giovedì 30 settembre 2010

Essere per essere contro

Ho visto Jean-Claude camminare per la Canebière. L’ho visto fermarsi nei bar del porto a bere pastis. L’ho visto ballare la salsa. L’ho visto sul suo Tremolino pescare al largo delle isole del Frioul. L’ho visto amare e scopare. L’ho visto abbracciare Honorine e Fonfon. L’ho visto giocare a belote. L’ho visto gustare la bouillabaisse. L’ho visto fare a pugni con Mavros. L’ho visto parlare di libri con Leila e di mafia con Babette. L’ho visto col cuore spezzato. L’ho visto piangere e vomitare. L’ho visto morire. Jean-Claude è tutto nei romanzi della trilogia noir, Casino Totale, Chourmo, Solea. Fabio Montale è il suo altro. Marsiglia è la sua Marsiglia. Marsiglia è donna. Marsiglia è Lole. Se si va lontani da Marsiglia, al ritorno si muore. Come succede a Manu e a Ugo. Il primo perché assetato di vita, il secondo perché assetato di lealtà. Tuttavia a Marsiglia «di fronte al mare la felicità è un’idea semplice» (Chourmo, p. 19). Il mare è la vita. Quella di Manu, di Ugo, di Fabio. È lì, nel mare, che Fabio trova pace, lì lava lo sporco del mondo. Perché l’hanno infangata, Marsiglia. L’ha infangata il Fronte Nazionale, la criminalità, il potere, la corruzione, l’odio, il razzismo. Nonostante ciò Marsiglia è araba, spagnola, italiana, greca, algerina, turca, francese. Marsiglia ha spalle larghe, come Loubet, come chi vive senza compromessi. Accoglie da sempre uomini senza patria, «appartiene a chi ci vive» (Casino Totale, p. 202). A Marsiglia la strada è segnata. Manu e Ugo la percorrono, Fabio devia. Il percorso di Montale sarà un altro. Più giù, più in basso, verso l’inferno. Nel giorno dei suoi vent’anni Ugo riceve una pistola. È il regalo di Manu. L’arma sarà il collante tra i tre. Così come Lole, desiderata, avuta, sfuggita. Il sottofondo è tutto intriso di blues, di jazz, di tango e di musiche sudamericane (Solea riprende il titolo di un brano di Miles Davis). Musica che suda, perché viva, dove vivere è l’unico scopo. Maestra di vita è la strada, il Vieux-Port, il Panier, dove da ragazzini si litigava e si faceva a botte per una ragazza e non per la razza e dove, i colpi, prima si impara a riceverli e poi a darli. 
Se visti a luce radente i tre romanzi rappresentano un unico libro di ricordi. Sembra quasi che l’impeccabile plot noir sia l’escamotage letterario per «mettersi in regola con la vita, [che] significa mettersi in regola con i ricordi» (Chourmo, p. 68). Anche noi viviamo con Fabio, gli siamo vicini, beviamo e discutiamo con lui. I suoi amici diventano i nostri amici, riconosciamo tra la folla i visi di Manu e di Ugo, la sensualità di Lole, la dolcezza di Honorine, la testardaggine di Fonfon. E riusciamo a guardare senza timore i ragazzi delle cités, i beurs. Siamo come proiettati nel grande affresco marisigliese, dove la luce può accarezzare o tagliare, dove gli odori possono incantare o nauseare, dove il suono accompagna la vita o la morte.
Ti ho visto Jean-Claude.
(post di Salvatore Sansone)

Jean-Claude Izzo, Casino Totale, Roma, e/o, 1998
Id., Chourmo, Roma, e/o, 1999
Id., Solea, Roma, e/o, 2000.

Le mie chiocciole: @@@@@

Da regalare: a chi ama la montagna e odia il mare

martedì 21 settembre 2010

Teste di legno, fermenti lombardi e poesie dal cielo

Al Giro d'Italia del 1924, quell'anno e poi mai più, in mezzo agli uomini pedalava anche una donna. Proprio ad Alfonsina Strada (nomen omen) è idealmente ispirata la divertente iniziativa che si terrà all'auditorium di Roma domani, 22 settembre, a partire dalle 19,30. E' il Goodbike reading, letture, poesie e canzoni sul tema della bicicletta, accompagnati dai Têtes de Bois, che alle due ruote hanno dedicato il loro ultimo album. Saranno presenti fra gli altri Margherita Hack e Chris Carlsson, ideatore del movimento Critical Mass (è consigliato andarci in bicicletta, of course).
Ci sarà un gran fermento attorno ai libri in Lombardia, dal 24 al 26 settembre, grazie all'iniziativa "Fai il pieno di cultura". Gli eventi saranno molti e sparsi in ogni angolo della regione, ci sarà il Baratto del libro, ovvero trattative per scambiare un vostro vecchio libro con uno nuovo (a San Felice del Benaco - BS, sabato 25 dalle 15.00 alle 18.00); i Capricci del gusto offrono assaggi con cui accompagnare la lettura de Il pranzo di Babette di Karen Blixen, pensando al cibarsi quale 'esperienza sapienzale' (a Curtatone - MN, sabato 25 dalle 16.00 alle 18.00); a San Paolo d'Argon (BG), sempre sabato ma in serata, si legge Antonio Tabucchi: La donna di Porto Pim e altre storie di mare.
Un'iniziativa provocatoria e toccante è quella messa in piedi dal gruppo Casagrande. Da qualche tempo si danno infatti da fare per bombardare le città di poesie, per scaricare grappoli di foglietti con versi da leggere sul fare del tramonto. Quasi commuove vedere le persone col naso al cielo, ad inseguire poesie, stupiti e felici, poi assorti. Quasi commuove il rumore delle pale dell'elicottero, perché non si può non pensare alla paura di quel rumore, quando il carico era diverso. Vale la pena: c'è Berlino, Varsavia e altre.

venerdì 17 settembre 2010

Il cavaliere editore

Silvio Berlusconi è un elefante in una cristalleria: ogni suo minimo movimento lo porta a cozzare contro qualcosa che sarebbe meglio non toccasse. La polemica, ancora in corso, riguardo a Mondadori, non è che l’ennesimo movimento inopportuno che fa traballare un soprammobile di pregio della cristalleria italiana. Il tutto ha sostanzialmente inizio con gli articoli di Massimo Giannini su «Repubblica», il quale segnala come – grazie al decreto 40 del 25 marzo 2010, poi convertito in legge – il Gruppo Mondadori può chiudere la vertenza che ha in corso con il Fisco, versando 8,6 milioni di euro anziché 350. Il decreto ha lo scopo di smaltire parte del grave arretrato del nostro sistema giudiziario e torna utile in verità a diverse aziende, fra le quali però c’è anche la Mondadori di Berlusconi e così si solleva l’indignazione di molti, con inviti al boicottaggio e con la rabbia per un’altra legge che sembra tagliata su misura per agevolare chi deve agevolare (d’altronde è un elefante, da qualsiasi parte si giri…). Uno dei gesti più clamorosi è la presa di posizione di Vito Mancuso, autore Mondadori, che ha un improvviso rimorso di coscienza e non si sente più in grado di legare i suoi scritti al marchio di Segrate. Lettera aperta e strappo, con tanti strascichi che forse è inutile seguire.
Per non essere accusato di partigianeria, riprendo il quadro che della questione fa Marcello Veneziani sulle pagine de «il Giornale». Nel contenzioso con il Fisco la Mondadori ha già vinto due volte, dunque non era da escludere che pure in cassazione l’accusa sarebbe caduta; mi chiedo allora perché non affrontare il terzo grado di giudizio, così da risparmiare anche quegli 8,6 milioni e uscirne alla fine ‘pulita’. Per Veneziani è stata scelta «la via più breve e meno lacerante» – già presumendo l’inquinamento politico nelle decisioni della magistratura – benché egli concordi sul fatto che la legge «puzza troppo di favore alla casa editrice del premier». D’altronde, e qui si lancia verso il cuore del suo ragionamento, di vantaggi fiscali ne hanno goduto molti e molti sono quelli che traggono beneficio da questa legge. Se poi si va un po’ a scavare nel passato, casi del genere spuntano come funghi, e via ad elencare, svelando una gran mole di ipocrisia e un giustizialismo di parte. Corruzione e favoritismi sono il pane quotidiano della nostra Italia, d’accordo, ma non mi persuade la giustificazione che ne consegue, ovvero che non sia mai il tempo buono per premere sul freno. In più, e ciò non si può negare, in tanti affari poco chiari degli anni addietro c’era chi dava e chi prendeva; oggi le due mani appartengono alla stessa persona. Non è una differenza da nulla. «Ma un autore risponde del suo libro e non dei libri contabili dell’azienda per cui scrive» ci risponde Veneziani. Dissento: un uomo non dovrebbe mai fare come lo struzzo, men che meno un uomo di cultura che possiede i mezzi per comprendere meglio la realtà e a cui molti si affidano nelle scelte quotidiane, nel farsi un’opinione. In queste parole sento la radice di uno degli atteggiamenti più deleteri del nostro tempo: quel fare spallucce e voltarsi altrove che gradatamente porta a subire qualunque cosa.
Detto questo, non stupitevi, sono d’accordo con Marcello Veneziani. Come sono d’accordo con Michela Murgia, la vincitrice del Campiello 2010, che scrive per Einaudi (dunque Gruppo Mondadori) e dice di trovarsi bene con il suo editore, e nonostante tutto non vuole lasciarlo poiché lì ha a che fare con professionisti, perché è felice che i suoi libri siano nel catalogo di un marchio tanto prestigioso e siano efficacemente distribuiti nelle librerie d’Italia. Sono d’accordo. Se non fossi d’accordo, per lo stesso principio dovrei pretendere che si licenziassero tutti quelli che lavorano a Mediaset o per la Mediolanum, o che nessun calciatore accettasse ingaggi dal Milan, perché ogni giorno Berlusconi deve fare scelte che possono favorire o meno quelle società; e a quel punto, la debolezza è umana.
C’è una grande anomalia a monte, un’anomalia che abbiamo accettato: quella di far entrare un elefante nella cristalleria. Perché strapparsi i capelli disperati se molte cose finiscono in cocci, se si frantuma un certo ordine, non dico legale e neppure etico, ma di semplice buon senso? Continuiamo a leggere, anche i libri Mondadori, magari alla fine impareremo che dare molto potere ad uno solo, significa togliere un po' di libertà a tutti gli altri.

Foto: Elefante split © Este Burcian

domenica 12 settembre 2010

Il trono e il fischietto

Quello dell'arbitro di calcio è un mestiere ingrato. Il suo massimo obiettivo professionale è finire circondato da ottantamila persone inferocite pronte a farlo a pezzetti o a sommergerlo di insulti, avendo in mano un innocuo fischietto come unico strumeno di difesa. Anche in ambiti più modesti, il classico campetto di periferia, l'esperienza può essere davvero dura (leggetevi questo sfogo). Eppure in tanti, ammaliati dalla sfera di cuoio, si mettono al servizio di un gioco che d'altro canto gode di un'ineguagliata partecipazione planetaria.
Il bello del calcio, la ragione del suo successo, è che nel calcio non c'è vittoria scontata. È uno sport estremamente aleatorio, e nel tiro dei dadi una mano ce la mette sempre anche l'arbitro. In effetti molto dell'astio nei suoi confronti svaporerebbe se riuscissimo a metabolizzare il fatto che l'arbitro non va considerato estraneo al gioco, ma anzi vi deve entrare a pieno titolo. Lo si vorrebbe giudice neutralissimo, esecutore infallibile di regole precise e avulse da ogni discrezionalità, ma cosa c'è di meno oggettivo della volontarietà di un fallo di mano, o come può un essere umano determinare con esattezza se un giocatore è o meno in fuorigioco? C'è una divertente vaghezza nelle regole del calcio e lì si infila necessariamente il ruolo attivo dell'arbitro, nonostante tutta la buona fede, nonostante tutta la sua bravura. Facciamocene una ragione: in campo, a giocare, sono in ventitré, e uno di loro ha un immenso potere.
L'arbitro è un re privo di qualunque aspirazione democratica, ed è giusto sia così perché «la democrazia funziona fino a quando non si devono prendere decisioni» (p. 29); mentre durante una partita le decisioni da prendere sono migliaia. Dunque l'arbitro è sovrano assoluto, tuttavia – su questo Brussig non si sofferma – il suo regno dura soli 90 minuti, al termine dei quali c'è sempre il rischio d'essere 'decapitati' dalla commissione preposta e di dover abbandonare il trono e il fischietto.
A mezza strada fra un reportage (finto, ma che pare vero) e un breve romanzo (costruito su una trama che scorre sotto le parole come un fiume carsico), Litania di un arbitro agglomera molte considerazioni, non tutte acute: sulla vacutà dei modi dire, sul difetto di comunicazione dell'ipercomunicativa società odierna, e ovviamente sul calcio. Brussig divaga compiaciuto, dando comunque il meglio quando rimane sul campo erboso. La storia personale di Uwe Fertig, che è un arbitro ma anche un uomo, si snoda in sordina, apparentemente accessoria, per esplodere alla fine in un dolore trattenuto, a ricordarci che un gioco è solo un gioco.
Tuttavia, in una società come la nostra nella quale il calcio domina le coscienze – spesso allo scopo di distrarre da questioni di maggior rilevanza –, l'arbitro è destinato ad assumere il ruolo di catalizzatore d'ogni rabbia, di capro espiatorio settimanale per una tifoseria intera. Un martire annunciato, ecco cos'è, bersaglio di molte accuse spesso volutamente ignare delle difficoltà che ne caratterizzano l'operato, e con scarse occasioni di vera gratificazione. Mentre i giocatori sono idolatrati, dell'arbitro, in positivo of course, non si ricorda nessuno, e l'unica vera eccezione è forse quella di Pierluigi Collina, a cui Brussig dedica un 'invidioso' ritratto. Più oneri che onori, e per difendersi non resta che un'ironia distaccata, e sapere che un giorno, sotto un'insopportabile pioggia di fischi e improperi, l'arbitro si toglierà almeno una soddisfazione: «sospenderò una partita per impraticabilità acustica del campo» (p. 43).

Thomas Brussig, Litania di un arbitro, Roma, 66thand2nd, 2009.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al tifoso sfegatato che vede rigori ovunque.

giovedì 9 settembre 2010

Nassiriya, Mantova, Pordenone e l'Unità d'Italia

Se guardate il manifesto fate fatica a riconoscerlo: due giovani distesi fra lenzuola rosse, una finta finestra sul deserto, e il titolo, 20 sigarette. Eppure il film che poche ore fa, a sorpresa, ha vinto la sezione "Controcampo" al Festival del Cinema di Venezia, è tratto proprio dal romanzo di Francesco Trento e Aureliano Amadei (colpevolmente non ricordato nel suddetto manifesto) che vi segnalammo nel 2008 fra le nostre migliori letture. Nonostante siano state ridotte la dose di tagliente sarcasmo e le parti di denuncia che davano spessore al libro, il film si difende bene puntando tutto sulle tragiche e umanissime vicende dei personaggi, su tanti piccoli cerchi da richiudere. Denunce e strumentalizzazioni rimangono sullo sfondo, ma probabilmente non poteva essere altrimenti; si può ad ogni modo tornare a leggere il romanzo e provare a stanare chi ancora seguita a cercare degli 'eroi'.
E' in corso a Mantova il Festival della Letteratura e all'interno del programma, sempre molto denso, ci sembra giusto segnalare la retrospettiva dedicata ad Amos Oz, sia perché l'autore israeliano è stato da noi spesso chiamato in causa, sia perché è da poco uscito in italiano il suo nuovo libro, Scene dalla vita di un villaggio. Consiglio poi di spostarsi verso est, per non perdere la simpatica pecora di Pordenonelegge, che come ogni anno si propone di "coniugare la leggerezza sui temi chiacchierati con la profondità nei discorsi seri, la provocazione con l’accademia".
Una segnalazione infine per chi, oltre a leggere, si cimenta pure con la scrittura. 66thand2nd ha bandito il concorso letterario In attesa dell'Unità d'Italia che curiosamente combina storia, politica e sport, offrendo al vincitore la pubblicazione nella collana 'Attese' di questo giovane e interessante editore. Qui trovate il bando completo.

lunedì 6 settembre 2010

Le melanzane di De Luca, i gamberi di Montalbán

Cucinare per se stessi nutre l’anima e fa ritrovare il giusto equilibrio. La parmigiana di melanzane di Erri De Luca narrata nel suo emozionante Tre fuochi sposa questa filosofia.
Io il massimo lo ottengo quando genero piacere allo stato puro attraverso le polpette di maiale e gamberi in stufato di seppie. La ricetta è tratta da un romanzo di Manuel Vásquez Montalbán (Assassinio al Prado del Rey) e la preparazione dura un pomeriggio intero, esaltando ogni senso. Per affrontarla occorrono un buon pretesto e forte autostima. Poi deve essere passato molto tempo dall’ultima volta, perché la memoria ne ricordi il gusto ma abbia rimosso la fatica e il caos che travolgono la cucina.
Al mercato scegliete i gamberi migliori, le seppioline più ruffiane, bocconcini di maiale teneri, e altri ingredienti tra cui non devono mancare pomodori maturi, nocciole, mandorle e pinoli.
Occorre sgusciare i gamberetti separando la corazza dalla polpa. Il pugno di gamberi ottenuto si frulla e poi si amalgama alla polpa di maiale macinata. Poi aglio, prezzemolo, pane ammorbidito nel vino bianco secco, uova, sale e pepe. Del pastone ottenuto si fanno polpette che si infarinano. Sembrano sempre un po’ troppo molli ma non occorre aggiungere nulla: al momento giusto si inturgidiranno nell’olio bollente.
A questo punto il cronometro segna di solito la prima ora di lavoro.
In una padella far sfrigolare le teste dei gamberi schiacciandole con una forchetta. Ormai croccanti si tolgono e finiscono nell’acqua per ottenere un eccellente fondo di cottura. Nell’olio rimasto si friggono le polpette. Qui l’assaggio nasce spontaneo e la delizia del risultato fa dubitare che continuando possano ancora migliorare.   
Si prende di nuovo il vino bianco, se ne versa un bicchiere scarso e lo si beve brindando alla faccia di chi ci vuole male. La voglia d’ebbrezza la colgo anche nel testo di De Luca. La sensazione è quasi che lui in cucina si conceda a se stesso molto più di quando scrive. Quasi che la lingua scolpita che usa nei suoi romanzi non possa che cedere all’inesprimibile allegria di un soffritto. Infatti è di qui che io riparto. Nell’olio che ha già memoria di tanto fritto, si tuffano le seppie tagliate a listarelle. Si scolano e si mettono da parte.
Sarete circondati da una distesa di semilavorati in attesa. È il momento in cui il cammino segna il passo sospeso prima della discesa. Si dovrebbe essere circa alla seconda ora e se fin qui si è usato come sottofondo un disco di Caetano Veloso è il momento di sostituirlo con qualcosa di più ritmato.
Preparando le sue melanzane intrise di sud e tradizione, De Luca annota: «Le generazioni si staccano l’una dall’altra per via alimentare, mangiano per il desiderio di essere altro. Io tento di mangiare qualcosa di uguale, per  gusto per affetto».
Per le polpette di maiale e gamberi forse desidero staccarmi dal panorama di un’Italia in cerca di autore per un’intrigante Barcellona ai tempi di Montalbán. A ogni modo, se non avete tritato la cipolla, fatelo. Mettetela a soffriggere col pomodoro, sempre nello stesso olio. Quando il tutto diventa soffice aggiungete le seppie, un po’ di brodo di teste di gambero, un trito di prezzemolo, aglio, pane tostato, nocciole, mandorle e pinoli, bagnate con altro bicchiere di vino bianco.
Qui, di solito, la tensione cala un po’.
Si ha qualche attimo a disposizione, De Luca annota «la parmigiana di melanzane è una pietanza riposata, saggia. Non sono uova al tegamino. È melanzana, frutto introverso, che si spigiona con indolenza e meditata pausa».
I pensieri non possono però durare più di una decina di minuti perché le seppie staranno sicuramente traballando nel sugo. È il momento di aggiungere le polpette e lasciare ancora cuocere per un po’. Servire caldo.
Io non sono Erri De Luca e dunque il risultato va oltre le capacità descrittive concesse dalla lingua scritta che conosco. Se mai lo farete vi invito a osservare i vostri ospiti perché l’emozione della polpetta in bocca si avvicina all’estasi divina. E so che chi di voi legge questo post con l’App Odorama, avrà già leccato lo schermo sino a farlo sbiadire.
(post di Andrea Pugliese)

Erri De Luca, Tre fuochi, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2010 (edizione fuori commercio)

Chiocciole: @@@

Da regalare: te lo regalano se vai in libreria

Foto: Melanzane sott'olio © Pourfemme