mercoledì 12 maggio 2010

In cerca d'eroi

Trovo sia davvero un cattivo segnale quando la comunicazione – specialmente a “grande diffusione”, come quella televisiva – si realizza in maniera sciatta e chi se ne fa portavoce dimostra scarsa attenzione verso le parole. Sono le cose di poco valore che si usano con leggerezza, senza riguardo, come cose appunto di cui non far conto; ma non c’è più grave errore, per chi ha il compito professionale di comunicare, di scordare le conseguenze inattese e pericolose che possono derivare da un uso impreciso delle parole. C’è un caso, fra i tanti, su cui mi ero soffermato in passato, lasciando poi perdere per rispetto del dolore. Ora, per altre vie, la parola è tornata a galla e ricorre nei titoli dei giornali, imprecisa com’era sette anni fa, e mi induce a riprendere il discorso.
Se cercate notizie su quanto accadde a Nassiriya, scoprirete come sia inevitabile incappare nell’aggettivo ‘eroi’. Gli italiani che disgraziatamente si trovavano nei pressi della base “Maestrale” il 12 novembre 2003 e morirono a causa dell’attentato suicida, sono spesso definiti eroi. L’attribuzione è divenuta spontanea al punto che molte delle lapidi commemorative sparse per la penisola riportano espressamente il termine. Ma cos’è che ha trasformato in eroi quegli uomini? Perché nel sentire comune si è diffusa la convinzione che è in tal modo che essi debbono essere ricordati?
Domenica scorsa, nella diretta delle 19 del suo tg, Emilio Fede ha esternato un’insofferenza verso l’attenzione, a suo dire eccessiva, che media e pubblico tributano a Roberto Saviano. «Non se ne può più di sentire che lui è l’eroe» ha tuonato Fede. Per un attimo ho avuto un mancamento: ero d’accordo con Emilio Fede. Perché mi sembrava di nuovo d’avere a che fare con un uso impreciso della parola.
È stato allora che ho ripensato a Nassiriya, e sono arrivato ad interrogarmi su chi sia veramente un eroe. Se parto dal dizionario (Sabatini-Coletti), mi trovo di fronte la seguente definizione: «chi dà prova di grande coraggio militare o civile; fare l’eroe: accettare sacrifici o andare incontro a pericoli senza necessità». La prima impressione è che l’aggettivo non si adatti perfettamente a nessuno dei due casi. Senza necessità, questa è la specificazione fondamentale, qui sta la chiave del discorso. Non sarebbe però bello dilungarsi in disquisizioni lessicali quando in gioco è la pelle degli altri; discutere dove sta il limite fra un lavoro pericoloso e l’eroismo; valutare se certe scelte di vita automaticamente sollevino più in alto una persona rispetto alla gente comune; eccetera. Rimango sulla parola, per capire se è possibile usarla meglio.
Il senso profondo, a mio avviso, dell'eroe sta nell’atto di chi volontariamente si sacrifica; di chi ha coscienza sia del sacrificio (“sto compiendo un atto che potrebbe costarmi caro”) sia del motivo del suo sacrificio (“lo faccio comunque per salvare qualcuno o qualcosa”). Nessuno pianifica di diventare un eroe; si possono invece fare delle scelte coraggiose che a volte portano ad un bivio decisivo: ed è lì che si prende la decisione se proseguire fino all’estremo. A Nassiriya non c’è stato tempo per prendere decisioni, quel camion cisterna è piombato sulla base come un bus che inforca una fermata, come una svolta improvvisa del destino. La mafia costringe il nostro paese a continue scelte, piccole e grandi, ma sono sicuro che Roberto Saviano, in virtù delle sue di scelte, non ha mai chiesto d’essere considerato un eroe. E davvero gli auguro di non diventarlo mai. Né per lui, né per noi, perché è sventurata la terra che ha bisogno di eroi, o almeno così diceva Brecht.


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