domenica 28 aprile 2013

Addio all'editore


Samuel Riba ha inseguito gli scrittori, anzi le loro storie, per tutta la vita, dunque è spontaneamente portato ad inseguire allo stesso modo tante storie nella sua testa, a incrociare i pensieri, a inventare bugie verosimili – ecco una buona definizione di romanzo – dovendole poi alimentare perché il palco non cada, perché la finzione della sua vita di editore di successo continui a rimanere in scena, nonostante una realtà ostinata, contro ogni apparente buon senso, a procedere in direzione contraria. Purtroppo la morte del libro è sempre più spesso evocata, si sta assistendo alla scomparsa degli scrittori letterari, i giornalisti decretano: «non ci sarà ragione che riesca a deviare tale penoso destino, né chiaroveggente o profeta che possa proteggere la sua sopravvivenza. Il funerale ha iniziato la sua marcia» (pp. 38-39). Allora che splendido senso assume il proposito di Riba, fino ad allora mai realizzato, di recarsi a Dublino in concomitanza con il Bloomsday e celebrare in quell’occasione il funerale dell’era di Gutenberg?
Anni fa Giuseppe De Luca definì editore e autore «due esseri che in rerum natura sono per istinto nemicissimi», eppure, nel momento tragico, essi si ritrovano vicini. Samuel Riba si mette a capo del drappello, per il viaggio a cui si sta preparando da una vita. Lo fa meticolosamente, sapendo che viaggiare è dare uno schiaffo alle abitudini che tendono, sempre e comunque, ad ingoiarci. Con il viaggio ci imponiamo l’imprevisto, rischiamo per uscire dall’ordinario, che nel caso di Riba corrisponde alla sconfitta, all’isolamento. Prima che la decisione sia definitivamente presa, egli si scopre vittima di una dipendenza compulsiva dalla Rete: cerca senza sosta in internet contatti e conferme, controlla di continuo la casella di posta elettronica, trascorre le notti con il naso incollato al video. Una dipendenza che non ci si aspetterebbe da un editore d’antico stampo, vittima evidente della sindrome di Stoccolma, improvvisamente innamorato del mondo virtuale che viene descritto come causa prima del crollo del suo mondo reale. A quel punto non rimane davvero che fuggire, intraprendere il viaggio, «fare il salto» nelle braccia di Joyce, il vecchio amico Joyce.
Dublinesque è un romanzo, un’autobiografia immaginaria, l'elogio di un mestiere ‘romantico’ che si immagina destinato alla scomparsa. Zeppo di riferimenti letterari, al punto di assomigliare ad una caccia al tesoro ottimamente organizzata, è tuttavia ineccepibile, mai didascalico. Un piccolo miracolo, da questo punto di vista. È un libro per lettori esigenti: per chi ha davvero letto l’Ulisse di Joyce e davvero lo ha amato. Non mancano citazioni dal panorama italiano, si incontrano Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Michelangelo Antonioni, Claudio Magris. Lo stile di Vila-Matas è meticoloso, affollato appunto di suggerimenti letterari, evocatore di intellettuali come ideali compagni di viaggio. Una scelta ambiziosa e difficile per lo scrittore catalano, in cammino sull’orlo dello sfoggio erudito, col rischio costante, sempre evitato, di cadere nella vacua cripticità. Dublinesque mi ha avvinto, e convinto che – se davvero l’editore è una figura destinata a lasciare questo mondo – Samuel Riba è il personaggio degno di accompagnare il suo feretro.
(post di Sebastiano Bisson)
Enrique Vila-Matas, Dublinesque, Milano, Feltrinelli, 2010.

martedì 16 aprile 2013

Un mondo di estremi


Otto bambini rapiti e un enigmatico aguzzino. Un viaggio da Trieste a Roma. La voce narrante è quella di Manuel, l’ultimo dei bimbi rapiti, unico italiano, che racconta a vicenda ormai conclusa. Potremmo trovarci di fronte ad una storia crudele, o scabrosa. Invece no: non si percepisce violenza in questi rapimenti; pochi e poco convinti i tentativi di fuga di Manuel per liberarsi del suo rapitore; poca la nostalgia sua e degli altri bambini nel ripensare a ciò che si sono lasciati alle spalle.
Il loro viaggio procede a piedi, costeggiando strade o attraversando campi, in autostop o in treno; i loro alloggi sono ambienti fatiscenti, case abbandonate; la sopravvivenza legata a piccoli furti o elemosine. Ma c’è qualcosa che non ci aspetteremmo in questa vita randagia: prende forma una piccola comunità, con regole chiare perché necessarie. Il Raptor, nome attribuito al loro aguzzino da uno dei bambini, è una figura temuta, ma rispettata e riconosciuta.
Il dubbio che viene a Manuel nell’introdurre il suo racconto è quello che viene ad ognuno nel leggerlo e ci interroga, scardinando forse qualche convinzione sui bambini: «la vita vera era quella, la nostra con il Raptor, e questa – la scuola, i genitori, i regali di compleanno, la piscina – è come un giro in giostra, un esercizio finto che non allena a niente».

(Recensione di Rita del Piccolo Festival)
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Il mondo dei bambini è un mondo di estremi. Comica leggerezza e lacerante tragicità si sfiorano di continuo nel mondo dei bambini, e possono sfumare una nell’altra con una semplicità disorientante. È un mondo che spesso ci spaventa, perché mette a nudo le paure più profonde, ci mostra quanto poco basterebbe per far crollare tutte le certezze sulle quali abbiamo costruito la nostra vita. L’ansia che mettiamo nel proteggere i nostri figli, nel creare attorno a loro delle rassicuranti barriere, è uno scudo che serve a noi, un modo per convincerci che la realtà è tranquilla e ordinata, che tutto andrà sempre per il meglio. I bambini invece non hanno bisogno di rimanere in costante equilibrio su questa via di mezzo: possono oscillare pericolosamente fra gli estremi. Per questo le loro reazioni agli eventi sono imprevedibili, per questo hanno comportamenti inaspettati che mettono a dura prova la nostra disperata inclinazione a riportare tutto sulla ‘strada giusta’.
Ha dimostrato coraggio, Carola Susani, nel scegliere di raccontare le giornate di una compagnia di minorenni strappati dalle loro case; nell’affrontare una storia che si immerge in quel mondo bislacco e si lascia guidare dalle logiche altalenanti dei bambini, mentre tutta la sofferenza adulta viene paradossalmente racchiusa nella personalità problematica di Raptor, colui che impersona nell’immaginario collettivo il re dei cattivi, mentre qui finisce per apparire addirittura umano, troppo umano. Romanzo quasi senza trama, legato al filo di un viaggio privo di una vera destinazione, Eravamo bambini abbastanza riesce a prendere il lettore per il collo e a togliergli il respiro, pur avendo lasciato in secondo piano la violenza vera: lo avvince grazie proprio a quel gioco di paure ancestrali. Vorremmo che quei bambini fossero condotti a ricollocarsi in un mondo pulito e ordinato, vorremmo rimettere tutto a posto, smettere di vivere nell’ansia di una protratta incertezza, e in quello slancio percorriamo con loro tutto l’insensato e interminabile viaggio.
Un Decameron tragico e moderno per un gruppo di ragazzini esclusi dalla società civile. Essi costruiscono un cerchio dentro al quale incrociano le loro storie e le loro vite. È inquietante scoprire con quanta rapidità Manuel – ultimo dei bambini rapiti e narratore dalla voce distaccata – trovi una collocazione all’interno del cerchio, un suo ruolo, e persino forme contorte d’affetto. È inquietante con quanta facilità si lasci alle spalle e quasi dimentichi il mondo degli adulti, accettando situazioni e logiche che appaiono aberranti ai nostri occhi. Eravamo bambini abbastanza non ha nulla di scontato, non vuole farci riposare sui pregiudizi, giusti o sbagliati che siano. Solleva con arte decisivi quesiti, porgendoli però da una prospettiva inedita: il modo migliore per soppesarli in tutta la loro gravità.

(Recensione di Sebastiano Bisson)

Carola Susani, Eravamo bambini abbastanza, Roma, Minimum Fax, 2012.