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domenica 19 luglio 2015

I dilemmi dell'esordiente

Per chi sta sfruttando l'estate allo scopo di concludere la stesura del suo primo romanzo, qualche arguta osservazione in merito al difficile mondo dell'editoria, con quel giusto grado di leggerezza che sarebbe piaciuto ad Achille Campanile. 

Se come me siete degli scrittori esordienti, mi capirete al volo quando dico che questo mondo si compone di scelte e di rinunce. Quando hai la fortuna di ricevere più offerte di pubblicazione, e le metti tutte sul tavolo per compiere la tua scelta, consideri assolutamente ovvio e privo di dramma il fatto che nessuna di queste, presa singolarmente, combinerà tutte le condizioni necessarie per un progetto editoriale serio. Alcune ti offrono una buona tiratura, ma ammettono di non poter garantire la promozione dell’opera («lei, di suo, come se la cava con internet? Ce l’ha un megafono?»); altre garantiscono una rilegatura decente, ma anticipano che il loro distributore non esce dal territorio regionale (e stiamo parlando del Molise); alcune garantiscono royalties superiori al 6%, ma spiegano che per farlo devono vendere il tuo libro a € 48,00 più IVA («ma non si preoccupi, abbiamo già identificato una fascia di mercato rappresentata da Marcello Dell’Utri»); altre dicono che sono in grado di curare rilegatura, tiratura e promozione, ma che per scelta politica non hanno un contratto con un distributore, dunque possono vendere il libro solo a chi va da loro a prenderlo (insieme alla ricotta affumicata che, su prenotazione, fanno nella stessa malga). Così devi scegliere tra più rinunce, valutando quale comprometterà meno la tua performance nel torneo di calcio saponato degli Scrittori Esordienti.
È un gioco di equilibri talmente delicato che a volte, pur di poter decidere con maggiore leggerezza, ti trovi a cercare il peggio, il punto debole così debole da tagliare la testa al toro, donandoti un criterio con cui escludere tutte quelle opzioni una dopo l’altra, fino a trovarti con una sola carta in mano e valutare che, sì!, quella è la migliore (d’altronde sei persuaso che per conquistare la Nazione si debba pur cominciare da una regione, e che il Molise, letterariamente parlando, sia l’avanguardia d’Italia).
Ebbene, vorrei descrivere il cruccio in cui mi trovo da quando ho ricevuto la proposta di pubblicazione da parte di una casa editrice che mescola i pro e i contro in maniera così sottile da impedirmi una valutazione distaccata delle sue potenzialità. Il problema non riguarda le garanzie contrattuali – ma, anzi, proprio questo è il punto: che stiamo parlando di una casa editrice che, per la prima volta da sempre, e riuscendo quasi a commuovermi, mi offre tutte le condizioni editoriali per spiccare il volo, ma che tuttavia mi lascia un po’ perplesso a causa di un aspetto probabilmente frivolo, rappresentato dal fatto che tale casa editrice abbia un nome spiacevole (non credo sia determinante, ma per dover di cronaca lo preciso: si chiama «Il Culo Edizioni»).
Ora, io spero sinceramente che possiate mettervi nei miei panni e non balzare subito alla conclusione che io sia uno di quei tipi con la puzza sotto il naso, o, peggio!, un superficiale. Vi posso garantire che sono assolutamente conscio della fortuna che mi è capitata e che un nome spiacevole non compromette la sostanza, seria e professionale, di quello che mi viene offerto. Dopo che mi sono documentato, non posso negare che, in questo senso, Il Culo Edizioni è veramente una buona casa editrice. Sono inoltre certo che rappresenterebbe il salto di qualità nella mia carriera di scrittore, inserendomi negli ambienti giusti, offrendomi una buona visibilità e garantendomi degli interlocutori con cui crescere. Tuttavia, mi risulta egualmente difficile abituarmi alla sgradevolezza del suo nome.
Ho provato a rompere questo indugio concentrandomi sul futuro. Ho immaginato me a cinquant’anni, rancoroso e frustrato, che pubblico le mie storie su libri che si sfaldano ancora prima di essere venduti, con copertine disegnate con paint su una tiratura di venticinque copie; ho pensato a mia moglie che cerca di essere comprensiva, ma che nel frattempo cova dentro di sé una rabbia di ruggine per come sono stato frivolo, oscenamente stupido, a buttare via la mia carriera perché mi sono fossilizzato su un nome. Così ho concluso che sarebbe davvero stupido rinunciare a una pubblicazione con Il Culo Edizioni. D’altro canto mi sono immaginato da Fabio Fazio, a rispondere alle sue domande parlando di Paul Auster e delle Lezioni Americane di Calvino, immerso negli applausi del pubblico che sanciscono il mio ruolo di scrittore, e quando ho immaginato Fabio Fazio che conclude l’intervista alzando verso la macchina il mio romanzo – scintillante, bellissimo, con una rilegatura in oro! – e annuncia: «Elia Rossi! Tra le ali di un angelo! Il Culo Edizioni!», ecco, devo confessare che ho trovato quel nome davvero sgradevole, e che mi sono trovato punto e a capo nel mio dilemma.
Ho provato a scandagliare tutti i caratteri di questa casa editrice, nella speranza di trovarne uno – uno solo! – abbastanza negativo da far pendere in modo definitivo la bilancia. Ma niente. Stando a voci sicure, Il Culo Edizioni si occupa con grande cura di tutto il processo editoriale: dall’editing, alla distribuzione; dalla promozione, al contatto con le riviste letterarie, con gli atenei e con i circoli di scrittori. Per puro caso, ho persino scoperto che hanno una collana di filologia rinascimentale ritenuta un faro per tutti gli esperti del settore e che molti luminari hanno ammesso che, oggi, non si saprebbe quasi nulla dei manoscritti clandestini di Chatouclou senza le eleganti ristampe de Il Culo Edizioni.
Insomma, è una situazione che mi lascia piuttosto perplesso e spero di non prendere decisioni avventate. Ne va della mia carriera, da un lato, e della mia credibilità, dall’altro. Mi confonde molto, e mi getta in un abisso di sensazioni contraddittorie, la fantasia di me che passeggio per strada e che vengo fermato da un vecchio conoscente che mi dice:
«Cavolo, ma ho sentito che questa volta hai sfondato! Mi hanno detto che ieri parlavano del tuo libro su RadioDue. Senti, ma, con chi è che hai pubblicato?».
«Con Il Culo Edizioni».
«L‘ho già sentita».
E poi c’è l’altro aspetto – probabilmente quello che mi smarrisce di più. Mi riferisco al fatto che la mia opera in questione, ovvero Tra le ali di un angelo, sia, nella fattispecie, un libro per bambini. È una storia briosa ma edificante, che racconta con grande discrezione le peripezie di un topolino che perde la propria madre e che la ritrova dopo un periglioso viaggio in un bosco incantato; una storia pensata per la fascia d’età della prima elementare, quella dei bambini che leggono ad alta voce, pronunciando le sillabe mentre le seguono col ditino. Vi prego un’altra volta di non essere precipitosi nel giudicarmi culturalmente schizzinoso. Voglio solo dire che trovo spiacevole l’idea che dei bambini di prima elementare abbiano fra le mani quel mio libro – scintillante, bellissimo, con una rilegatura in oro! – e che sotto al loro nasino ci siano le scritte: E-li-a Ros-si, Tra le a-li di un an-ge-lo e Il Cu-lo Edi-zio-ni.
Così, questa mattina, dopo molti giorni in cui leggevo e rileggevo quel contratto senza venire a capo di una decisione, ma anzi impastoiandomi sempre di più nel gioco infinito dei tuttavia e dei però, ho deciso di telefonare alla redazione de Il Culo Edizioni. La mia speranza era che il numero fosse inesistente, o che la centralinista mi rispondesse dalla Moldavia figendo un amplesso, così che io trovassi finalmente il granello negativo capace di far precipitare il gioco. Ho sentito una musica di Brahms e una voce registrata che diceva:
«Risponde la segreteria telefonica de Il Culo Edizioni. Lasciate un messaggio e verrete richiamati non appena uno dei nostri telefonisti sarà disponibile».
Ho sparato grosso e ho detto che volevo parlare col Direttore, così da concludere che erano inaffidabili se non mi avessero ritelefonato entro una settimana. Dopo neanche cinque minuti il mio telefono è suonato:
«Dottor Rossi?».
«Sì?».
«Sono Attilio Robellotti della Loggia. Direttore de Il Culo Edizioni».
E io ho dovuto riconoscere che, anche sul piano della comunicazione, Il Culo Edizioni è assolutamente professionale. Ho pensato che non fosse il caso di menare il can per l’aia e ho parlato in modo assolutamente sincero al dottor Robellotti della Loggia.
«Non vorrei davvero essere indiscreto, ma le posso fare una domanda?».
«Mi dica dottor Rossi».
«Le posso chiedere il perché di questo nome?».
«Il Culo Edizioni?».
«Esatto…».
«In che senso?».
«Perché avete deciso di chiamarvi così…».
«Così nel senso di Il Culo Edizioni?».
«Ecco… sì…».
«Che domande! Suppongo perché siamo una casa editrice. Se ci fossimo occupati di altro, avremmo potuto chiamarci, non so, Il Culo Onoranze Funebri, non trova?».
«Tuttavia, visto che è così gentile, mi piacerebbe sapere anche il perché dell’altro nome…».
«Il Culo?».
«Ecco… sì…».
«Ah. Per quello non c’è una ragione precisa. Ci saremmo potuti chiamare anche Asdrubale Edizioni, o Asclepio Edizioni. Ma siccome non ci piaceva né Asdrubale, né Asclepio e un nome andava scelto, abbiamo optato per Il Culo.  È un nome come un altro».
«Ma siete nati come casa editrice umoristica?».
«Assolutamente no. Noi non crediamo nell’umorismo. L’umorismo è stupido. Non interessa vendere libri stupidi, a noi de Il Culo Edizioni».
Insomma, è andata a finire che il mio cruccio non si è dissolto e a me non resta che lambiccarmi fino allo scervellamento, in questo stallo di pro e di contro che mi logora fino a sfinirmi e che vede il mio tempo sfumare come polvere, tempo che potrei usare per scrivere, per pubblicare, per promuovere – per costruirmi una carriera di scrittore, insomma; e che invece uso per maledire il dannato sapore delle parole, che a volte è capace di far precipitare gli uccelli, altre di far volare i maiali.

(Post di Elia Rossi - tratto dal blog personale)

domenica 28 aprile 2013

Addio all'editore


Samuel Riba ha inseguito gli scrittori, anzi le loro storie, per tutta la vita, dunque è spontaneamente portato ad inseguire allo stesso modo tante storie nella sua testa, a incrociare i pensieri, a inventare bugie verosimili – ecco una buona definizione di romanzo – dovendole poi alimentare perché il palco non cada, perché la finzione della sua vita di editore di successo continui a rimanere in scena, nonostante una realtà ostinata, contro ogni apparente buon senso, a procedere in direzione contraria. Purtroppo la morte del libro è sempre più spesso evocata, si sta assistendo alla scomparsa degli scrittori letterari, i giornalisti decretano: «non ci sarà ragione che riesca a deviare tale penoso destino, né chiaroveggente o profeta che possa proteggere la sua sopravvivenza. Il funerale ha iniziato la sua marcia» (pp. 38-39). Allora che splendido senso assume il proposito di Riba, fino ad allora mai realizzato, di recarsi a Dublino in concomitanza con il Bloomsday e celebrare in quell’occasione il funerale dell’era di Gutenberg?
Anni fa Giuseppe De Luca definì editore e autore «due esseri che in rerum natura sono per istinto nemicissimi», eppure, nel momento tragico, essi si ritrovano vicini. Samuel Riba si mette a capo del drappello, per il viaggio a cui si sta preparando da una vita. Lo fa meticolosamente, sapendo che viaggiare è dare uno schiaffo alle abitudini che tendono, sempre e comunque, ad ingoiarci. Con il viaggio ci imponiamo l’imprevisto, rischiamo per uscire dall’ordinario, che nel caso di Riba corrisponde alla sconfitta, all’isolamento. Prima che la decisione sia definitivamente presa, egli si scopre vittima di una dipendenza compulsiva dalla Rete: cerca senza sosta in internet contatti e conferme, controlla di continuo la casella di posta elettronica, trascorre le notti con il naso incollato al video. Una dipendenza che non ci si aspetterebbe da un editore d’antico stampo, vittima evidente della sindrome di Stoccolma, improvvisamente innamorato del mondo virtuale che viene descritto come causa prima del crollo del suo mondo reale. A quel punto non rimane davvero che fuggire, intraprendere il viaggio, «fare il salto» nelle braccia di Joyce, il vecchio amico Joyce.
Dublinesque è un romanzo, un’autobiografia immaginaria, l'elogio di un mestiere ‘romantico’ che si immagina destinato alla scomparsa. Zeppo di riferimenti letterari, al punto di assomigliare ad una caccia al tesoro ottimamente organizzata, è tuttavia ineccepibile, mai didascalico. Un piccolo miracolo, da questo punto di vista. È un libro per lettori esigenti: per chi ha davvero letto l’Ulisse di Joyce e davvero lo ha amato. Non mancano citazioni dal panorama italiano, si incontrano Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Michelangelo Antonioni, Claudio Magris. Lo stile di Vila-Matas è meticoloso, affollato appunto di suggerimenti letterari, evocatore di intellettuali come ideali compagni di viaggio. Una scelta ambiziosa e difficile per lo scrittore catalano, in cammino sull’orlo dello sfoggio erudito, col rischio costante, sempre evitato, di cadere nella vacua cripticità. Dublinesque mi ha avvinto, e convinto che – se davvero l’editore è una figura destinata a lasciare questo mondo – Samuel Riba è il personaggio degno di accompagnare il suo feretro.
(post di Sebastiano Bisson)
Enrique Vila-Matas, Dublinesque, Milano, Feltrinelli, 2010.

lunedì 28 gennaio 2013

La trasparenza crudele dei numeri

Da diverso tempo è in atto una sorta di battaglia fra due modi quasi antitetici di concepire il lavoro di editore. Tutto ha avuto inizio negli anni 60 del secolo scorso, quando il marketing, e tutto ciò che ne consegue, prese ad insinuarsi nelle 'sacre' sale delle redazioni, introducendo nomenclature e procedure fino a quel momento liquidate come pratiche vili, adatte a tutto ciò che si poteva trovare in un supermercato, alle merci, ma di certo non al libro, vettore principale della cultura con la maiuscola. Nonostante questo c'era chi proclamava: «Venderemo i libri come fossero saponette!». Ed è in quella direzione che poi, alla fine, molti marchi si sono incamminati. Credo davvero non vi sia una ragione nettamente schierata in tale battaglia che ancora continua. Gli editori 'di cultura' rimangono più o meno in sella, però allo stesso tempo hanno conquistato buone posizioni anche gli editori decisamente commerciali. Probabilmente c'era e c'è posto per tutti; l'assottigliamento delle fila che la crisi imporrà andrà ad agire in maniera uniforme, senza colpire una categoria più dell'altra.
Di certo, e in maniera trasversale, un aspetto del lavoro editoriale è oggi profondamente cambiato. L'approccio ragionieristico dei direttori di marketing, al di là dello spazio che un marchio ha loro concesso nel corso del tempo, si è alla fine imposto un po' ovunque costringendo in un angolo il puro lavoro creativo, il pensiero libero, irregimentato nelle impietose caselle della partita doppia. L'editoria è un ambito lavorativo in cui forse non c'è più spazio per i ruoli svincolati da regole di rendimento chiaramente contabilizzabili, mentre in passato le cose stavano ben diversamente.
Mi pare lo racconti bene Teresa Cremisi - presidente e direttore generale di Flammarion e vicepresidente di RCS libri - in un breve testo apparso in Fare libri. Come cambia il mestiere dell'editore, a cura di Ranieri Polese (Parma, Guanda, 2012): «Se guardo dietro alle spalle, tanti anni di lavoro editoriale, allo stesso tempo così vario e così costante; se cerco di capire che cos'è veramente, profondamente, mutato (...); se proprio devo scegliere quella cosa che per me è oggi totalmente diversa da quando comincia questo lavoro (...) una "cosa" mi appare come un'evidenza. È la trasparenza crudele dei numeri. La perdita di una sorta di innocente ignoranza che ci proteggeva dalla persecuzione dei numeri in cui viviamo oggi. No, non conoscevamo i bilanci e nemmeno li sapevamo leggere. (...) Una eco dei "risultati" giungeva a tarda primavera e in fondo non aveva grande importanza: un altro anno glorioso era incominciato da un bel po' e tutto si sarebbe sistemato. Oggi sappiamo tutto, siamo responsabili. Il minimo costo è contabilizzato, l'avvenire dovrebbe essere chiaro, il passato ha il suo peso, evidenziato e sottolineato, di rimorsi. Il futuro è radiografato prima d'esistere. L'editoria è sempre stata un'unione felice tra lo spirito e il commercio, ma adesso è un'unione implacabile e lo spirito ne soffre un po'... Il paradosso è che forse anche il commercio soffre della privazione di quel pizzico di incoscienza».


(Foto di ilpinguino70)

giovedì 17 febbraio 2011

Editoria frammentata

Qualche giorno fa è stata presentata una nuova casa editrice, Sugaman. Anche se a me, che sono veneto, questo nome fa ridere perché suona come asciugamano, l'impresa è seria e presenta delle interessanti peculiarità. Come è ovvio, avviare un'attività tramite la rete offre infinite agevolazioni, e soprattutto - lo dice Alessandro Bonino, uno dei due fondatori di Sugaman - «spostare dei bit è a costo zero». Persino fondare una casa editrice diviene così un'operazione alla portata di tutti, non necessita di investimenti di particolare entità, né in termini economici né di tempo. Aspettiamoci dunque un proliferare di nuovi marchi, virtuali, eterei, ma potenzialmente vivi e attivi come i più blasonati.
L'arrivo di Sugaman sul mercato non è perciò una notizia in sé, ma lo diventa, a mio avviso, nel momento in cui si pone l'accento su una precisa scelta del neonato editore: aver rinunciato a proteggere i propri libri. La battaglia dei DRM, relativa alla gestione dei diritti sui testi digitali, è ancora apertissima e crea quotidiani attriti fra lettori ed e-book. Perché, ci si chiede, quando compro un libro cartaceo posso farne ciò che voglio - trasportarlo, copiarlo, prestarlo - mentre l'e-book si presenta zeppo di paletti che impediscono gli usi più normali del libro? Sugaman ha bellamente aggirato il problema optando per eliminare tutte le protezioni: comprate l'e-book, è vostro, fatene ciò che vi pare.
E' l'uovo di Colombo, direte voi, e si è imparata la lezione venuta dal mondo della musica. Da quelle parti hanno cercato di mettere un freno alla rete, scoprendo che era come trattenere una diga infilando il dito nella crepa: del tutto inutile, prima o poi si finisce comunque travolti. Meglio trasformare il nemico in un alleato, ovvero cavalcare la forza della rete, sfruttarne le potenzialità offrendo contenuti a basso prezzo e nel modo più comodo possibile, stimolando la diffusione, arrivando persino ad offrire album interi a scaricamento gratuito. Ma il guadagno allora dove è? Benché il processo non sia stato indolore, in diversi casi si è avuto un immediato allargamento del pubblico, con nuovi fan desiderosi di possedere l'album 'fisico', di assistere ai concerti, di accaparrarsi merchandising vario ed eventuale, facendo in tal modo riequilibrare i due piatti della bilancia.
Il problema è capire se può valere lo stesso per i libri. Quale potrebbe essere l'indotto per supplire alle perdite di incasso diretto? Cosa dovrebbe fare l'editore per recuperare il venduto perso a causa di un'incontrollata copia dei suoi e-book? Francamente non mi viene in mente niente. I due intraprendenti amici di Sugaman hanno deciso di rischiare, in fondo la loro è una scommessa in forma di hobby, fatta «senza pensare a quale potrà essere il mercato». E qui immediatamente torno alla considerazione iniziale e provo ad immaginare cosa accadrebbe se centinaia di persone si improvvisassero editori, lavorando la sera sui computer di casa, giusto per provare.
In realtà, fare l'editore richiede tempo e risorse, anche se si fanno solo e-book; esporre un marchio significa prendere un impegno in primis con i propri autori, e poi anche con i futuri lettori. Per questa ragione vengo assalito dal timore che si stia davvero preparando una crescita incontrollata del parterre delle case editrici (peraltro già molto affollato), con un aumento tale da lasciare disorientati, da trasformare il lettore in un esploratore privo di bussola. Quello che mi chiedo è se non si stia insomma avviando un processo inverso rispetto a quello della 'concentrazione' editoriale, il fenomeno tanto deplorato da André Schiffrin e caratteristico degli ultimi tre decenni, il cui frutto più evidente è stata la creazione di grandi gruppi in grado di dominare il mercato del libro.
Il prossimo futuro sarà invece un'editoria sempre più frammentata? Di recente - è potrebbe essere un altro indizio - Marco Cassini di Minimum Fax ha affermato: «è successo che le grandi case editrici hanno cominciato a travestirsi da piccola: vedi Stile libero dentro Einaudi, Strade blu dentro Mondadori...». Personalmente non so se avrò tempo e voglia di inseguire migliaia di minuscoli marchi alla caccia di una buona lettura, forse mi stancherò di vedere tante imprese improvvisate, anche interessanti ma sempre col rischio del respiro corto. I libri validi troveranno comunque la loro vetrina, o non sarà invece alla fine un gioco in cui perdono un po' tutti?

Foto: Diga © Jacopo Prisco

venerdì 17 settembre 2010

Il cavaliere editore

Silvio Berlusconi è un elefante in una cristalleria: ogni suo minimo movimento lo porta a cozzare contro qualcosa che sarebbe meglio non toccasse. La polemica, ancora in corso, riguardo a Mondadori, non è che l’ennesimo movimento inopportuno che fa traballare un soprammobile di pregio della cristalleria italiana. Il tutto ha sostanzialmente inizio con gli articoli di Massimo Giannini su «Repubblica», il quale segnala come – grazie al decreto 40 del 25 marzo 2010, poi convertito in legge – il Gruppo Mondadori può chiudere la vertenza che ha in corso con il Fisco, versando 8,6 milioni di euro anziché 350. Il decreto ha lo scopo di smaltire parte del grave arretrato del nostro sistema giudiziario e torna utile in verità a diverse aziende, fra le quali però c’è anche la Mondadori di Berlusconi e così si solleva l’indignazione di molti, con inviti al boicottaggio e con la rabbia per un’altra legge che sembra tagliata su misura per agevolare chi deve agevolare (d’altronde è un elefante, da qualsiasi parte si giri…). Uno dei gesti più clamorosi è la presa di posizione di Vito Mancuso, autore Mondadori, che ha un improvviso rimorso di coscienza e non si sente più in grado di legare i suoi scritti al marchio di Segrate. Lettera aperta e strappo, con tanti strascichi che forse è inutile seguire.
Per non essere accusato di partigianeria, riprendo il quadro che della questione fa Marcello Veneziani sulle pagine de «il Giornale». Nel contenzioso con il Fisco la Mondadori ha già vinto due volte, dunque non era da escludere che pure in cassazione l’accusa sarebbe caduta; mi chiedo allora perché non affrontare il terzo grado di giudizio, così da risparmiare anche quegli 8,6 milioni e uscirne alla fine ‘pulita’. Per Veneziani è stata scelta «la via più breve e meno lacerante» – già presumendo l’inquinamento politico nelle decisioni della magistratura – benché egli concordi sul fatto che la legge «puzza troppo di favore alla casa editrice del premier». D’altronde, e qui si lancia verso il cuore del suo ragionamento, di vantaggi fiscali ne hanno goduto molti e molti sono quelli che traggono beneficio da questa legge. Se poi si va un po’ a scavare nel passato, casi del genere spuntano come funghi, e via ad elencare, svelando una gran mole di ipocrisia e un giustizialismo di parte. Corruzione e favoritismi sono il pane quotidiano della nostra Italia, d’accordo, ma non mi persuade la giustificazione che ne consegue, ovvero che non sia mai il tempo buono per premere sul freno. In più, e ciò non si può negare, in tanti affari poco chiari degli anni addietro c’era chi dava e chi prendeva; oggi le due mani appartengono alla stessa persona. Non è una differenza da nulla. «Ma un autore risponde del suo libro e non dei libri contabili dell’azienda per cui scrive» ci risponde Veneziani. Dissento: un uomo non dovrebbe mai fare come lo struzzo, men che meno un uomo di cultura che possiede i mezzi per comprendere meglio la realtà e a cui molti si affidano nelle scelte quotidiane, nel farsi un’opinione. In queste parole sento la radice di uno degli atteggiamenti più deleteri del nostro tempo: quel fare spallucce e voltarsi altrove che gradatamente porta a subire qualunque cosa.
Detto questo, non stupitevi, sono d’accordo con Marcello Veneziani. Come sono d’accordo con Michela Murgia, la vincitrice del Campiello 2010, che scrive per Einaudi (dunque Gruppo Mondadori) e dice di trovarsi bene con il suo editore, e nonostante tutto non vuole lasciarlo poiché lì ha a che fare con professionisti, perché è felice che i suoi libri siano nel catalogo di un marchio tanto prestigioso e siano efficacemente distribuiti nelle librerie d’Italia. Sono d’accordo. Se non fossi d’accordo, per lo stesso principio dovrei pretendere che si licenziassero tutti quelli che lavorano a Mediaset o per la Mediolanum, o che nessun calciatore accettasse ingaggi dal Milan, perché ogni giorno Berlusconi deve fare scelte che possono favorire o meno quelle società; e a quel punto, la debolezza è umana.
C’è una grande anomalia a monte, un’anomalia che abbiamo accettato: quella di far entrare un elefante nella cristalleria. Perché strapparsi i capelli disperati se molte cose finiscono in cocci, se si frantuma un certo ordine, non dico legale e neppure etico, ma di semplice buon senso? Continuiamo a leggere, anche i libri Mondadori, magari alla fine impareremo che dare molto potere ad uno solo, significa togliere un po' di libertà a tutti gli altri.

Foto: Elefante split © Este Burcian

domenica 8 marzo 2009

Le leggerezze degli editori

Sono assillato dal dubbio che ai grandi editori non piaccia più pubblicare libri. Si inventano di tutto per sfuggire all’impegno: organizzano eventi, producono audiovisivi, collezionano gadget; e quando davvero non possono farne a meno, quando gioco forza devono mandare qualcosa in tipografia, lo fanno distrattamente, senza gusto, e il risultato ne è spesso la prova più evidente. Ho l’impressione che in molte delle case storiche dell’editoria italiana sia scemato l’entusiasmo per il libro, che si continui a produrre per inerzia e per la pagnotta – contando forse su un pubblico di lettori sempre meno esigenti? – ma di fatto pare svanita la passione per il lavoro acuto e certosino che dovrebbe stare dietro ad ogni libro.
Non saprei spiegarmi diversamente gli inciampi, le figuracce, gli imbarazzi, che sempre più di frequente i libri causano ai propri editori. Penso alle opere di Sylvia Browne su Atlantide o i Templari, pubblicate da Mondadori: devo credere che nessuno in redazione abbia percepito sul collo lo sguardo del povero Arnoldo mandando alle stampe le pagine di pseudo-scienza di un’autrice che giunge alle sue conclusioni grazie all’aiuto di uno “spirito-guida” di nome Francine? Penso a Curzio Malaparte trasformato in Maltese (e non in senso geografico) nella recente Storia europea della letteratura italiana di Einaudi a cura di Alberto Asor Rosa: possibile che nessun correttore di bozze o curatore dell’indice abbia avuto il sospetto che un pur bravo giornalista di «Repubblica» difficilmente poteva essersi già conquistato la presenza in un’opera di tal genere? Penso al tanto discusso volume Pasque di sangue di Ariel Toaff edito dal Mulino: è davvero accaduto che tutti si siano lanciati in crociate contro o in difesa del libro, e in casa editrice nessuno abbia realizzato che il problema era a monte, ovvero che il volume è inficiato da una serie quasi infinita di errori di traduzione, citazione, comprensione, tali da rendere quasi inutile discuterne le tesi esposte? Penso, a livello più generale, allo sbracamento indecente, all’esposizione di vergogne, a cui si assiste nell’imminenza dei periodi natalizio ed estivo, tali che qualunque lettore degno di questo nome vorrebbe entrare in libreria in tenuta da disinfestazione.
Oggigiorno le case editrici sono prima di tutto aziende, e il diritto di guardare al fatturato credo sia inviolabile. Ma il marketing non dovrebbe far scordare che il libro è comunque un portatore di contenuto, e che la forma esteriore, il suo lancio commerciale, non sono che orpelli. Rivoltare il fuori con il dentro, significa dimenticare che il libro rimane uno dei vettori culturali principali della nostra società, uno degli strumenti attraverso i quali i cittadini e le loro coscienze crescono e si formano. C’è una grande responsabilità dietro al pubblicare libri, una responsabilità che non dovrebbe ammettere leggerezze.

Foto:
Libri © areldos

venerdì 24 ottobre 2008

Fagioli sotto vuoto

Se mi presentassi ad un convegno di Finmeccanica, ci penserei due volte prima di suggerire agli astanti un modo migliore per ingrassare i bulloni. Di diverso avviso dev’essere Giorgia Meloni (ministro della gioventù) che, agli ultimi Stati Generali dell’Editoria, è intervenuta dando illuminanti consigli. Ne ho raccolto in particolare uno, che sarebbe davvero triste fosse sprecato. Il disquisire verteva sulle modalità con cui aumentare la diffusione della lettura fra i giovani. Bene, diceva la Meloni, perché gli editori non recuperano le opere fuori diritti e fanno delle edizioni economiche che sicuramente a quel punto i giovani si fionderanno a comprare a valanga? Già, perché? In platea – le ho viste io stesso – diverse mascelle hanno toccato terra. Lasciamo stare che molti editori già lo fanno (si invita la Meloni a fare un giro in una qualsiasi edicola); ma siamo sicuri che per avvicinare alla lettura chi mediamente legge poco o nulla, la soluzione migliore sia propinare libri scritti all’incirca cent’anni fa? Ve le immaginate le torme di adolescenti correre ad accaparrarsi il libro Cuore di De Amicis, finalmente disponibile a soli 4 euro?
Quel che io penso, è che si impara a leggere come si impara a mangiare: iniziando dai piatti più semplici e vicini. In seguito forse il palato chiederà e saprà apprezzare qualcosa di diverso e più sofisticato. L'idea di rimpinguare le casse degli editori e far salire il numero dei lettori fra i giovani servendosi di libri lontani dal loro mondo, benché spesso in sé splendidi, mi suona peregrina. Volendo stare nella metafora, la proposta di Giorgia Meloni equivale a pretendere di combinare un affare proponendo ai neonati un omogeneizzato di fagioli con le cotiche.