domenica 27 settembre 2009

Trilogia del PD

Il politichese è l’anti-letteratura per antonomasia. Dunque non saprei veramente spiegare per quale assurda forma di masochismo mi sia venuto in mente di leggere le tre mozioni e di arrivare persino a scriverne. Forse era meglio lasciarle dove stavano, a coprirsi di polvere fino a diventare documenti d’archivio, oppure a infilarsi nei pertugi senza fondo della cosiddetta letteratura grigia. Ma il dado è tratto ed ecco il risultato del divertissement. Leggere quei documenti politici come fossero strana narrativa di consumo forse non è servito a produrre chissà quali acute analisi, ma a fronte del gran dibattito sulla scelta del prossimo candidato per il maggior partito dell’opposizione, non ho resistito a comportarmi da lettore esigente, dopo aver scaricato i testi delle mozioni con cui Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini, Ignazio Marino si sono candidati alla guida del PD.

Mozione Bersani: è l’unica ad avere una copertina e denota in generale una cura grafica maggiore, non a caso è stata redatta con un Mac. Presenta un arioso logo, disegnato per l’occasione, in cui spicca il solo cognome (il nome proprio non ricorre mai in tutto il documento). Accanto campeggia lo stemma del PD, sfoggio che le altre due mozioni hanno scaramanticamente evitato. Le 13 pagine che la compongono sono strutturate a piccoli paragrafi dai titoli altisonanti – Il nuovo mondo, Democratici del XXI secolo, Abbiamo fiducia nel nostro Paese... – per far capire fin da subito che qui si parla di concetti alti, della necessità di un “ritorno alle radici dell’umanesimo” e dell’entrata in campo della “grande politica”. Era ora, verrebbe da dire. Si tratta insomma di un testo che la prende larga, che cerca di delineare un orizzonte ideologico, che vuole ispirare più che spiegare. Quando scende sul concreto, su un’Italia fratturata in diversi punti, si concentra soprattutto sul lavoro e parla di nuove forze sindacali, di fonti rinnovabili, di sperequazione della ricchezza e di staticità sociale; parecchio di sinistra, salvo invocare subito dopo una “nuova stagione di liberalizzazioni”. Il momento migliore, il passaggio con la maggiore vis retorica, è per me quello alle pagg. 8-9: “Dove la crescita dell’informazione, della cultura e della responsabilità personale e istituzionale [rispetto allo sviluppo scientifico e alla globalizzazione] non sono altrettanto veloci, queste straordinarie opportunità di progresso suscitano rapidamente un regresso civile e morale: demonizzazione dello straniero e del diverso, nuove forme di sfruttamento, oscurantismo, umiliazioni della dignità della donna, paura del progresso, nuovi fondamentalismi, chiusure identitarie”. Fa invece un po’ ridere vedere scritto “la laicità è la nostra bussola” (p. 9), quando l’unico testo citato in tutta la mozione è l’ultima enciclica papale (p. 2). La mozione più corta sembra in un certo senso molto sicura di sé, perché non ritiene necessario approfondire, è una “traccia di discussione da sviluppare”; d’accordo, però forse non sarebbe stato male capire come. Non ho ben compreso a che scopo siano stati aggiunti in appendice le definizioni di partito e di democratico. Sarebbe davvero preoccupante se fosse necessario ripartire da così a monte...

Mozione Franceschini: cinque parole come titolo e poi la mozione si srotola ininterrotta per ben quaranta pagine, anche se non fittissime, anzi piuttosto spezzettate in frequenti a-capo e frasi semplici ad effetto, un po’ alla Baricco, se avete presente lo stile. Benché priva di copertina, la mozione ha un simpatico logo tricolore che accompagna il nome e si ripete in alto in ogni pagina come un titolo corrente. Il tono è più confidenziale, Franceschini dice “io” e snocciola date, nomi e numeri (è l’unico a nominare Berlusconi). Eppure anche qui si sente la necessità di costruire una sovrastruttura filosofica alle proprie proposte, trasmettere una Weltanschauung compiuta e complessiva. Le citazioni però sono decisamente più laiche, da Victor Hugo a David Maria Turoldo (un sacerdote, è vero, ma praticamente esiliato e parecchio inviso alle gerarchie vaticane). Non a caso si arriva a parlare poi di rispetto per i diversi orientamenti sessuali, argomento assente nella mozione precedente, nonostante la sua attualità. Nella sostanza le prime due mozioni dicono suppergiù le medesime cose, ma quella di Franceschini fornisce indicazioni precise sui modi d’attuazione, fa esempi tangibili, argomenta senza far calare le parole dall’alto, con una sorta di umiltà sincera – forse più da coordinatore che da guida – e dà l’idea di crederci davvero: “l’Italia è la risorsa dell’economia italiana” (p. 30), più fiducia di così.

Mozione Marino: la contraddistingue una strutturazione interna piuttosto organica, una sorta di albero degli argomenti che man mano si ramifica (fino ad una serie di schede tematiche), avendo sulla cima un sentito invito ad una nuova sensibilità, ad un nuovo senso civico: “Noi italiani abbiamo il diritto di tornare ad essere orgogliosi del nostro paese. Perché l’Italia è migliore di quanto vorrebbero la retorica del cinismo e del disincanto” (p. 1). Il desiderio di rottura si manifesta anche nel logo, privo di tracce del tricolore e che rappresenta un movimento verso l’esterno, l’uscita da un luogo chiuso, oppure una fecondazione al contrario (se anche a voi ricorda una specie di spermatozoo). Il progetto si basa su cinque parole, esattamente come nella mozione Franceschini: una sola coincide (merito) ma alcune delle riflessioni sono affini. La mozione offre spunti inediti piuttosto nelle modalità di realizzazione del progetto, dando più delle altre l’impressione di non calcare i percorsi classici della politica nostrana. Se Bersani dice “un senso a questa storia”, Marino pare volere “una storia nuova (con qualche senso)”. Insomma, le proposte per la formazione continua, per un fisco non punitivo, per l’impegno civile degli anziani, per scuole con un chiaro ruolo sociale e di integrazione, per una trasparenza nell’uso delle imposte, appaiono nel complesso originali, meno soggette al fastidioso odore di naftalina. Ditemi, ad esempio, se questa definizione vi sembra appartenere alla politica a cui siamo abituati: “la laicità è un metodo: [...] significa non porsi nel dibattito pensando di possedere la verità o di avere ragione a priori” (p. 16). Are you italian?

Ponendo le tre mozioni una accanto all’altra, le differenze più nette si rilevano soprattutto nel modo di considerare la breve storia del PD sino ad oggi. Bersani soffre la corresponsabilità di un mancato raggiungimento degli obiettivi e vorrebbe essere colui che questo partito lo rifonda. Franceschini è più ottimista, sente di far parte di un processo in corso che darà i suoi frutti – pur ammettendo che il cammino rimane lungo e difficile – “perché il partito lo stiamo ancora costruendo” (p. 34). Al contrario Marino indietro non guarda proprio: per lui il partito ancora non c’è (con sonoro applauso dei soci fondatori delusi).

Foto: partito democratico © lutherblisset71

domenica 6 settembre 2009

La città senza grigi

Il signore delle mosche ha un antenato, e abita a Timpetill. Nel centro del paese non c'è una testa di maiale infissa in un palo, bensì la statua di san Matteo, eppure la domanda di fondo è la stessa: come agirebbe una comunità di bambini improvvisamente abbandonata a se stessa? Darebbe libero sfogo a tutti gli egoismi facendo prevalere la legge della giungla, oppure tenterebbe di darsi un ordine, delle regole, per creare una società senza prevaricazioni ed efficiente nella propria sussistenza? Se William Golding da qui era partito per dipingere un quadro pieno di sfumature, Henry Winterfeld, diversi anni prima, aveva scritto di Timpetill evitando decisamente i grigi: una divisione manichea contrappone i Pirati di Oscar Stettner al gruppo guidato da Tommaso Wank, cattivi contro buoni, e se i primi ricalcano perfettamente la fisionomia della classica banda di discoli, i secondi sono così buoni da apparire quasi falsi. Sfoggiano notevole lungimiranza, una dirittura morale al limite dello stucchevole, una saggezza tanto pacata da difettare di verosimiglianza.
C'è una smisurata fiducia nel prevalere della disciplina, nella soddisfazione che chiunque godrà nel sottostarvi, nella qualità delle scelte che le guide dei "buoni" faranno. Tutto procede per il meglio nel rapido cammino di crescita dei bambini, tanto che la conquista delle redini della città moderna - tratteggiata come luogo perfetto di progresso sociale e tecnologico - avviene a tratti in maniera didascalica, poco dinamica (il capitolo dedicato alle centrali elettrica e idraulica che alimentano la città, alle pp. 120-125, pare un piccolo manuale da Giovane Marmotta).
Col senno di poi è facile constatare quanto lontana da queste pagine sia la pedagogia, intesa nel senso di scienza che si interessa al bambino nella sua unicità e non come prototipo imperfetto dell'adulto. Nonostante manchino le efferatezze, la spietatezza, la disillusione del Signore delle mosche, il romanzo di Winterfeld è pervaso da un cinismo leggero che lo rende per certi versi ancor più crudele. A ben vedere quei ragazzini sono cavie di laboratorio, vittime di un esperimento involontario quanto irresponsabile. Perché tutto ha inizio quando il telefono azzurro è ben di là da venire e i genitori si permettono il lusso di giocare un tiro birbone, ma birbone davvero, ai propri figli. Sennonché la situazione sfugge loro di mano e ai bambini tocca diventare grandi molto in fretta.
Timpetill uscì nel 1933 e Carmine De Luca - nell'introduzione a questa nuova edizione del romanzo - si pone la nient'affatto banale questione del rapporto dell'opera con l'ascesa del nazismo. Non sarebbe improprio, ipotizza De Luca, vedere nei Pirati un "simulacro delle bande [...] agli ordini di Hitler" (p. 13), e quindi raffigurare Tommaso e compagni come ideali oppositori del folle regime. Per la verità mi pare altrettanto plausibile pensare l'esatto contrario. La volontà di organizzare e rendere comune ogni aspetto della vita sociale, l'imposizione dall'alto di ruoli e incarichi, la spinta allo sfruttamento delle macchine (si veda l'episodio del tram), sono alcuni degli aspetti che fanno aleggiare attorno ai "buoni" un alone oggi perlomeno sospetto. Quelle pattuglie della riserva che girano armate di bastoni evocano certo qualcosa. Ci sarebbe da indagare e l'esito della ricerca potrebbe essere paradossale, considerando soprattutto che lo stesso Winterfeld cadde vittima delle leggi razziali e dovette lasciare la Germania poco tempo dopo l'uscita del romanzo. Chissà se nella vicenda non vi sia posto per della fiducia mal riposta e poi delusa.
Rimane il fatto che alcuni dei nostri nonni sono cresciuti leggendo e rileggendo le avventure raccontate da Henry Winterfeld e al libro sono ancora affezionati, come è il caso di Tullio De Mauro che firma la presentazione. Nulla di strano; sappiamo bene che alle storie della nostra infanzia perdoniamo ogni cosa: comunque rimarranno per sempre la storie più belle al mondo.

Manfred Michael (Henry Winterfeld), Timpetill. La città senza genitori, Perugia, Edizioni Era Nuova, 2008.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: alla mamma eccessivamente apprensiva.