domenica 21 marzo 2021

Ed era come un mal di Bosnia #5

Quinta parte

                                                                         (qui trovi la prima parte, la seconda, la terza e la quarta)

Sarajevo ci aspetta, noi invece non sappiamo cosa aspettarci da lei. Siamo in terra di Bosnia da meno di ventiquattr’ore e il senso di straniamento che abbiamo provato subito al confine, con l’attraversamento della Sava, non si attenua. Si fa al contrario più intenso e non ne riconosciamo le ragioni. Appena ieri eravamo a Zagabria, che solo per un caso della vita ci è divenuta familiare, e ieri l’altro eravamo a Trieste, familiare per lo stesso casuale motivo; ora invece siamo in un’automobile a percorrere la rete stradale bosniaca. Lo stupore nella dimensione del viaggio è una sorta di tormentone della nostra famiglia – leggendaria è rimasta quell’ennesima gita a Parigi nella quale io, a ogni angolo già ben noto, non facevo altro che esclamare: «Che meraviglia! Che meraviglia!» –; questa volta però la sorpresa dell’essere altrove è particolarmente intensa, forse proprio perché non ne individuiamo la radice, è sorpresa pura. L’indeterminatezza di questo viaggio estemporaneo, nato senza preparazione e senza progetto, ci emoziona.

Tea è quieta sul plaid che abbiamo steso sul sedile posteriore – al noleggio croato sono stati categorici, l’auto deve tornare nelle stesse esatte condizioni di consegna, ogni leggerezza sarà severamente punita in solido –, è tranquilla come non mai, sembra una piccola sfinge nera e riccia che di tanto in tanto si umetta il naso con la lunga lingua rosa. Seguire l’esempio di Tea: accomodarci anche noi in carrozza e abbandonarci alla strada.

La macchina rulla sull’asfalto impeccabile, la radio suona nemmeno a dirlo musica balcanica, la cagnetta sonnecchia; dopo il viaggio in notturna della sera precedente, noi possiamo finalmente osservare il paesaggio illuminato dal giorno. E, come avevamo potuto intuire tra la bruma, il buio e i nostri fari accesi, attorno a noi, con la luce, si materializzano scenari suggestivi. L’autunno rosso e giallo è nel pieno del suo rigoglio, la Vrbas scorre, ci affianca e continua a indicarci la via, tra gole scavate dall’acqua, colline spruzzate di colore, paesaggi non popolati da esseri viventi. 

Una natura solitaria, dove l’umano prende la forma di moschee rurali con l’immancabile cimitero di lapidi bianche tutte identiche tra loro, o di piccole fattorie sempre circondate da orti variamente estesi, con i monumentali covoni di fieno che montano la guardia ai campi coltivati. Oltre ad alcuni curiosi e minuscoli ponti tibetani, fra le tracce indirette dell’umano più di tutte mi incuriosiscono i binari ferroviari: da dove arrivano e dove vanno queste rotaie ravvicinate su traversine corte, segmenti di percorsi frammentati, privi di un inizio e di una fine, che scorgo al di là del finestrino? Sembrano tante graffette di spillatrice che ancorano la terra a sé stessa. Mi chiedo se siano ancora in uso o se si tratti di retaggi metallici del vecchio mondo jugoslavo. Poi, in un momento ormai imprecisato del nostro andare bosniaco, compare lui, come in una visione onirica e felliniana: un convoglio sottile e lunghissimo che, miniaturizzato nell’estensione del paesaggio aperto, sembra un trenino elettrico di quelli belli del modellismo d’antan.

A intervalli quasi costanti, il ciglio della strada si popola dei frutti delle attività agresti: bancarelle espongono, racchiusi in grandi reti rosse a maglie fini, cavoli cappucci bianchi, di quella speciale qualità piatta che prima di quel momento avevo visto solo al Dolac, il principale mercato di Zagabria; piccoli peperoni albini sistemati in forma di piramide, anch’essi noti per le vie zagabresi (nella foto); pile di vasi di miele di tutte le sfumature dell’ambra – al ritorno in Italia leggerò sul sito di Slowfood che il miele dell’Erzegovina è il più rinomato dei Balcani e, in effetti, ricordo di aver visto anche molte arnie. Il profilo pastorale del paese si manifesta, ugualmente sul ciglio della strada, nelle indicazioni fotografiche, sempre molto eloquenti e invitanti, dei ristoranti che servono ogni tipo di carne alla brace; in un caso, una schiera di dorati agnelli allo spiedo sfrigola in bella mostra poco oltre la striscia laterale della carreggiata. «Tra le specialità bosniache riconosciute a livello internazionale si distinguono le carni alla griglia», avevo letto nella guida. Mai ci fu tanta corrispondenza tra una guida e un viaggio. Per un momento siamo tentate di fermarci al volo per una seconda e inconsueta colazione, ma poi il richiamo di Sarajevo vince sull’acquolina.

«Tra i formaggi, la Bosnia Erzegovina ne offre tra i più nobili e saporiti di tutti i Balcani […] Sempre fresco è il travnički sir, originario della cittadina di Travnik nella Bosnia centrale». Mentre seguo il nostro percorso sulla mappa cartacea, mi accorgo che, anche in questo caso, la guida non sbaglia: i banchetti di cavoli e di peperoni hanno improvvisamente lasciato il posto a una analoga miriade di espositori, ma di ‘formaggio di Travnik’, appunto. Una sequenza quasi senza fine di piccole forme bianchissime che diventa per noi, estimatrici di latticini, oltre che motivo di meraviglia anche un incontrovertibile segno che siamo sulla strada giusta. Sappiamo infatti di dover oltrepassare la città per proseguire nel nostro corretto andare verso sud-est.

Travnik. I più colti, o anche solo appassionati di una certa narrativa, lo avrebbero pensato subito: Travnik, Ivo Andrić. Io l’ho scoperto attraversando la Bosnia in automobile. Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura nel 1961, era nato nel 1892 appunto nella città che ci apprestiamo ad attraversare, quando quelle terre erano ancora territorio dell’Impero austro-ungarico e ancora prima – poco prima, in realtà, 1878 – dell’Impero Ottomano. Ora, mentre scrivo, sfoglio la mia copia de Il ponte sulla Drina, tra i suoi più celebri romanzi: l’ho pescata dallo scaffale dell’usato della mia libreria di fiducia; la stavo attendendo da mesi e alla fine si è materializzata in piena estate: esempio del fatalismo che talora mi piglia in fatto di approvvigionamento di libri, di tanto in tanto acquisiti non per ordinazione, ma per via epifanica.

La mia Drina è una edizione del 1963, ben tenuta, appartenuta a ‘S. Maria’ che la acquistò in quello stesso anno e che ha voluto fissare l’evento con un inchiostro grigio dal tratto sottile, sul primo foglio dopo la copertina. La narrazione ha lo stesso andamento del fiume del quale racconta: si incunea, scava, si gonfia nella piena per tornare a un placido corso, e poi daccapo. «Ma nell’anima loro erano seriamente preoccupati, e ciascuno, sotto quelle celie e quelle risate controvoglia, come sotto una maschera, rimuginava nella propria mente pensieri affannosi, e tendeva incessantemente l’orecchio per sentire lo strepitio dell’acqua e del vento proveniente dalla parte bassa della cittadina, dove erano rimasti tutti i suoi averi».

Siamo in macchina, a metà del nostro tragitto, e ancora non possiamo sapere che Sarajevo ci avrebbe insegnato a non fidarci della spensieratezza, dell’allegria, della normalità che pure avremmo visto; che, al contrario, ci avrebbe costrette a guardare oltre quelle maschere. È a Travnik però che giunge il primo e potente invito a modificare il nostro sguardo. Siamo ferme a un semaforo in periferia, ma sulla direttrice principale e, nell’ordine: inveiamo contro un traffico che ci sembra fuori controllo; ci diciamo che abbiamo fatto bene a dormire a Jajce perché Travnik sarebbe stata troppo caotica; ci assicuriamo del benessere di Tea; saltiamo da una stazione radio all’altra; sgranocchiamo gli ultimi taralli del giorno prima. Facciamo insomma cose normali dentro l’abitacolo dell’auto. Infine, un’ulteriore azione normale: rivolgo lo sguardo fuori dal finestrino.

Raggelo all’istante. D’improvviso non è più normale alcunché. Spero che il semaforo continui a essere rosso quel tanto che mi permetta di poter sciogliere la lingua, riprendere la respirazione, rimettere in moto i muscoli facciali ed espirare il fiato necessario a richiamare l’attenzione di Junior e di Seniorsenior su ciò che sto fissando con gli occhi ormai dilatati su tutto il mio viso. Tra i palazzoni grigi dalle inconfondibili forme dell’edilizia sovietica, ne spicca uno dalla medesima discutibile estetica e perfettamente intatto come gli altri, tranne che per un dettaglio: nell’intonaco tra l’ultimo piano e il lastrico solare si apre una estesa screpolatura a forma di stella molto irregolare. I segni del mortaio.

Come davanti ai monumenti ai caduti di Jajce, il cortocircuito si innesca di nuovo nel tempo di uno sguardo: attraverso il battito delle mie ciglia, la dimensione agreste-pastorale, i colori dell’autunno, le suggestioni letterarie, il nostro stesso essere in viaggio in un fine settimana lungo di novembre entrano in collisione con quella traccia sull’intonaco di un palazzo qualsiasi sulla strada principale di Travnik. Silenzio nell’abitacolo. Poi sento il suono della mia voce: «Ma quello è il segno di un mortaio vero». Venticinque anni dalla fine della guerra e quel segno è ancora lì, mentre l’intorno è permeato di quotidianità e di vita che scorre. E quel segno è lì. Senza il filtro della testimonianza, del racconto, del libro di storia.

Il verde infine scatta, Junior ingrana la prima e poi la seconda, Tea – che si era alzata sulle quattro zampe come a voler anch’ella prendere parte a quel momento – si accuccia di nuovo accanto a Seniorsenior che tace e la accarezza sulla testa; io do distrattamente un’occhiata alla mappa stradale.

(Post e foto di Eva Ponzi)

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto

mercoledì 13 gennaio 2021

Ed era come un mal di Bosnia #4

Quarta parte


Nel grigio brumoso del risveglio a Jajce, la varietà cromatica dei crisantemi colpisce il mio occhio. Accostate le une alle altre, turgide e rigogliose piante dal portamento cespuglioso creano una distesa di cupolette fiorite, meta di un viavai di persone, perlopiù uomini, incaricati di acquistare per i propri morti uno di quegli omaggi brillanti. E l’impressione è che qui i morti siano ben più dei vivi. Ma non è solo un fatto di numeri, piuttosto di peso: appena oltrepassato il confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina, i cimiteri divengono parte integrante del paesaggio nell’autunno in fiamme. Agglomerati bianchi di steli sobrie – così come impone la tradizione dell’Islam –, erette nel terreno a declivio sulle alture oppure tra un campo coltivato e una piccola moschea di campagna. A dire il vero, mi chiedo chi siano i veri destinatari di tutti quei vasi: da quello che so, l’austerità islamica in fatto di addobbi tombali prevede l’assenza di chincaglierie, di esibizioni di dubbio gusto, di fiori appunto. Il cimitero monumentale di Sarajevo, sulla collina di Alifakovac, mi dimostrerà una volta di più che anche il dogma può essere sfumato. Lì arbusti di rose e cespugli variamente fioriti condividono la terra con i trapassati, concime per le piante: tra loro e le radici nessuna barriera di legno e di zinco a impedire lo scambio di vita – l’inumazione avviene infatti senza feretro. In questo viaggio, i morti visibili e invisibili ci ricorderanno di continuo, e nei momenti più impensati, della loro presenza.

Il nostro nuovo ingresso in città è epica e cinematografo – peccato non ci fosse nessuno a riprendere la scena –: appena varcata la porta Banja Luka (quella a nord), un nutritissimo branco di cani randagi di ogni razza, taglia, colore ci viene incontro per fare gli onori di casa (e ora capisco decisamente meglio il problema segnalato dalla guida). Si muovono tutti insieme verso di noi, incedono lenti e compassati, non si curano degli autoctoni, siamo noi che sentono di dover accogliere, procedono come un’unica nuvola pelosa, un corpo patchwork con tante zampe, silenzioso, coordinato nei movimenti con precisione marziale. Poi la nuvola si apre e, sempre lenta ma sicura, ci ingloba completamente; benché bipedi (la nostra barboncina saggiamente lasciata nell’appartamento), iniziamo anche noi a ondeggiare allo stesso passo di quei dieci-quindici cani, che io tanti cani così in vita mia non li ho mai visti e meno male che nel frattempo nella nostra vita è entrata Tea ché altrimenti a Jajce con tutti quei cani randagi intorno un attacco di panico non ce lo avrebbe tolto nessuno. La falange canina sa che il nostro corpo ha bisogno di energia, ci scorta perciò fino a un ottimo bar-pasticceria per la colazione.

Appena entriamo, il branco si dilegua così come era apparso, mentre sul nostro tavolo si materializzano triangoli di baklava preparato a regola d’arte, un miracolo di sciroppo di zucchero, frutta secca, sfoglie croccanti e dorate. È un prodigio della fisica il baklava, umido ma non ammollato, morbido ma sodo sotto i denti, familiare ma esotico. Molti lo trovano troppo dolce e stucchevole, io non smetterei mai di mangiarne proprio per gli stessi motivi. È l’equilibrio nell’eccesso. Gustato poi insieme al caffè turco, servito con il servizio di rame come usa da queste parti, il baklava spalanca le porte della percezione.

«Da ieri mattina la città di Jajce, a metà strada tra Banja Luka e Sarajevo, è controllata dalle forze serbe. I difensori croati e musulmani e la popolazione civile si sono ritirati verso Travnik. Si conclude così la battaglia per quello che fonti serbe definiscono il ''confine meridionale della Krajna'', con capoluogo Banja Luka» e poi «Resta incerta intanto la situazione a Jajce e Travnik sottoposti ieri a intensi bombardamenti. Da Jajce verso Travnik e verso Bogaj si riversano decine di migliaia di profughi per cui gli attacchi delle artiglierie vengono visti in funzione di questo esodo, cioè come una manovra per costringere gli sfollati, anche a costo di uccisioni di massa, ad allontanarsi quanto più possibile dalla zona che evidentemente le truppe serbe intendono ''epurare'' etnicamente in via definitiva». Trovo on line nell’archivio dell’Adnkronos queste brevissime notizie, datate fine ottobre-primi novembre 1992, quando cerco di capire perché nel bel mezzo del centro storico della città vi siano due monumenti ai caduti, l’uno di fronte all’altro, uno con la bandiera blu/gialla a stelle bianche della Bosnia, l’altra rossa/bianca/blu con lo scudo a scacchi rossi/bianchi della Croazia. Eccoli i morti, arrivano così, tra una passeggiata con i cani randagi e una dolcissima colazione. Solamente tornata in Italia leggerò Maschere per un massacro di Paolo Rumiz, lucido, illuminante, dolorosissimo, denso volume che racconta vita morte e nessun miracolo dell’incredibile guerra al di là dell’Adriatico tra il 1991 e il 1996. Difficile capire fino in fondo anche quando a spiegare è uno come Rumiz, che quelle cose le ha viste, sentite e persino annusate, perciò su questo argomento non dirò null’altro se non delle emozioni raccolte sui luoghi.

Mi guardo intorno, il cielo è plumbeo, gli abitanti di Jajce sembrano sereni, fanno cose normali, gli uomini parlano tra loro in piccoli capannelli, le donne con il capo cinto da fazzoletti portano buste della spesa oppure vendono agli angoli delle strade i prodotti del loro orto, alcune hanno persino allestito bancarelle di fortuna sulle soglie dei negozi ancora chiusi; passano due poliziotti a piedi a pattugliare la via principale; a una a una aprono le piccole botteghe turistiche con souvenir molto artigianali, come i magneti da frigorifero ottenuti dalla sovrapposizione tra calamita, tassello di formica, foto delle cascate nella bella stagione o ghiacciate dal freddo invernale (naturalmente ne prendo una per la mia collezione).

Il cartello marrone indica come punti di interesse storico il convento francescano e la moschea Esme Sultanije, il sottofondo sonoro è lo scroscio dell’acqua che appena fuori dalle mura fa un salto di 20 metri. Osservare e ascoltare questa vita, poi girarsi verso i monumenti ai caduti crea un cortocircuito difficile da raccontare: la memoria della guerra occupa uno spazio visivo maggiore di quello della moschea, ma è contemporaneamente compresso tra una specie di pub e una panetteria; è una presenza difficile da ignorare, ci devi per forza passare in mezzo, ma è un attraversamento che ti porta all’attrazione principale della città o alla pizzeria riadattata alla bosniaca. La vita e la morte qui si confondono, si compenetrano, non hanno confini definiti, sei continuamente costretto a passaggi di stato tra le due condizioni, non puoi considerare l’una senza imbatterti nell’altra, e viceversa. Realizzo che la maggior parte delle persone che incontriamo per la strada era qui – o chissà dove, a dir la verità – durante il conflitto; non sparuti testimoni di un passato da tramandare (questo normalmente è il nostro orizzonte, per questioni cronologiche), ma protagonisti vivi e attivi (da quale parte stavano?) di drammatiche vicende che ancora oggi serpeggiano in questa società.

«In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: “Est”. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude. “Quando mi presento come europeo d’Oriente”, mi raccontò un giorno Aydin Uğur, professore di comunicazione all’Università di Istanbul, “mi godo lo smarrimento nei miei interlocutori dell’Ovest. Pensano che l’Oriente stia solo in Asia”». Rileggo queste parole ancora in Paolo Rumiz, È Oriente: la sensazione di essere in un luogo distante eppure familiare aumenta.
Ci rimettiamo in macchina, attraversiamo porta Travnik, aperta verso il Meridione.
Sarajevo calling.

(Post e foto di Eva Ponzi)

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto

venerdì 8 gennaio 2021

La felicità è altrove

romanzo bisson
Più di dieci anni orsono, in uno dei primi post di questo blog, citavo Anton Ego, il severo recensore gastronomo di Ratatouille: «Per molti versi la professione del critico è facile. Rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare, è che nel grande disegno delle cose anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale».

C'è dunque sempre inevitabile la tentazione a mettere più anima nelle cose. Anche se una norma a cui il recensore di libri dovrebbe sempre attenersi, è quella di non provare mai a saltare sull'altra riva. Il recensore che diviene scrittore si espone ad un alto rischio, anzi almeno a due. Offrire il destro alla vendetta di chi fu a suo tempo stroncato dalle sue parole, e perdere la libertà di potersi esprimere liberamente rispetto alle creazioni dei 'colleghi'.

Detto ciò, mi sento serenamente tranquillo nel correre il rischio, non tanto per la fiducia in ciò che vado qui sotto a proporvi, quanto per simpatia verso il motto "in fondo si vive una volta sola".

Per farla breve, ecco la notizia: è uscito per l'editore Diacritica il mio romanzo La felicità è altrove, lo potete scaricare liberamente da qui, ma a quel punto vi toccherà pure leggerlo e se volete commentarlo.

Mi farà in ogni caso piacere.

(Post di Sebastiano Bisson)