono quelli che escludono possano arrivare reali frutti da un’azione politica e culturale di apertura a realtà sociali e religiose diverse dalle nostre; pensano che iniziative del genere avranno la sola funzione di luccicare come medaglie d’ottone sul bavero di qualche ipocrita intellettuale. Dobbiamo dunque arrenderci al terrore? Per rispondere no, mi appello a quelle poche e forse misere armi con cui ho familiarità, e sono i libri, quelli ben fatti, con un’anima infusa in essi dai loro intelligenti autori.</div>
<div style="text-align: justify;">
Dato che la speranza non può che venire dalle generazioni più giovani, e visto che proprio lì trovano spesso terreno fertile i messaggi di violenza e distruzione, voglio allora spendere qualche parola sulla <a href="http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1464&Itemid=179" target="_blank">collana Celacanto</a> pensata per dei ragazzi in parte ancora bambini (o viceversa), che dichiara l’intento di «parlare di storia senza mai perdere il gusto del racconto, dell’avventura, dell’immaginazione». Si tratta di un’iniziativa editoriale che conta suppergiù una dozzina di titoli caratterizzati dalla presenza importante di illustrazioni originali, a recuperare un’attenzione per lungo tempo mancata nel panorama italiano, ma di recente in positivo recupero, dell’investire nei progetti che combinano parole e immagini. L’editore Laterza deve aver chiesto agli autori di pensare ad un’apertura di orizzonti, di evitare il taglio scontato e i finali forzatamente rassicuranti, perché la vita lo sappiamo non ama il lieto fine, e si diverte a lasciare nelle vicende umane una vena di amarezza, un filo di malinconia, e tutto ciò non si può tenere nascosto a lungo a chi si incammina verso la vita adulta. Gli autori hanno accolto l’invito, ma l’impressione è che abbiamo persino fatto di più, almeno nei due albi – mi viene da usare questo termine 'antico' – di cui scriverò qui di seguito. Gli autori hanno compreso la chance che veniva loro offerta, di mettere in campo delle armi, forse appunto misere dal punto di vista bellico, anzi del tutto inoffensive e non letali, ma sperabilmente efficaci nell’educare ad un domani aperto alla diversità e al riconoscimento di valori umani comuni.</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHBWJO8bcyDYOCuxVLrq8EGzzD7gBItM8Xs0hXFJJKMhSzr5afACL_N-YFs7ERduKFuRGKvflHVBE2DVlt7mHxqtlPUZe3qQqvSlTZOI1BUInUHEMwpT31-BKQS60O66B3e3zM9n4mhow/s1600/Susan.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHBWJO8bcyDYOCuxVLrq8EGzzD7gBItM8Xs0hXFJJKMhSzr5afACL_N-YFs7ERduKFuRGKvflHVBE2DVlt7mHxqtlPUZe3qQqvSlTZOI1BUInUHEMwpT31-BKQS60O66B3e3zM9n4mhow/s200/Susan.jpg" width="133" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
In <i>Susan la piratessa</i> si afferma che «l’essere più povero ha una vita da vivere quanto il più grande e che ogni uomo, se deve vivere sotto un governo, deve prima accettarlo» (p. 7). La protagonista è nata a Putney, la città dei famosi dibattiti da cui derivano alcune delle principali acquisizioni moderne in termine di valori e diritti civili, ma come dichiara fin da subito Susan, nonostante la giovane età ella ha già molto vissuto e si è trovata spregiudicatamente a vivere da pirata, fuori dal consesso civile, celando fra l’altro la sua natura femminile. La molla che l’ha spinta è stato il desiderio di libertà e la voglia di conoscere il mondo simbolicamente rappresentati dal padre marinaio che non ha mai conosciuto. Dunque presto Susan ha lasciato la costa per seguire uomini con cicatrici che la fanciulla vede come «segni di gloria». Come è facile evincere i temi sono molti e potenzialmente spinosi, distribuiti lungo una trama che non disdegna gli spunti di carattere storico e geografico. La guerra di successione spagnola, la tratta degli schiavi, il modo di vivere alla piratesca, c’è un affresco di un’epoca nella narrazione di Susan, una narrazione scritta a lume di candela nel retrobottega della sua locanda in Giamaica, temporaneo porto dopo un lungo girovagare di cui la fanciulla ci dà preciso conto. Va rilevata l’asciuttezza dei giudizi di Susan: la giovane donna non condanna nessuno, neppure il capitano del veliero sul quale gli schiavi neri sono incatenati come animali. Registra gli eventi, li osserva incuriosita, perché è una donna del suo tempo e la sua intelligenza non è stata ancora educata ad una riflessione critica, non ha gli strumenti per esprimere un giudizio su quei fatti. Paradossalmente però, in questo modo, il giovane lettore è ancora maggiormente spinto ad avviare la riflessione che mancò alla piratessa.<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFaFsj_nJna5CcRch0MXOLl7r88eAEyAvXTr7lqKtP6RrD5xcFIx8ZpwnUtHdvgzoBm51tPxDprglD945QzuY_HeLOHo0b1_pmNQY7mQar1EX2TXqQdNl55ou_ur-kp0_IapBHpOm17m4/s1600/Fibonacci.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiFaFsj_nJna5CcRch0MXOLl7r88eAEyAvXTr7lqKtP6RrD5xcFIx8ZpwnUtHdvgzoBm51tPxDprglD945QzuY_HeLOHo0b1_pmNQY7mQar1EX2TXqQdNl55ou_ur-kp0_IapBHpOm17m4/s200/Fibonacci.jpg" width="133" /></a></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
Con <i>Il bambino che inventò lo zero</i> saltiamo nelle terre dei Berberi, nel nord Africa del XII secolo, dove vivono il vecchio saggio Ahmed ibn Walud e il suo molto particolare allievo, nato lontano dai deserti, dalle terre dei cammelli e dalla cultura islamica. Leonardo figlio di Bonaccio – o come si sarebbe poi detto più brevemente, Fibonacci – è infatti un ragazzino pisano, “furbo come mille gatte e scaltro come una volpe che si finga addormentata” (p. 12) e soprattutto abilissimo nel fare di conto. Nella città di Bugia si è ambientato in fretta e ha imparato alla perfezione l’arabo, incluse parolacce e improperi vari, il che completa la sua inclinazione naturale a comportarsi da monellaccio impenitente. Il padre riconosce la necessità di un’educazione seria per porre un freno ad un comportamento che rischia di far cacciare dall’Africa tutta la comunità pisana, e Ahmed risulta essere il maestro ideale. Il fulcro dell’insegnamento, senza che la cosa sia programmata, è il confronto fra due metodi di scrivere i numeri, quello romano, macchinoso e poco efficace ma ancora in uso nei paesi cristiani, e quello arabo, funzionale perché posizionale e basato su pochi semplici segni, solo nove, più il segno del vuoto, una geniale intuizione che consente di descrivere appieno la perfezione del mondo voluto da Allah. Lo zero, in arabo <i>sifr</i>, da cui la nostra ‘cifra’, è un concetto del tutto nuovo per l’Occidente, fino ad allora impicciato a far di conto con i numeri romani (provate a fare una moltiplicazione mettendo in colonna XXIII e XLIX, e capirete cosa s’intende). Leonardo grazie alla sua vivace intelligenza capisce d’aver scoperto un tesoro, ma Ahmed quasi si spaventa di fronte a quel piccolo infedele così perspicace. Tenta di ritrarsi, di nascondere la ‘magia’ dei numeri, di farla passare per una cosa da niente, in un tira e molla che ricorda in effetti un po’ <i>Il mago dei numeri</i> di Hans Magnus Enzensberger. Nel rapporto tormentato fra i due si srotola alla fine il racconto delle cifre arabe e delle loro particolarità, finché Leonardo “trasforma la logica dei numeri in una poesia elegante”. I due personaggi, così lontani e diversi, trovano un terreno comune di intesa, un piano di dialogo davvero suggestivo, così come nel rapporto appena accennato di Ahmed con l’amico Samuel bel Paltiel, mercante ebreo e palermitano, a rappresentare un Mediterraneo completamente diverso da quello a cui ci ha purtroppo abituato la nostra quotidianità.</div>
<div style="text-align: justify;">
Fiaba moderne quelle di Susan e Leonardo, narrate senza eccessiva linearità, con stili densi dal giusto grado di ricercatezza lessicale. La sfida per gli autori è stata quella di muoversi fra gli spunti della Storia e la piacevolezza del raccontare; la sfida per tutti noi è prendere spunto per diffondere messaggi e strumenti che invitino alla riflessione contro stereotipi e luoghi comuni.</div>
<div>
<br /></div>
<div>
<b>Carola Susani, <i>Susan la piratessa</i>, illustrazioni di Simona Mulazzani, Roma-Bari, Laterza, 2014</b></div>
<div>
<b>Amedeo Feniello, <i>Il bambino che inventò lo zero</i>, illustrazioni di Gianluca Folì, Roma-Bari, Laterza, 2014</b></div>
<div>
<b><br /></b></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-81582179883279867652015-11-22T16:53:00.002+01:002015-11-22T16:53:26.015+01:00Un carrozzone spaziale<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhLxaRySfMAA1DTWfYTwfUjd5olPLx7qMQWXLOiNfBSfF5TKULrW77Uv34mbwX2sov_yE_3PF1msVxpMvd_pcZ_BgJlSCLCEmAr_G2Vy5ZFKDW46o-VDt3RmhK0JJZFKPSDfbk2Dsf3myo/s1600/Auro-Ponchielli-contro-la-fine-del-mondo.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhLxaRySfMAA1DTWfYTwfUjd5olPLx7qMQWXLOiNfBSfF5TKULrW77Uv34mbwX2sov_yE_3PF1msVxpMvd_pcZ_BgJlSCLCEmAr_G2Vy5ZFKDW46o-VDt3RmhK0JJZFKPSDfbk2Dsf3myo/s320/Auro-Ponchielli-contro-la-fine-del-mondo.jpg" width="198" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Gli alieni sono fra noi. Se state pensando all’avvio di un tipico romanzo di fantascienza, devo subito avvisarvi che siete fuori strada. L’invasione infatti è già avvenuta e in maniera massiccia, ma quasi nessuno se ne è accorto, e quei pochi che ne erano a conoscenza hanno saputo integrare gli extraterrestri negli ingranaggi della nostra società in ossequio al più assurdo consumismo. Il meccanismo è decisamente curioso e costituisce una delle molte chiavi che tengono tesa l’imprevedibile trama sviluppata da Alessandro Pozzetti.</div>
<div style="text-align: justify;">
Qualsiasi definizione di genere rischia di essere sminuente per <i>Auro Ponchielli contro la fine del mondo</i>, perché in effetti molti sono i generi mescolati fra loro, e nessuno di essi alla fine prevale sugli altri, ciascuno ha il suo spazio. Auro, pubblicitario con una certa qual <i>verve</i>, ha sempre vissuto a quota periscopio, senza grandi infamie e senza grandi lodi, osando meno di quel che forse potrebbe, con un profilo basso che non gli ha reso giustizia. Qualcosa tuttavia, lo si intuisce fin dalle prime pagine, si sta muovendo all’orizzonte, anzi sopra, molto sopra l’orizzonte. Nonostante il tono ironico, ecco dunque il racconto di formazione, e in effetti il nostro Auro vivrà pagina dopo pagina una trasformazione, una presa di coscienza che lo traghetterà verso un nuovo modo d’essere. Questa presa di coscienza avrà la forma di un vero e proprio impossessamento: uno spirito entrerà dentro Auro per guidarlo nel cammino, e non uno spirito qualunque, certo che no, sarà addirittura Clint Eastwood ad apparirgli un mattino riflesso nello specchio del bagno: lo sguardo a fessura, le labbra sottili pronte a distribuire massime intrise di saggezza.</div>
<div style="text-align: justify;">
A guidare il manipolo di uomini che, senza volerlo, si troverà a dover fronteggiare un’apocalisse acquatica, ci sarà anche Miki Zanetti, in arte Zanna, dj e scrittore che ci rimanda ad alcuni presenzialisti che infestano i nostri palinsesti televisivi. Zanna però è uno che ci sa davvero fare, e il suo <i>Nonne che corrono con i lupi</i> ha venduto oltre 400.000 copie, consentendogli di diventare l’uomo con maggiori probabilità di intrattenersi quotidianamente in rapporti sessuali completi con perfette sconosciute (percentuale attorno al 93,4% secondo uno studio del prof. Ringer dell’Università di Tubinga). In certe condizioni diventa facile eccedere nell’autostima, «sono in sintonia col cosmo. Sono in unione con ogni molecola dell’universo. Pervado la realtà delle cose» afferma Zanna (p. 73), senza sapere quanto premonitrici siano le sue parole; anche per lui infatti il destino ha previsto un nuovo livello di coscienza, stavolta in diretto rapporto con le menti aliene.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’aspetto ironico, a tratti grottesco, non abbandona mai la narrazione, complici gli altri personaggi, eccentrici di per sé e in più coinvolti in situazioni assurde. Incontriamo allora una scimmia – anzi <i>pardon</i>, uno scimpanzé – dalla spiccata intelligenza e tanto loquace quanto manesco; la governante di Zanna, Teresa, una vecchina dall’aria innocua ma in realtà decisamente battagliera nel suo ruolo di Mata Hari meneghina; Marzia, la fidanzata di Auro, che suo malgrado si trova ad essere centro catalizzatore di una serie di eventi imprevisti con conseguenze altrettanto impreviste sui suoi capezzoli; un irresistibile nerd conosciuto con il nome di Padrepio che viene in possesso di un telecomando a forma di pinguino dal potere davvero spropositato; Luis Ferro, il capo, nonché cognato, di Auro, despota dai gusti sessuali alquanto stravaganti che subirà un meritato contrappasso; e così via, in una carrellata davvero pittoresca.</div>
<div style="text-align: justify;">
Bisogna riconoscere ad Alessandro Pozzetti il merito d’essere riuscito a distillare, in un’unica storia, personaggi e situazioni pescate da ambiti lontani anni luce gli uni dagli altri, combinando tutto in una struttura coerente, per nulla sgangherata, anzi quasi classica nel suo svilupparsi, benché affidata ad un gruppo di protagonisti che sono appunto una delle compagnie più strampalate che mi è capitato di trovare stipata in un romanzo. A fare da substrato, un immaginario che trae spunto da quella variopinta fucina sotto culturale che sono stati gli anni ’80-‘90, con riferimenti e citazioni che nonostante tutto continuano a far ridere, a maggior ragione se riproposti in modi e momenti del tutto inattesi. E poi, diciamola tutta, chi non si sentirebbe più al sicuro sapendo d’avere come guardia del corpo Bud Spencer? Pozzetti pesca dunque da un bacino ampio, e lo fa con garbo, senza perdere il suo stile e senza eccedere; riprende alcuni cliché, ma li sa rovesciare e sa servirsene a suo specifico vantaggio.</div>
<div style="text-align: justify;">
Una vicenda corale a cui forse poteva essere dato più respiro, c’erano ampi spazi oltre lo Spazio che giustamente raccoglie le scene finali, ma il destino del mondo si gioca in fondo fra due salotti. Paradossalmente la vicenda, che pur coinvolge il mondo intero, evolve attraverso scene di interni, dialoghi molto articolati e direi teatrali nella loro impostazione, ben condotti, ma che capita facciano perdere il ricordo di quanto sta accadendo in quell’istante nel resto della Terra. A volte il mondo rimane sullo sfondo, come un televisore dimenticato acceso in un angolo della cucina durante un litigio in famiglia. Quasi che si fosse spaventato della gigantesca macchina che ha saputo mettere in moto, Alessandro Pozzetti tiene insomma un po’ il piede sul freno, eppure ciò non è detto sia per forza un male. Alla fine infatti gli consente di puntare sempre le luci sui suoi strampalati personaggi, attori ai quali non si può fare a meno di affezionarsi e con cui ci si diverte con leggerezza, scordando che fuori dalla finestra si sta appropinquando l’apocalisse.</div>
<br />
<b>Alessandro Pozzetti, <i>Auro Ponchielli contro la fine del mondo</i>, Milano, NNE, 2015.</b><br />
<br />ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-21394793043192564792015-07-19T11:51:00.000+02:002015-07-19T11:51:00.029+02:00I dilemmi dell'esordiente<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg96bxYL8-YQyMhKeS-_w-ckw18KxRCK6giW-aYs3CvXIiGFa9-fG3lanQkQxM_-7-rneLtFVPV1DVGZIEwBOueRXbDjUvLb_1ynjKwyK84pdrTGt_v8_zqRA2EBpNux80I18aWzWwBFXE/s1600/bambino+megafono.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" height="202" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg96bxYL8-YQyMhKeS-_w-ckw18KxRCK6giW-aYs3CvXIiGFa9-fG3lanQkQxM_-7-rneLtFVPV1DVGZIEwBOueRXbDjUvLb_1ynjKwyK84pdrTGt_v8_zqRA2EBpNux80I18aWzWwBFXE/s320/bambino+megafono.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<i>Per chi sta sfruttando l'estate allo scopo di concludere la stesura del suo primo romanzo, qualche arguta osservazione in merito al difficile mondo dell'editoria, con quel giusto grado di leggerezza che sarebbe piaciuto ad Achille Campanile.</i> </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Se come me siete degli scrittori esordienti, mi capirete al volo quando dico che questo mondo si compone di scelte e di rinunce. Quando hai la fortuna di ricevere più offerte di pubblicazione, e le metti tutte sul tavolo per compiere la tua scelta, consideri assolutamente ovvio e privo di dramma il fatto che nessuna di queste, presa singolarmente, combinerà tutte le condizioni necessarie per un progetto editoriale serio. Alcune ti offrono una buona tiratura, ma ammettono di non poter garantire la promozione dell’opera («lei, di suo, come se la cava con internet? Ce l’ha un megafono?»); altre garantiscono una rilegatura decente, ma anticipano che il loro distributore non esce dal territorio regionale (e stiamo parlando del Molise); alcune garantiscono royalties superiori al 6%, ma spiegano che per farlo devono vendere il tuo libro a € 48,00 più IVA («ma non si preoccupi, abbiamo già identificato una fascia di mercato rappresentata da Marcello Dell’Utri»); altre dicono che sono in grado di curare rilegatura, tiratura e promozione, ma che per scelta politica non hanno un contratto con un distributore, dunque possono vendere il libro solo a chi va da loro a prenderlo (insieme alla ricotta affumicata che, su prenotazione, fanno nella stessa malga). Così devi scegliere tra più rinunce, valutando quale comprometterà meno la tua performance nel torneo di calcio saponato degli Scrittori Esordienti.</div>
<div style="text-align: justify;">
È un gioco di equilibri talmente delicato che a volte, pur di poter decidere con maggiore leggerezza, ti trovi a cercare il peggio, il punto debole così debole da tagliare la testa al toro, donandoti un criterio con cui escludere tutte quelle opzioni una dopo l’altra, fino a trovarti con una sola carta in mano e valutare che, sì!, quella è la migliore (d’altronde sei persuaso che per conquistare la Nazione si debba pur cominciare da una regione, e che il Molise, letterariamente parlando, sia l’avanguardia d’Italia).</div>
<div style="text-align: justify;">
Ebbene, vorrei descrivere il cruccio in cui mi trovo da quando ho ricevuto la proposta di pubblicazione da parte di una casa editrice che mescola i pro e i contro in maniera così sottile da impedirmi una valutazione distaccata delle sue potenzialità. Il problema non riguarda le garanzie contrattuali – ma, anzi, proprio questo è il punto: che stiamo parlando di una casa editrice che, per la prima volta da sempre, e riuscendo quasi a commuovermi, mi offre tutte le condizioni editoriali per spiccare il volo, ma che tuttavia mi lascia un po’ perplesso a causa di un aspetto probabilmente frivolo, rappresentato dal fatto che tale casa editrice abbia un nome spiacevole (non credo sia determinante, ma per dover di cronaca lo preciso: si chiama «Il Culo Edizioni»).</div>
<div style="text-align: justify;">
Ora, io spero sinceramente che possiate mettervi nei miei panni e non balzare subito alla conclusione che io sia uno di quei tipi con la puzza sotto il naso, o, peggio!, un superficiale. Vi posso garantire che sono assolutamente conscio della fortuna che mi è capitata e che un nome spiacevole non compromette la sostanza, seria e professionale, di quello che mi viene offerto. Dopo che mi sono documentato, non posso negare che, in questo senso, Il Culo Edizioni è veramente una buona casa editrice. Sono inoltre certo che rappresenterebbe il salto di qualità nella mia carriera di scrittore, inserendomi negli ambienti giusti, offrendomi una buona visibilità e garantendomi degli interlocutori con cui crescere. Tuttavia, mi risulta egualmente difficile abituarmi alla sgradevolezza del suo nome.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ho provato a rompere questo indugio concentrandomi sul futuro. Ho immaginato me a cinquant’anni, rancoroso e frustrato, che pubblico le mie storie su libri che si sfaldano ancora prima di essere venduti, con copertine disegnate con paint su una tiratura di venticinque copie; ho pensato a mia moglie che cerca di essere comprensiva, ma che nel frattempo cova dentro di sé una rabbia di ruggine per come sono stato frivolo, oscenamente stupido, a buttare via la mia carriera perché mi sono fossilizzato su un nome. Così ho concluso che sarebbe davvero stupido rinunciare a una pubblicazione con Il Culo Edizioni. D’altro canto mi sono immaginato da Fabio Fazio, a rispondere alle sue domande parlando di Paul Auster e delle <i>Lezioni Americane</i> di Calvino, immerso negli applausi del pubblico che sanciscono il mio ruolo di scrittore, e quando ho immaginato Fabio Fazio che conclude l’intervista alzando verso la macchina il mio romanzo – scintillante, bellissimo, con una rilegatura in oro! – e annuncia: «Elia Rossi! <i>Tra le ali di un angelo</i>! Il Culo Edizioni!», ecco, devo confessare che ho trovato quel nome davvero sgradevole, e che mi sono trovato punto e a capo nel mio dilemma.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ho provato a scandagliare tutti i caratteri di questa casa editrice, nella speranza di trovarne uno – uno solo! – abbastanza negativo da far pendere in modo definitivo la bilancia. Ma niente. Stando a voci sicure, Il Culo Edizioni si occupa con grande cura di tutto il processo editoriale: dall’editing, alla distribuzione; dalla promozione, al contatto con le riviste letterarie, con gli atenei e con i circoli di scrittori. Per puro caso, ho persino scoperto che hanno una collana di filologia rinascimentale ritenuta un faro per tutti gli esperti del settore e che molti luminari hanno ammesso che, oggi, non si saprebbe quasi nulla dei manoscritti clandestini di Chatouclou senza le eleganti ristampe de Il Culo Edizioni.</div>
<div style="text-align: justify;">
Insomma, è una situazione che mi lascia piuttosto perplesso e spero di non prendere decisioni avventate. Ne va della mia carriera, da un lato, e della mia credibilità, dall’altro. Mi confonde molto, e mi getta in un abisso di sensazioni contraddittorie, la fantasia di me che passeggio per strada e che vengo fermato da un vecchio conoscente che mi dice:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Cavolo, ma ho sentito che questa volta hai sfondato! Mi hanno detto che ieri parlavano del tuo libro su RadioDue. Senti, ma, con chi è che hai pubblicato?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Con Il Culo Edizioni».</div>
<div style="text-align: justify;">
«L‘ho già sentita».</div>
<div style="text-align: justify;">
E poi c’è l’altro aspetto – probabilmente quello che mi smarrisce di più. Mi riferisco al fatto che la mia opera in questione, ovvero <i>Tra le ali di un angelo</i>, sia, nella fattispecie, un libro per bambini. È una storia briosa ma edificante, che racconta con grande discrezione le peripezie di un topolino che perde la propria madre e che la ritrova dopo un periglioso viaggio in un bosco incantato; una storia pensata per la fascia d’età della prima elementare, quella dei bambini che leggono ad alta voce, pronunciando le sillabe mentre le seguono col ditino. Vi prego un’altra volta di non essere precipitosi nel giudicarmi culturalmente schizzinoso. Voglio solo dire che trovo spiacevole l’idea che dei bambini di prima elementare abbiano fra le mani quel mio libro – scintillante, bellissimo, con una rilegatura in oro! – e che sotto al loro nasino ci siano le scritte: E-li-a Ros-si, Tra le a-li di un an-ge-lo e Il Cu-lo Edi-zio-ni.</div>
<div style="text-align: justify;">
Così, questa mattina, dopo molti giorni in cui leggevo e rileggevo quel contratto senza venire a capo di una decisione, ma anzi impastoiandomi sempre di più nel gioco infinito dei tuttavia e dei però, ho deciso di telefonare alla redazione de Il Culo Edizioni. La mia speranza era che il numero fosse inesistente, o che la centralinista mi rispondesse dalla Moldavia figendo un amplesso, così che io trovassi finalmente il granello negativo capace di far precipitare il gioco. Ho sentito una musica di Brahms e una voce registrata che diceva:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Risponde la segreteria telefonica de Il Culo Edizioni. Lasciate un messaggio e verrete richiamati non appena uno dei nostri telefonisti sarà disponibile».</div>
<div style="text-align: justify;">
Ho sparato grosso e ho detto che volevo parlare col Direttore, così da concludere che erano inaffidabili se non mi avessero ritelefonato entro una settimana. Dopo neanche cinque minuti il mio telefono è suonato:</div>
<div style="text-align: justify;">
«Dottor Rossi?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Sì?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Sono Attilio Robellotti della Loggia. Direttore de Il Culo Edizioni».</div>
<div style="text-align: justify;">
E io ho dovuto riconoscere che, anche sul piano della comunicazione, Il Culo Edizioni è assolutamente professionale. Ho pensato che non fosse il caso di menare il can per l’aia e ho parlato in modo assolutamente sincero al dottor Robellotti della Loggia.</div>
<div style="text-align: justify;">
«Non vorrei davvero essere indiscreto, ma le posso fare una domanda?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Mi dica dottor Rossi».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Le posso chiedere il perché di questo nome?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Il Culo Edizioni?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Esatto…».</div>
<div style="text-align: justify;">
«In che senso?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Perché avete deciso di chiamarvi così…».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Così nel senso di Il Culo Edizioni?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ecco… sì…».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Che domande! Suppongo perché siamo una casa editrice. Se ci fossimo occupati di altro, avremmo potuto chiamarci, non so, Il Culo Onoranze Funebri, non trova?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Tuttavia, visto che è così gentile, mi piacerebbe sapere anche il perché dell’altro nome…».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Il Culo?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ecco… sì…».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ah. Per quello non c’è una ragione precisa. Ci saremmo potuti chiamare anche Asdrubale Edizioni, o Asclepio Edizioni. Ma siccome non ci piaceva né Asdrubale, né Asclepio e un nome andava scelto, abbiamo optato per Il Culo. È un nome come un altro».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Ma siete nati come casa editrice umoristica?».</div>
<div style="text-align: justify;">
«Assolutamente no. Noi non crediamo nell’umorismo. L’umorismo è stupido. Non interessa vendere libri stupidi, a noi de Il Culo Edizioni».</div>
<div style="text-align: justify;">
Insomma, è andata a finire che il mio cruccio non si è dissolto e a me non resta che lambiccarmi fino allo scervellamento, in questo stallo di pro e di contro che mi logora fino a sfinirmi e che vede il mio tempo sfumare come polvere, tempo che potrei usare per scrivere, per pubblicare, per promuovere – per costruirmi una carriera di scrittore, insomma; e che invece uso per maledire il dannato sapore delle parole, che a volte è capace di far precipitare gli uccelli, altre di far volare i maiali.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: right;">
<i>(Post di Elia Rossi - tratto dal <a href="https://lannodeicavoliamerenda.wordpress.com/" target="_blank">blog personale</a>)</i></div>
<div style="text-align: right;">
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-14189803713356677822015-03-31T21:56:00.000+02:002015-03-31T21:56:50.093+02:00Grigi colpi di tosse<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAdkN03Gym1dEgigzWkYTOeaoH9IvvZjhvLnbteGZUxQoN1yIHsQ9ynt9xxJ28IBkdUA5T7UsB2Jt3PrABdnvRbdZk_mhyphenhyphenSFXCLnyEc9EZwrPmleaAI0oLPnsPM7h08u2gDwDSAwffZ-c/s1600/Corrigan+copertina.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAdkN03Gym1dEgigzWkYTOeaoH9IvvZjhvLnbteGZUxQoN1yIHsQ9ynt9xxJ28IBkdUA5T7UsB2Jt3PrABdnvRbdZk_mhyphenhyphenSFXCLnyEc9EZwrPmleaAI0oLPnsPM7h08u2gDwDSAwffZ-c/s1600/Corrigan+copertina.jpg" height="242" width="320" /></a><span style="text-align: justify;"></span><br />
<div style="text-align: justify;">
La vita è fatta di silenzi e da infiniti piccoli rumori di fondo. Questo ha ispirato Chris Ware mentre faticava sulle tavole illustrate, e partendo da quel pensiero è andato costruendo un’opera a suo modo monumentale. Ma un monumento di silenzio, in che modo lo si potrebbe rappresentare? Lo immagino come gli spazi vuoti di una esposizione universale, molti giorni prima dell’inaugurazione. Un’esposizione di metà Novecento, con grandi architetture di marmo, obelischi, colonne, cupole rivestite di rame, bandiere sui tetti, e spazi immensi, persino una piscina dalle dimensioni tali da poterci rappresentare una battaglia di navi simile a quella che i romani antichi facevano allagando piazza Navona. Jimmy Corrigan, il protagonista, quando suo padre lo accompagna a visitarla, ne parla come della «impresa più grande dell’umanità» (citazione circa a metà del libro, le pagine non sono numerate). Ci si può davvero perdere in uno spazio così sconfinato e pieno di niente. E Jimmy Corrigan è spesso perduto, incapace di muovere un passo in qualsiasi direzione, proprio lui, il ragazzo più in gamba sulla terra, che il suo creatore deride ripetendo l’appellativo a mo’ di ironico ritornello. E mentre ci sfugge quel mezzo sorriso, ci viene pure il dubbio che ad essere preso in giro non sia solo il povero Jimmy. Se proviamo a svelare la metafora, quell’enorme spazio espositivo, quella grande promessa architettonica di meraviglie che però nessuno ancora vede, non rassomiglia forse alla vita di ciascuno di noi? Non è che forse noi stessi vogliamo a volte convincerci che, tutto sommato, siamo fra i ragazzi più in gamba sulla terra? Non è che questa rassicurante storiella ce la raccontiamo di tanto in tanto? </div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Quello che fa Chris Ware è prendere l’intera vita di un uomo e farla a fette, mandando all’aria la classica e rassicurante sequenza cronologica. La ricostruzione degli eventi avviene così nello stesso modo in cui si compone un puzzle, pezzo dopo pezzo, ma senza che alla fine l’immagine che ci troviamo di fronte comunichi realmente qualcosa. Sarebbe sbagliato correre verso la fine pensando che la risposta, il senso, saranno lì. Bisogna invece gustare i momenti, i silenzi, le vignette minime, le differenze impercettibili, e appunto i piccoli rumori di fondo. Le ritmiche onomatopee che punteggiano tutte le 380 pagine come fossero un morbillo. Sospiri, colpi di tosse, ansimi, singulti, i personaggi parlano poco, eppure non tacciano mai, producono rumori di fondo che sono la vita nella sua solitaria essenza. Se il nostro corpo è una macchina, quei suoni che Jimmy Corrigan sente di continuo ripetersi attorno a sé, sono i cigolii e gli sbuffi della nostra macchina che procede con fatica sulla strada inevitabilmente in salita. Non riesce purtroppo a correre spedita questa benedetta macchina, sbanda di continuo, ha problemi di convergenza, è tristemente frenata dai rimpianti e dai rimorsi. Jimmy fa collezione di rimpianti, quante cose dovrebbe aver fatto! Almeno così ci sembra, anche se non sappiamo mai bene quali dovrebbero essere queste cose. Ai rimpianti mette a servizio un’immaginazione un po’ piatta, ma sempre in moto, incessante nell’inseguire sogni di donne amate, di lavori migliori, di genitori affettuosi.</div>
<div style="text-align: justify;">
Un volume controverso a cui non manca l’autoironia. «Stampa abbindolata con niente» si intitola infatti la rassegna di commenti che l’edizione italiana colloca in apertura, alternando i giudizi più disparati – ma per la gran parte largamente positivi – fra cui quello del <i>Madison Daily Cardinal</i>: «La trama, i personaggi, il tratto, il suo collocarsi tra pensiero e realtà sono l’opera di un genio sommesso, complesso». Il carattere peculiare della graphic novel di Ware si esprime variamente, <i>in primis</i> nella sua forma ad album (in fondo come un vecchio raccoglitore di foto) e nelle tante vignette che compongono anche una sola pagina, in una sequenza non sempre evidente. Ma quando mai la vita procede in maniera ordinata? Un ragionamento simile si potrebbe fare in riferimento ai colori, che giocano per lo più su sfumature autunnali, «i colori sono terribili, sembra di guardare una confezione di detersivo. Colori pallidi da morire, ripugnanti» disse il poeta Tom Paulin durante un BBC Newsnight, ma quando mai la vita si srotola su colori vivaci e sgargianti? Altrimenti il nostro Corrigan non sarebbe più l’immagine del nostro sopravvivere, dell’eterna altalena di rimpianti e rimorsi, del niente che ci accompagna e fatalmente abbindola la Stampa.</div>
<div style="text-align: justify;">
A me ha fatto lo stesso effetto di certi cibi inconsueti, quasi sgradevoli. Tipo le patatine al lime. Lentamente il palato mi si è assuefatto al gusto, e mi sono reso conto che non avrei più smesso di pescare dal sacchetto fino al momento in cui l’avrei trovato vuoto. Con <i>Jimmy Corrigan</i> è stato così: all’inizio mi sfuggiva il senso, mi lasciava perplesso, eppure il desiderio di proseguire la lettura attraverso quei 3072 disegni e quelle 47339 parole cresceva irresistibilmente. E mi è spiaciuto molto quando ho scoperto che il sacchetto era vuoto. Con quel niente avrei potuto andare avanti per tutta la vita. </div>
<br />
<b>Chris Ware, <i>Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla Terra</i>, Milano, Mondadori, 2009.</b><br />
<div>
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7657338193391926458.post-47820577436320290572014-12-21T18:36:00.001+01:002014-12-21T18:36:04.237+01:00Sfoglia un museo, visita un libro<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjQxwOohaNyPBVBht2BkZrlNli5qkPg6xbKZkOeB1pdjHLr4YrRzc4xfcGKKzMMwPIGdjGlv7cOSD57qFPFTLivtsPwu2KMuP5c5Z7CKHQRFPnnQTXWzFFoSiedEk7Jm7cLnop1khl977s/s1600/casa+de+libros.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjQxwOohaNyPBVBht2BkZrlNli5qkPg6xbKZkOeB1pdjHLr4YrRzc4xfcGKKzMMwPIGdjGlv7cOSD57qFPFTLivtsPwu2KMuP5c5Z7CKHQRFPnnQTXWzFFoSiedEk7Jm7cLnop1khl977s/s1600/casa+de+libros.jpg" height="224" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
Lo scrittore sfila dalla stampante l’ultima pagina, ricompatta la pila di fogli e soppesa la sua opera</div>
<div style="text-align: justify;">
appena compiuta. Deve decidere cosa farne ora, di quel romanzo su cui ha speso tante ore, su cui ha lavorato di lima e di fantasia per mesi se non per anni. Deve trovare il modo per dargli voce, per farlo diventare qualcosa che non sia solo una risma di carta. Da un’altra parte, in un deposito o in una cantina, una collezione di oggetti storici o artistici giace chiusa a chiave dietro ad una porta. Di per sé, nello stato in cui si trova, essa appare semplicemente come un insieme raccogliticcio di cose vecchie.</div>
<div style="text-align: justify;">
Qual è il tratto comune fra la risma di carta stampata e la collezione dimenticata? Sono entrambe esempi di un contenuto inespresso. Lasciamo da parte qualsiasi giudizio di merito, sappiamo molto bene che ci si può imbattere in contenuti per loro natura così poveri da non giustificare neppure la fatica di una rapida occhiata. Rimane tuttavia valido il principio, al di là del valore intrinseco, che senza un’azione di <i>valorizzazione</i> variamente declinata, un qualsiasi romanzo o una qualsiasi collezione sono contenuti inespressi, sono realtà mute. Lo si può dimostrare mettendo a confronto i due rispettivi ‘contenitori’, due luoghi simbolo della conoscenza: il libro e il museo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Mi sono chiesto di recente se ci sia una diretta connessione fra il piacere che si prova nel leggere un libro e quello che si prova nel visitare una mostra d’arte. La risposta è da un lato evidente, sono attività con le quali si passa piacevolmente del tempo e si impara qualcosa, tuttavia c’è modo di individuare dei legami maggiormente caratterizzanti. Per esporre la questione distinguo innanzitutto due punti di vista: il primo è quello del visitatore-lettore, che chiamerò genericamente <i>fruitore</i>; il secondo quello del curatore-editore, che riunisco sotto la definizione di <i>valorizzatore</i>. Se tale accostamento di punti di vista, combinati due a due, si dimostrerà sensato, avremo come conseguenza la possibilità di assimilare il visitatore di una mostra al lettore di un libro, e il curatore di una temporanea d’arte all’editore di un’antologia. Dato questo assunto, ne deriverà che i luoghi/oggetti in cui quelle dinamiche si esprimono, sono nella loro sostanza di base accostabili, cioè che per certi versi un museo e un libro funzionano allo stesso modo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Notate che volutamente ho escluso dal discorso l’autore; non considero l’artista o lo scrittore. Di fatto il loro mestiere è un altro: la creazione si colloca prima dell’esperienza del fruitore e sta su un altro piano. Il pittore al lavoro nel proprio studio non dialoga direttamente con l’appassionato d’arte che visita una sua personale. Nel mezzo c’è sempre il valorizzatore, colui che ha preso i quadri e ne ha fatto narrazione, efficace o meno che sia. Il mio intento è infatti di evidenziare dei ruoli, ma ciò non significa che uno scrittore non possa diventare editore (valorizzatore) di sé stesso, si tratta però di un cambio di ruolo, e non scontato. La testa è la stessa, ma il cappello cambia.</div>
<div style="text-align: justify;">
Il fruitore inizia la sua esperienza aprendo una porta oppure girando una pagina. Con questi gesti egli accede ad un contenuto che è stato strutturato per essere leggibile, nel senso più ampio del termine. Consideriamo infatti che il contenuto è sempre una narrazione nella quale il fruitore è disposto ad immergersi. A tale buona disposizione non si arriva solamente in virtù della altrettanto buona volontà del fruitore, quanto grazie alla capacità di avvincere della narrazione. Essa deve essere costruita in maniera che il fruitore sviluppi immediatamente il desiderio di esplorare il contenuto per intero, di andare oltre, sino all’ultima sala, sino alla parola fine. A quel punto, quando avrà concluso la lettura del libro o sarà uscito dal museo, il lettore sarà soddisfatto e racconterà agli amici della felice esperienza, divenendo il miglior vettore per la proliferazione dei fruitori.</div>
<div style="text-align: justify;">
L’obiettivo primo del valorizzatore è dunque costruire una narrazione che sia avvincente dal primo istante per chi vi si accosta, che non deluda nel suo svolgersi, che si concluda con piena soddisfazione del fruitore. Il luogo dove tutto ciò avviene, in maniera molto simile, sono il libro e il museo. Essi sono il luogo. Prima dell’intervento del valorizzatore, quei luoghi non esistono. Il libro va progettato, come oggetto fisico o come oggetto digitale, e palesato, reso visibile, distribuito, per usare il termine editorialmente più corretto. La collezione di un museo va catalogata, organizzata e collocata in un contesto, e solo in quel momento davvero esiste, dopo che il valorizzatore gli ha dato forma. Quello è lo spazio in cui il fruitore si muove, in cui sosta oppure passa via veloce, in cui si sofferma e viene stupito e interessato, in cui a volte si annoia. Voltare pagina o cambiare sala sono gesti affini in questa prospettiva. Il modo di pensare del valorizzatore, di costruire la narrazione attorno alle opere, è basata su meccanismi precisi, su regole che si studiano e che si apprendono con l’esperienza, e che alla fine dimostrano di rispondere a linee guida teoriche valide tanto per la museologia quanto per l’editoria.</div>
<div style="text-align: justify;">
Benché un’esposizione frequentata da più persone in contemporanea, all’interno di uno spazio delimitato, sia cosa ben diversa rispetto ad un oggetto da tenere in mano per essere sfogliato in solitudine, tuttavia i principi su cui si costruisce un museo o si progetta un libro sono molto simili. Chi entra in libreria o si accosta ad una biglietteria di una mostra, ha deciso di investire tempo e denaro in un’attività ludica e istruttiva, e chiederà ad essa di rispondere alle sue aspettative secondo alcune modalità precisamente definibili. Non è questa la sede per analizzare nello specifico tali modalità, per chiudere mi limito a suggerire che, per chiunque lavori nell’editoria o in ambito museologico, potrebbe essere interessante giocare sulle affinità tra i due luoghi: fermarsi un momento, in fase di progettazione, ad immaginare la mostra come fosse un libro, ad immaginare il libro come fosse una mostra.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
ilVoltaPaginehttp://www.blogger.com/profile/05155570886292256146noreply@blogger.com0