sabato 23 maggio 2009

Il buon recensore

Succede, a volte, di incappare in parole scritte da altri per altri che all'istante percepiamo invece come assolutamente nostre. Ce ne appropriamo senza pudore, magari sorridiamo idealmente all'autore a mo' di ringraziamento, allunghiamo una mano nel vuoto come a dire "non dovevi disturbarti...".
Ho provato tale sensazione leggendo, nel Domenicale del «Sole 24 Ore» del 26 aprile 2009, l'articolo di Alvar González-Palacios: «La critica d'arte – dico la critica, non la storia – sta finendo di esistere in buona parte del mondo civile non esclusa l'Italia. Sembra che i recensori di libri o di mostre non abbiano più il tempo di leggere e di vedere, e perlopiù si limitino a riassunti diligenti, a volte banali, di quel che dovrebbero vedere e leggere».
Peccando di immodestia, ritengo che ilVoltaPagine stia ingaggiando la sua minima battaglia per tenere fede al primo comandamento del buon recensore: leggere. Immergersi nella lettura lasciando da parte ogni possibile distrazione: ciò che si dice dell'autore, la quarta di copertina, la fama dell'editore, il battage pubblicitario, il parere "esperto", il sentir comune..., e arrivare a mettere sulla carta le sensazioni, le atmosfere, buone o cattive, con tutta la libertà possibile. La pratica richiede dedizione e implica il concreto rischio di far sorgere antipatie (spero di non arrivare mai a dover dire odi), ma questo è lo scotto da pagare per il buon recensore. Alla fine l'unica vera preoccupazione del VoltaPagine è la soddisfazione dei suoi lettori; auspicando che prossimamente fra essi vi sia anche Alvar González-Palacios.

Foto: Letter writing is a dying art © Linda Cronin

venerdì 22 maggio 2009

Le sirene del manager

La porta di casa è diversa da tutte le altre, è l’unica che ha sempre qualcuno dietro pronto ad aprire quando bussi. Dopo una vita vissuta sempre a cento all’ora, a nuotare fra gli squali, che altro può volere Enrico Metz, se non tornare a casa? Inconsciamente lo capisce fin dall’inizio anche se fatica a focalizzare, ma ciò non lo turba. Il mondo vuole scuotere l’ex rampante avvocato, lo pungola, lo provoca, eppure lui sa rimanere indifferente alle tante sirene che gli nuotano attorno. Si accontenta di camminare senza meta sotto i portici di una città sonnacchiosa; di picchiettare la terra attorno ad una ortensia; di addormentarsi la sera sul divano. Finalmente ai sensi di Enrico Metz tutto arriva a piccole dosi.
Da lettori smaniosi di storie sarete indispettiti da Metz che nulla coglie e niente fa, che scaccia lontano qualunque evento. Vi chiederete perplessi dove voglia condurvi, ma già in quell’istante le lievi spire vi avranno avvolto e sarete dentro, oramai incuranti del senso, coinvolti nella dolce apatia, nella soddisfazione dei minimi gesti. Il sottile filo del racconto si srotola fluido, senza picchi, eppure senza che la tensione cali. Tutto è retto dalle tante donne che con il loro affetto circondano Enrico Metz nella sua incipiente senilità; egli pare poterle amare tutte e placidamente lasciarsi amare. Così resta nella bocca la saliva impastata di un sonno che si fa sempre più lungo e porta con sé un retrogusto sospeso fra il dolce e l’amaro; quasi a far venire voglia d’invecchiare.

Claudio Piersanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Milano, Feltrinelli, 2006.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: allo zio che non si decide ad andare in pensione

sabato 16 maggio 2009

Toppare la traduzione


I jeans con lo strappo sono meno di moda ma, in questi tempi di crisi, di buttarli non se ne parla neppure, l'unica alternativa logica sembra davvero l'applicazione di una toppa. Mia figlia, ancora piccola, non protesta ma coglie l'occasione per avanzare una richiesta: va bene la toppa, ma con le Winx! La ricerca si rivela abbastanza facile, ormai il marketing aggredisce ogni tipo di prodotto (a quando lo sturalavandini di Dragon Ball?). Insomma eccomi qui con in mano la toppa termoadesiva delle Winx, assolutamente ignaro della barriera linguistica che sta per frapporsi fra me e la corretta applicazione della toppa.
Tutto ha inizio con la lettura delle istruzioni. Ci sono in spagnolo, inglese, francese e italiano, ovviamente mi affido a quest'ultimo, piccandomi di poterlo decifrare, ma mi sbaglio di grosso. Ecco cosa leggo (non modifico né taglio nulla, giuro): «Attaccare la parte nel luogo desiderato / Passare la piastra attraverso tutta la parte durante i 10 secondi / Ha riparato la parte per rivestire di ferro dal misfortune durante i 30 secondi / Per non usare l'articolo fino a che non sia completamente fredda / Ammesso che i giorni spesi uno aumenta, poco calore li ha applicati. Insistere ancora con la piastra / Abbiamo suggerito non lavarci in asciutto / Per non rivestire di ferro al vapore».
Ora mi chiedo: fra non tradurre e tradurre in tal modo, qual è la soluzione più sensata? Francamente preferirei vedere la mia lingua ignorata, piuttosto che bistrattata in maniera così palese. La cattiva abitudine di sottovalutare il lavoro del traduttore, affidandosi a non professionisti improvvisati (o addirittura agli ancora comici traduttori automatici), produce effetti ridicoli, a volte anche in pubblicazioni più serie e meno "volatili". Un lettore esigente sa bene quanto fastidioso sia ritrovarsi fra le mani un libro tradotto malamente, zeppo di imprecisioni, di riferimenti mancati, di frasi claudicanti. Dopo qualche pagina l'istinto è quello di servirsene per usi non ortodossi, in particolare avendo a disposizione un caminetto.
Mia figlia mi tira una manica: «è pronta la toppa?». Io la guardo perplesso. Quasi quasi è meglio lo strappo.

Foto: Another Jeans Shot © bdgamer

domenica 3 maggio 2009

Il duello dei liquidi

L’acquasanta e lo sperma sono liquidi salvifici per l’umanità: la prima, marmorea e cristallina, la preserva dalla dannazione; il secondo, appassionato e vischioso, le assicura un domani. Tuttavia, pur stando idealmente dalla stessa parte, i due liquidi rappresentano perfettamente la lotta incessante e inevitabile che nell’essere umano contrappone il lato evoluto, costituito da sovrastrutture complesse di fede e pensiero, e il lato primordiale, che è istinto puro sottratto ad ogni razionalità. Negli Esercizi materiali di Domenico Loddo lo scontro è epico ed epocale, e l’autore ci forza a scegliere per chi parteggiare, tifando peraltro in modo spudorato per l'impulso vitale intrattenibile che non conosce limiti (non può farlo: l'alternativa sarebbe la morte), e suggerendo di non sottoporsi ad insegnamenti e regole sentiti quasi sempre come imposizioni cupe e oscurantiste. Pare proprio che la Chiesa abbia inflitto all’autore delle offese mortali, per reagire alle quali egli non possa far altro che venirle in faccia. L'antagonista, si badi bene, è proprio la Chiesa, e non Gesù di Nazareth, figura che si intuisce invece ammirata, né Dio, a cui al contrario Loddo vuole «un gran bene, anche se so che un giorno io sarò la sua vittima sacrificale e lui il mio feroce assassino» (p. 19).
Nella bagarre si confrontano morte, rabbia, violenza, mescolate una all’altra con leggerezza disarmante, con un’ironia beffarda che non risparmia niente e nessuno, nemmeno lo stesso autore. Ecco il grande vantaggio di Loddo: non si prende sul serio, deride le sue storie più tragiche, e ciò gli dona una grande libertà, gli consente di dare sfogo ad ogni intuizione, ad ogni pensiero imprevisto, correndo così il rischio – e a volte pagandone le conseguenze – di un passo più lungo della gamba. La disomogeneità di questa raccolta di racconti brevi, brevissimi, alterna garbate piccole perle (Il custode dei venti) a superflui virtuosismi (La parola innamorata), a storie inconsistenti (L’innocenza). Un libro schizofrenico, con lampi di genio, da cui si sarebbe potuto scartare qualcosa o si sarebbe potuto attendere per aggiungere dell’altro.
L’afflato di fondo è quello di una ricerca simil-filosofica, che trova i suoi punti di svolta nei personaggi femminili: donne senza via di mezzo, materne puttane e mogli tiranniche, sempre eccessive, a partire dalle rotondità di seni e cosce. In esse ritorna il cinico gioco del dare e del togliere la vita. Alla fine rimangono delle urgenze teleologiche verso le quali ogni risposta appare deficitaria e che producono un costante aumento del senso di solitudine interiore. Fino al punto di dire Ho perso la testa (ma sto bene anche senza). E non è un caso se sia di Domenico Loddo uno degli aforismi più intensi e amari sul senso del nostro essere: «Non si viene nella vita per guadagnare qualcosa, ma solo per smarrire tutto poco a poco».

Domenico Loddo, Esercizi materiali. Letture per sale da tè, d'attesa e da bagno, Ravagnese (RC), Città del Sole, 2007.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: all’ex insegnante di catechismo