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domenica 6 febbraio 2011

Atreju, il mio eroe

Ogni lettore esigente ha un libro al quale torna con emozione. Credo che la formula magica dipenda da diversi e imprevedibili ingredienti, però ve ne sono alcuni ricorrenti: una certa epoca dell’adolescenza; il mood del momento, in un corretto equilibrio fra delusioni e speranze; il libro giusto, non per forza eccezionale, ma in grado di far vibrare le corde vergini del nostro modo di pensare il mondo, del nostro guardare il futuro in quel preciso e irripetibile momento. Può accadere in primavera a cavalcioni del ramo di un albero, oppure durante una vacanza marina che lascia troppo libere le ore del dopo pranzo, oppure ancora dopo una pesca ignara dalla libreria in casa di nonna, nel tentativo di sfuggire ad una giornata uggiosa. Ognuno avrà la propria e a suo modo indimenticabile esperienza, e un libro verso il quale confessare un debito: l’aver fatto scoprire che leggere mette del sale nella vita.
Irresistibile è stato il richiamo di una piccola mostra ospitata lo scorso anno presso la Casa di Goethe a Roma. Era infatti dedicata allo scrittore che ha avuto il merito di instillare per primo la ‘magia’ nella mia personale esperienza di lettore. Michael Ende è un nome che oggi evoca poco in Italia, benché ancora notissimi siano i suoi romanzi, da La storia infinita a Momo, da La notte dei desideri a Le avventure di Jim Bottone. Eppure molto stretto fu il suo legame con il nostro paese, tanto da abitarvi per diversi anni e in conseguenza di una scelta non casuale. Nel 1973, dal giardino della sua casa di Genzano ai castelli romani, diceva: «L’Italia è ancora, sempre, il paese in Europa, dove arte, fantasia, poesia fanno parte delle cose elementari della vita e sono considerate importanti come bere e mangiare». Chissà se ora lo scrittore tedesco confermerebbe l’assunto. Questo mi chiedo visitando la mostra, con il tasca tutto il naturale feticismo che mi posso portare addosso nell’osservare gli oggetti, le foto e i manoscritti del ‘mio’ autore.
Improvvisamente scopro che leggere quelle righe curiosamente mi rincuora. Se Michael Ende non troppi anni fa, con il suo occhio acuto e straniero, vide questo nell’Italia, allora forse una radice buona ancora deve sopravvivere sotto la superficie piuttosto arida del presente. A quella radice bisognerebbe puntare, per farla riemergere e poi coltivare. Cambiare mentalità, ma appunto radicalmente, senza farsi irretire nella convinzione che l’unica alternativa possibile sia quella che ci viene posta sotto il naso ogni mattina. Ritornare a pensare che ci sono molteplici possibilità, che il futuro è aperto, con la stessa immaginifica fiducia con cui leggemmo quel nostro primo libro.
A guidare la rivoluzione io vedrei ovviamente Atreju, l’alter-ego di Bastiano Baldassarre Bucci, il protagonista della Storia infinita. È lui il mio eroe, uscito da Fantàsia per scuoterci e farci invertire la rotta sulla china che scende verso il Nulla. Lo è ancora di più da quando il suo nome campeggia sui manifesti di un evento annuale che rappresenta solo una parte del nostro paese, quella che dimostra d’avere meno a cuore l’esposizione – per non parlare dell’applicazione – di un certo ordine di valori. È tempo di edificare un ponte che ci riporti all’epoca d’oro in cui l’Italia era una specie di miraggio per Michael Ende, in cui fantasia e poesia erano cose elementari che guidavano le scelte importanti. È tempo che Atreju torni ad essere un eroe letterario e la politica non s’accontenti di raccontare favole.

giovedì 20 gennaio 2011

La lettura punitiva

Non so se Christoph Mangelsdorf condivida l’idea che la lettura abbia una notevole carica educativa, intendendo proprio ‘educativa’ e non semplicemente istruttiva. Eppure mi sembra palese il suo essere paziente maestra a cui non è dato usare la voce, ma che sa parlare col silenzio. La lettura insegna a stare fermi, a concentrarsi; insegna il gusto di arrivare con lentezza al cuore di una storia, con il medesimo metodico passo di chi sale ad una vetta. Nel leggere c’è un’evidente educazione sia mentale sia fisica.
Non so appunto se questo sia stato il primo pensiero di Mangelsdorf, giudice minorile di Fulda, quando ha deciso di infliggere ad alcuni giovani colpevoli di piccoli reati, la pena di leggere romanzi. Anziché le classiche ore di lavoro socialmente utile, una poltrona e un libro, con l’obbligo d’arrivare sino all’ultima pagina. Come ha dichiarato in un’intervista alla radio tedesca (qui il testo completo), il giudice ha intravisto in questo sistema la strada per ottenere dei risultati altrimenti non raggiungibili, cercando cioè non solo di «punire ma anche di educare». Era infatti emerso come i vari generi di condanne fino ad allora applicate, non aiutavano i ragazzi ad affrontare i problemi da cui scaturiva il loro disagio sociale, rischiavano anzi di aumentare la frattura tra il loro modo di comportarsi e i modelli imposti dagli adulti. La lettura poteva invece permettere di dare una spiegazione ai loro errori.
Il libro funziona allora come una sorta di cavallo di Troia che penetra nella comprensibile diffidenza di chi viene condannato in giovane età ed è spesso privo dei mezzi per dare un corretto giudizio di ciò che gli accade. Per accentuare l’effetto, la scelta delle opere è stata fatta escludendo testi pedagogici o di esplicito indirizzo educativo, preferendo romanzi di successo – come ad esempio La fabbrica del male di Jan Guillou – vicini ai gusti attuali dei ragazzi e che sollevassero domande del tipo “cosa avrei fatto io in quella situazione?”. Non a caso il progetto prevede una procedura in diverse fasi: dopo la lettura, da completare entro un certo periodo, è necessario stendere una breve sintesi e poi rispondere ad una serie di domande. Maggiormente interessante è tuttavia la fase successiva che consiste nello stimolare una discussione, un dialogo al fine di indurre a confidarsi, a far venire a galla i pensieri più reconditi.
Nel progetto si intravvede dunque una valenza psicologica non indifferente, e a conferma di ciò va sottolineato come la scelta di subire questa punizione rispetto ad un’altra, è del tutto volontaria. I ragazzi possono scegliere di leggere, mai esservi obbligati; è un’alternativa che devono loro stessi preferire, facendo pensare appunto a uno dei principi cardine della psicanalisi, ovvero la volontà del soggetto a sottoporvisi. I primi risultati, a sentire Mangelsdorf, sono stati incoraggianti, viene però da chiedersi se in questo modo non si rischi di far odiare la lettura, di trasformarla in uno ‘strumento di tortura’. Spesso il libro è un oggetto alieno per i giovani che hanno problemi con la giustizia, l’averci a che fare si presenta quale esperienza quasi inedita. Personalmente credo possa accadere, in qualche caso, come avviene con certi sciroppi per la tosse grassa. I bambini vi si accostano diffidenti, storcono le labbra, fanno spuntare la punta della lingua a saggiare il cucchiaino, raccolgono una goccia e a volte scoprono che non è poi così male, che, toh, sa di fragola. Il progetto tedesco, che è l’esito in verità di diverse precedenti esperienze, potrebbe perciò produrre positive ripercussioni in diverse direzioni e offrire un modello da imitare, magari anche nel nostro paese.

Foto: Sbarre azzurre © Serena Groppelli

domenica 2 maggio 2010

I ricordi di Oz

L'infanzia ci dona uno sguardo speciale sul mondo. Conservare memoria di quello sguardo, e farlo diventare narrazione, è un dono altrettanto grande; soprattutto se quell’infanzia ha avuto la sorte di vivere in anni di grandi sconvolgimenti. Accade allora che la Storia improvvisamente si cristallizzi e riesca a parlare in modo distinto, a svelare almeno in parte il senso del suo svolgersi. La Gerusalemme negli anni della Seconda Guerra Mondiale, il protettorato inglese, il latente conflitto con il mondo arabo… questo è ciò che scorre davanti agli occhi del bambino di nome Amos Oz.
Sulla pagina si susseguono i quadri, ognuno conchiuso in sé stesso, che ci immergono in un'atmosfera di piccole cose quotidiane sulle quali alita appunto la Storia, con angosce sottili. Il bambino, divenuto adulto, racconta, fidandosi di una memoria sorprendente, metodica, geometrica nel procedere; costruisce piccole saghe concentriche, intersecanti fra loro, con l’effetto di una lieve eco narrativa che sa di epica, benché il nonno commerciante di stoffe non sia esattamente l’inclito Achille. D’altronde la loro vita godeva delle piccole fascinazioni del pioniere: questioni minime ma essenziali - come il dilemma se fosse sbagliato acquistare il formaggio arabo (p. 25) - erano lo specchio di una quotidianità anomala. Conosciamo bisnonni che troneggiano nel tempio della memoria familiare, e dunque non è un caso se l’andamento è quello dei racconti antichi, pare di leggere una genealogia biblica contemporanea, colorita e barocca. Eppure certa scrittura riesce a infischiarsene delle leggi fisiche più elementari e sa far levitare una massa enorme di parole.
Amos Oz è topograficamente minuzioso sino alla pedanteria nel descrivere la sua Gerusalemme, con dettagli lontani per chi non è israeliano. Si tratta però di un’immersione personalistica, intima, nulla a che vedere con il senso di missione evocato dalle parole dei ‘vecchi’, dell’erudito zio Yosef: «ora qui nella nostra terra abbiamo bisogno di una letteratura veramente nuova» (p. 80). Sulla necessità della militanza dello scrittore ha detto qualcosa anche Abraham Yehoshua, durante la conferenza tenuta a Roma il 27 marzo scorso. Esiste una prima generazione di scrittori israeliani ai quali era negata la possibilità di deviare dal sentiero dell’impegno a sostegno della causa nazionalistica, forzati a scrivere per la «nostra terra». Da quella posizione gradualmente si allontana la generazione nuova, quella di Oz e Yehoshua appunto, muovendo verso l’individuo, e non la comunità, verso il surreale, e non la complicata realtà.
Forse per questo ci troviamo di fronte quell'avvertimento, cinque pagine che sono in fondo la definizione dell’incontro tra la letteratura e le nostre anime di lettori (pp. 42-46). Il cattivo lettore cerca solo il fatto che “sta dietro”; chiede a quali verità, eventi, persone reali lo scrittore ha attinto; il cattivo lettore gratta la superficie per portare al vivo la concretezza, la realtà delle cose. Il buon lettore invece apre le braccia al fluire della narrazione e sente cosa quelle parole scritte vogliono dire per lui solo. Spesso, dice Oz, quelle parole ci rivelano qualcosa che preferiremmo non sapere. Tuttavia, nello stesso tempo, esse ci fanno sentire, nella nostra particolare e singolare intimità, anche parte di un tutto, di un’umanità condivisa: qualcuno ne è più consapevole, la vive, la percepisce in sé, la governa quasi; altri la subiscono, senza rendersene conto.
(Fine parte prima)
(Leggi la seconda parte)

Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: all'appassionato di alberi genealogici

venerdì 1 gennaio 2010

I libri sono multimediali

«C'erano delle ricerche che dichiaravano che l'hyperlearning era la forma di apprendimento del futuro, lontano dagli asili e dalle scuole. Con forza, quindi, lo psicologo dell'apprendimento si scagliò proprio contro questa tesi, e relazionò sulla sua esperienza nella scuola elementare, dove negli ultimi anni è diventato sempre più difficile fare lezione a causa dell'aumento della sindrome da iperattività, una evidente conseguenza dell'uso smodato della televisione e dei media in generale». Così Birgit Vanderbeke nel romanzo Sweet sixteen (Roma-Cosenza, Del Vecchio, 2008, p. 31) e, pur trattandosi di finzione narrativa, è evidente che l'analisi riflette una realtà concreta, in particolare rispetto alla crescita incontrollata avuta da internet negli ultimi anni. Certe forme di apprendimento, di acquisizione di conoscenza, sono dunque destinate ad estinguersi? I libri soccomberanno di fronte alle nuove tecnologie?
Mi pare abbastanza evidente che lo scontro fra internet e qualsiasi altro media sia di per sé uno scontro impari. In un editoriale di qualche tempo fa («Wired», n. 3, maggio 2009, pp. 11-12) Riccardo Luna affermava che, nella sciagurata eventualità d’essere costretto a rinunciare a tutti i mezzi di comunicazione tranne uno, non avrebbe dubbi nel far cadere la scelta su internet rispetto a libri, radio, televisione... Difficile dargli torto, ma si può obiettare che si tratta di una risposta furba, perché internet è un mezzo che raccoglie e ripropone, anzi potenzia, anche i contenuti generati da altri media. Internet ricicla tutto e quindi ingloba tutto, permette di leggere libri, di ascoltare radio, di vedere film, e in più crea prodotti e messaggi nuovi. All'apparenza l'epilogo è scontato. Pensare che prima o poi internet – assieme alle sue varie appendici tecno-portatili - soppianterà del tutto gli altri media risulta quasi scontato. Eppure io sono convinto che non è questo ciò che ci riserva l'immediato futuro.
C'è un dato storico evidente. Nessun media, al suo apparire, ha mai fatto tabula rasa attorno a sé. La tradizione orale non è stata cancellata dal libro, la radio è sopravvissuta alla televisione, ogni mezzo ha trovato una sua nuova collocazione, a volte perdendo parte della sua influenza o dovendo in qualche modo reinventarsi, d'accordo, ma di sparire non se n'è parlato. Mai quanto oggi i media sono integrati fra loro in una rete di reciproco scambio, teorizzata fra l'altro nel concetto di cross-media. Non vedo perché improvvisamente le cose dovrebbero andare in maniera diversa.
La multimedialità, carattere forte e specifico di internet, non è un suo carattere esclusivo. Volendo immaginare nello specifico il duello fra libro e internet, lo vedo anzi proprio come un duello fra due generi diversi di multimedialità. Perché – lasciatemi azzardare – anche il libro è un oggetto multimediale; ovviamente non come supporto in sé, ma per il fatto di finire nelle nostre mani. Noi siamo sempre più esseri multimediali, resi tali da un modo nuovissimo di apprendere e condividere la conoscenza, e tendiamo a rendere multimediale tutto ciò che solletica le nostre percezioni, benché non sempre – è qui sta la questione – con il medesimo esito.
Che multimedialità è infatti quella di internet? È una multimedialità esteriore, ipercinetica e ingorda. Ci stimola di continuo, manda messaggi infiniti, zampilla come una fontana. È giocosa e frenetica, sempre alla caccia di cose nuove; salta da un link all’altro come Tarzan fra le liane, spesso senza lasciare tempo per riflettere: raccoglie, confronta, sbuccia, morde e getta via. Sommerge a tal punto di cose da lasciarci alla fine disorientati o inebetitamente sazi.
Anche il libro, una volta aperto, richiama alla mente e ai sensi immagini, suoni, odori, evoca proustianamente informazioni, non necessariamente meno efficaci solo perché depositate dentro di noi, anziché nel database di Wikipedia. Ripeto, siamo noi oramai ad essere multimediali, ad avere innestato nel pensiero il meccanismo del link, a cercare necessariamente il collegamento. Quella del libro è perciò una multimedialità interiore, intima e personale, che pesca da un bacino di conoscenze molto più limitato, ma di certo più denso di significati per ciascuno di noi. È una multimedialità dai tempi lenti, dilatati, che non assilla chi vi si immerge, ma consente di divagare con grande libertà. Credo che il bisogno di un approccio di questo tipo non verrà mai meno: ci sarà sempre un lettore in cerca di un libro per godersi la propria multimedialità interiore.
Insomma vale sempre quanto diceva Giovanni Pozzi: «Il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace». Ed è nel silenzio che spesso nascono i nostri migliori pensieri.

Foto: Mad fools and Englishmen © James Lyon

venerdì 30 gennaio 2009

Il primo passo nella foresta

La sensazione che avvolge l’animo dell’esploratore mentre sosta al limitare della foresta, nell’attesa di compiere il primo passo e penetrare nel mistero di un luogo sconosciuto, è affine a quella del lettore quando stringe fra le mani un nuovo libro. Al di là della copertina, di un nome o di un titolo – tutti elementi che suggeriscono, sussurrano, a volte ingannano, ma in ogni caso non dicono, non possono dire, abbastanza – si apre un mondo inesplorato. L’emozione diviene viva e palpitante grazie alla speranza che ogni vero lettore ripone nel nuovo libro, la speranza di trovare in quelle pagine una storia che lo avvinca e lo commuova come solo poche altre hanno saputo fare in precedenza, ed è lì che sta il cuore dell’emozione, nel desiderio che la foresta in cui sta per penetrare lo risucchi in un vortice e lo trascini fino all’ultima riga, fino a valle, come un ciottolo trascinato da un torrente in piena.
Nessuna quarta di copertina, nessuna recensione, può rendere piena giustizia o ingiustizia ad un libro. Quindi averle lette prima non significa già conoscere il libro, tuttavia, io credo, un po’ di gusto si perde se si ha notizia della trama, dell’atmosfera, delle ispirazioni, senza aver ancora voltato una sola pagina. Nel caso dell’esploratore equivale ad avviarsi su un sentiero segnato anziché penetrare una foresta vergine. Diceva Elias Canetti: «Chi mi consiglia un libro me lo strappa di mano, chi me lo esalta me lo guasta per anni». Forse è un eccesso, ma rende l’idea.
Ecco perché il VoltaPagine, ligio al punto 3 del suo decalogo, divaga e insegue sollecitazioni centrifughe, per sfuggire alla tentazione di dire troppo: in modo da lasciare al lettore l’emozione del primo passo nella foresta.

Foto:
La foresta di "Sas Baddes" - Orgosolo © maskaphoto

giovedì 13 novembre 2008

Saccenteria italica

Ecco i tre protagonisti del nostro gioco: 1. la signora Merli che ingoia per errore un’aspirina effervescente con l’effetto di concorrere al ruolo di controfigura di Linda Blair ne L’esorcista; 2. il ragioniere Belloni che, dopo essersi montato da solo un armadio, fissa attonito l’asta, le tre viti, le cinque manopole e l’anta inutilizzate nella scatola di montaggio; 3. nonna Ada che prepara la torta dosando gli ingredienti a memoria e così estrae dal forno una sorta di mattone refrattario a stento commestibile. Ora riflettete per bene sulle tre descrizioni e cercate di rispondere alle seguenti domande: cosa accomuna i tre personaggi? Quale è la caratteristica che permette di considerarli simili? C’è un’affinità fra i loro contrattempi?
Siccome lo scherzo è bello se dura poco, non vi tengo sulle spine e vengo subito al dunque. I tre sono accomunati dall’essere non-lettori, vittime della saccenteria italica che porta a pensare spesso e volentieri che è inutile comprare un manuale o leggere le istruzioni. Ci si affida all’improvvisazione, al “decidere mentre si fa”, al tentativo estroso non di rado disastroso. Se la signora Merli avesse letto il bugiardino, se il ragioniere Belloni avesse sfogliato le indicazioni per il montaggio, se nonna Ada si decidesse ad aprire quel benedetto ricettario... Cattiva educazione, genetica ribelle? Difficile stabilire l’origine, ma se vi guardate attorno un dato è certo: la saccenteria italica dilaga e il leggere per imparare non è proprio considerato. Sarà forse per questo che siamo spesso così approssimativi?

venerdì 24 ottobre 2008

Fagioli sotto vuoto

Se mi presentassi ad un convegno di Finmeccanica, ci penserei due volte prima di suggerire agli astanti un modo migliore per ingrassare i bulloni. Di diverso avviso dev’essere Giorgia Meloni (ministro della gioventù) che, agli ultimi Stati Generali dell’Editoria, è intervenuta dando illuminanti consigli. Ne ho raccolto in particolare uno, che sarebbe davvero triste fosse sprecato. Il disquisire verteva sulle modalità con cui aumentare la diffusione della lettura fra i giovani. Bene, diceva la Meloni, perché gli editori non recuperano le opere fuori diritti e fanno delle edizioni economiche che sicuramente a quel punto i giovani si fionderanno a comprare a valanga? Già, perché? In platea – le ho viste io stesso – diverse mascelle hanno toccato terra. Lasciamo stare che molti editori già lo fanno (si invita la Meloni a fare un giro in una qualsiasi edicola); ma siamo sicuri che per avvicinare alla lettura chi mediamente legge poco o nulla, la soluzione migliore sia propinare libri scritti all’incirca cent’anni fa? Ve le immaginate le torme di adolescenti correre ad accaparrarsi il libro Cuore di De Amicis, finalmente disponibile a soli 4 euro?
Quel che io penso, è che si impara a leggere come si impara a mangiare: iniziando dai piatti più semplici e vicini. In seguito forse il palato chiederà e saprà apprezzare qualcosa di diverso e più sofisticato. L'idea di rimpinguare le casse degli editori e far salire il numero dei lettori fra i giovani servendosi di libri lontani dal loro mondo, benché spesso in sé splendidi, mi suona peregrina. Volendo stare nella metafora, la proposta di Giorgia Meloni equivale a pretendere di combinare un affare proponendo ai neonati un omogeneizzato di fagioli con le cotiche.