lunedì 29 dicembre 2008

Sacrifici inutili

Scusate, ma evidentemente qualcosa mi sfugge. Devono aver trafugato il diario segreto di quel ragazzo delle medie che si racconta in Tapparelle; ne hanno estratto le parti migliori (?), le hanno ben impaginate, corredate di disegni curiosi e mandate in stampa. Tutto qui? Direi di sì. L’esito finale è una sorta di delirio artisticamente molto debole, abbastanza ripetitivo, sostanzialmente insensato. Forse il demenziale basta a sé stesso, ma in genere – per quanto mi è capitato di vedere – anche il demenziale ad un certo punto reca un messaggio, tradisce un pensiero nascosto fra le righe. Qui non ho trovato nulla. Allora, cui prodest?
Nei college americani se uno è bravo, ad esempio, a giocare a baseball, gli abbuonano le altre materie. La pratica può non essere condivisa, ma presenta un suo perché. Invece non trovo un perché in un buon gruppo musicale che si mette a pubblicare libri sostenendo, per scherzo, che il baseball è il più bel gioco del mondo.
Il vizio dilaga: se sfondi in un ambito, per forza devi essere bravo a fare qualsiasi cosa. Perché, di grazia? Non se ne può più di dj che fanno i doppiatori, di presentatori che fanno gli attori, di veline che presentano e avanti con tutto il baraccone. Soprattutto un po’ mi stupisce che siano caduti in tentazione Elio e compagni, ma non li biasimo; se mi invitassero a partecipare alle olimpiadi come saltatore con l’asta ci andrei senz’altro, nonostante l’ovvia pessima prestazione che offrirei. Il problema perciò è un altro: chi ha dato loro l’occasione di scrivere questo libro?
In chiusura mi fermo sul sottotitolo, che così recita: Il Nuovissimo Metodo per entrare alla grande nel mondo dei grandi. Il mistero si infittisce, non capisco dove sia il metodo. Forse l’unico insegnamento è che il mondo dei grandi è insensato, ma venti poesie su animali spiaccicati non mi pare il miglior modo per trasmetterlo.


Elio e le storie tese, Animali spiaccicati, Torino, Einaudi, 2004, pp. 252.

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Da regalare: a un fan di Elio (ma molto fan)

lunedì 22 dicembre 2008

La genialità del siracusano

Forse per colpa di Walt Disney, ho l’impressione che Archimede sia un pensatore a cui oggi non sono comunemente riconosciuti gli effettivi meriti. Di solito lo si immagina mentre parla con una lampadina e collauda un raddrizza-banane fotovoltaico, o tutt’al più nell’atto di saltare fuori dalla vasca e correre per strada in abito adamitico gridando: «Ho trovato! Ho trovato!». Sarà anche perché a scuola non c’è nessun teorema di Archimede da mandare a memoria, fatto sta che a Pitagora e Talete si guarda con gran rispetto, mentre sul nostro quasi quasi ci si ride su. Ma il siracusano era uno che sapeva il fatto suo e ha segnato importanti tappe nel cammino della scienza. Forse sapere di dovere a lui la scoperta del pi greco non provoca un moto di simpatia, ma del suddetto numero ripieno di decimali l’utilità è universalmente riconosciuta. Va altresì detto che – molto prima che gli inglesi (a detta loro) inventassero il calcio – Archimede aveva già previsto il pallone dandogli il comodissimo e grecissimo nome di icosaedro troncato. E poi ovviamente l’eureka che svela il trucco del falsario e il concetto di peso specifico; la leva; gli specchi ustori; la catapulta; e tanti altri simpatici aggeggi che, sotto diverse fogge, fanno parte della vita di tutti i giorni. Il racconto arguto della vita di un genio che esalò l’ultimo respiro nel 212 a.C., colpito a morte da un soldato romano irritato per essere stato così apostrofato: «noli turbare circulos meos». Non poteva sapere che quel tale immerso nell’osservazione di alcuni disegni nella sabbia era il grande Archimede.

Mario Geymonat, Il grande Archimede, Roma, Sandro Teti, 2006, pp. 138.

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Da regalare: a chi legge solamente i numeri sulla calcolatrice

domenica 14 dicembre 2008

Il giardino del ministro

Fra tutti i Ministri dei Beni Culturali, Sandro Bondi mi pare quello che meno si è messo finora in evidenza. Non viene intervistato, non rilascia dichiarazioni, non preannuncia innovazioni. Sarà che il governo ha altre priorità, sarà che il portafoglio è sempre più sottile, di fatto l'apparenza ci parla di un ordinario tran tran. Intendiamoci, potrebbe essere addirittura un buon segno, ma da lettori esigenti stiamo all'erta nel controllare le mosse del dicastero che per primo dovrebbe occuparsi di editoria e promozione della lettura.
Per amor di verità va segnalata, fra le non eclatanti novità, quella collocata in bella vista nella home page del Ministero stesso: le recensioni di Bondi. Si tratta però di una novità che fa saltare la mosca al naso, per un evidente motivo di concorrenza sleale. Come può il VoltaPagine sperare di far valere il proprio parere su un libro, quando ha di fronte la prima pagina del sito istituzionale di uno dei ministeri della Repubblica Italiana? Non c'è ovviamente partita a livello di audience. In realtà la cosa non mi turba – come ben immaginerete – mi domando soltanto se sia corretto utilizzare un mezzo pubblico per diffondere giudizi che poco o nulla hanno a che fare con la funzione del temporaneo responsabile. Sarebbe come se l'autista di un autobus di linea facesse suonare tutto il giorno nello stereo del bus le canzoni da lui composte in lunghe notti di struggimenti sulla chitarra. Mi parrebbe evidentemente un uso personalistico di bene comune, come considerare proprio giardino personale un parco invece pubblico. Al di là della piacevolezza di recensioni o canzoni, su cui non esprimo giudizi, perché devo trovarmele di fronte, e perciò subirle, quando sul quel sito o su quell'autobus sono senza dubbio arrivato per ben altre necessità?
Consiglierei allora al buon Bondi di crearsi un blog o organizzare una newsletter (magari a sue spese piuttosto che sfruttando i tecnici del ministero); sono persino disposto a dare qualche suggerimento, in fondo la concorrenza onesta non mi spaventa.

Qualcosa da cambiare

La prima proposta è in sostanza quella di affidare il governo dell’Italia ad un qualche organismo estero, avendo preso atto della congenita incapacità degli italiani di darsi un governo serio e duraturo. L’idea non è del tutto nuova, se si pensa che nel Medioevo i comuni chiamavano spesso a guidarli personalità provenienti da luoghi lontani, scegliendoli in base alle loro qualità e avendo la garanzia fossero liberi da legami di interesse e parentela. Eppure è rivoluzionaria nel momento in cui fa veramente riflettere, con il sorriso, sulla pochezza della nostra classe dirigente. Si badi che Prezzolini scriveva nel 1975, ma si faccia avanti chi ha coraggio di affermare che le cose siano nel frattempo migliorate.
Ce ne vorrebbero di intellettuali così, cioè di intellettuali veri, di destra o sinistra che siano. Di gente che pensa veramente e non dà nulla per scontato, non concede nulla all’abitudine e alla tradizione, perché sa che tutto può cambiare e volendo in meglio. Sulla scia di Swift, ironica e provocatoria, Prezzolini snocciola le sue proposte e ci lascia disorientati, ma con un sacco di interessanti interrogativi.
Il libretto si asciuga in un momento, per poi decantare con calma, come fanno le parole degli oratori eccellenti. Sfidate allora queste proposte e vedete cosa riuscite a ribattere, o magari se ve ne vengono in mente altre da contro-proporre; potrebbe essere un piacevole gioco di società. A questa non ho nulla da obiettare: «Una legge che obblighi tutte le femmine e tutti i maschi che esercitano la prostituzione, a pagare le tasse come ogni altro noleggiatore (...) con obbligo di tariffa esposta nel locale». Che dire poi della quinta proposta per l’abolizione delle tesi universitarie? Sacrosanta (e infatti nella sostanza, ma non nella forma, rispecchia quanto accade oggi).
Tanto per non parer di parte, e tuttavia ben conscio della modestia del mio pensiero, mi permetto di contestare la quarta proposta, che vorrebbe l’abolizione dell’insegnamento di Stato delle materie umanistiche. A me pare i rischi siano molti, nel lasciare solo all’iniziativa privata il timone del mondo delle lettere, e non perché mi illuda che dalla scuola possano venire scrittori o musicisti, quanto piuttosto perché non sempre «chi ha voglia di imparare, impara da sé». Anzi, di maestri come Prezzolini ce ne vorrebbero ancor di più, ma ho l’impressione che la nostra società non offra molti luoghi dove incontrarli. Se affossiamo pure la scuola, che fine faremo?

Giuseppe Prezzolini, Modeste proposte scritte per svago di mente, sfogo di sentimenti e tentativo di istruzione pubblica degli italiani, Palermo, Sellerio, 2006, pp. 94.

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Da regalare: al posto della solita bottiglia di vino in occasione di un invito a cena con amici interessati alla politica

domenica 30 novembre 2008

La camelia sul muschio

Di certe bambine, orgogliose e intelligenti, bisogna avere paura e rispetto. Hanno in canna certe risposte da lasciarti secco, e nel contempo basta un alito di vento per incrinare la fragilità della loro giovinezza. Così è Paloma, giovinetta dell’alta borghesia francese, che scrive e riflette in un diario trasudante metafisica ed esistenzialismo. Più in basso, al piano terra, c’è la portinaia Renée, ma anche lei non scherza quanto ad elucubrazioni mentali. A volte – soprattutto nella prima parte del romanzo, più lenta ed errabonda – pare di stare nel Mondo di Sofia, con parentesi concettuali di un certo qual peso, come quando si disquisisce su un tavolo: ogni tavolo è irrimediabilmente un singolo irripetibile o esiste un concetto universale di tavolo? È il cruccio di Guglielmo di Occam, ma pure della nostra portinaia. Che poi una donna di una certa età, con una buona dose di tempo libero alle spalle, si sia pian piano trasformata in una pensatrice autodidatta e clandestina, non sconcerta. Piuttosto lascia perplessi constatare il livello di riflessione filosofica di Paloma che, a soli dodici anni, ci convince, eccome!, che «gli uomini vivono in un mondo in cui sono i deboli a comandare» (p. 49).
Entrambi i personaggi hanno un po’ troppa coscienza della propria condizione, dei propri limiti, per non scorgere dietro di loro l’autrice che racconta e suggerisce i pensieri. Il gioco forse è proprio questo: Muriel Barbery si serve di una storia e di due donne per farci cadere fra le mani le sue meditazioni, non di rado pregnanti («giacché l’Arte è la vita, ma su un altro ritmo», p. 148), altre volte dotte, quasi saccenti («La grammatica è una via d’accesso alla bellezza», p. 152). L’effetto funziona meno con la piccola Paloma che nella storia ha un ruolo sostanzialmente marginale: è Renée che muove tutti i fili, che scuote le vite (compresa la sua) fino ad immolarsi per cercare la bellezza nel mondo.
Se siete lettori pazienti, a cui piace un certo lento autocompiacimento della scrittura e le divagazioni colte, non sarete delusi e perdonerete il fatto che quest’ultime alla storia non sempre servano. Quando la vicenda prenderà il ritmo, non avrete più modo di allontanarvi e nell’inseguire l’ascesa della portinaia fino ai piani alti, proverete voi stessi un’interiore soddisfazione.
C’è molto Oriente nel libro. Non è un caso se è il giapponese Ozu ad apprezzare e scoprire prima e meglio di tutti il tesoro nascosto in Renée. D’altronde il gusto per certi piaceri sublimi richiede un approccio che l’Occidente fatica a comprendere, ma nel momento in cui lo fa proprio, capisce che «la camelia sul muschio del tempio, il violetto dei monti di Kyoto, una tazza di porcellana blu, questo dischiudersi della bellezza pura nel cuore delle passioni effimere non è ciò a cui aspiriamo tutti?» (p. 94).

Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, Roma, e/o, 2007, pp. 326.


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Da regalare: alla signora della buona società che arriccia il naso quando guarda in basso


martedì 18 novembre 2008

Una lepre bianca


Una lepre bianca è innocenza e purezza. Ancor più se piccola, ferita, disposta ad affidarsi ciecamente ad un uomo incrociato per caso nel bosco. I due finiscono per divenire amici per la pelliccia, in una Finlandia per forza poetica tra abeti e neve. Per essere un romanzo che non va da nessuna parte (nel senso della trama), L’anno della lepre porta in un sacco di posti, da visitare con gusto. Quasi esilarante l’episodio del sacerdote che spara in chiesa per scacciare la lepre e finisce per ferire Cristo. Per non parlare dei militari che s’imbarcano in una incosciente caccia all’orso e finiscono in mutande (ben gli sta!). Ce ne sono molti di incontri surreali, eppure così veri, con un’umanità che si dibatte per essere sé stessa fino in fondo, nel bene e nel male.
Vatanen, il protagonista, scopre questa umanità (e un po’ anche la propria) ad ogni passo, e se ne bea, scordando con piacere la claustrofobica vita cittadina. Vi stimolerà una mite invidia per come lascia passare un incendio galleggiando nel torrente e bevendo grappa; per come, lavorando alacremente per un intero giorno, riesce a salvare la vacca che affonda nella palude. Alla fine torna il mai sopito dubbio: basterebbe ritirarsi in una vecchia baita nel bosco, con un’ascia e quattro capre tipo nonno di Heidi, per raggiungere una serenità invidiabile? Forse basterebbe, ad averci il coraggio.

Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Milano, Iperborea, 1994, pp. 208.

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Da regalare: al collega stressato dall’ufficio (col rischio se ne fugga in Scandinavia)

giovedì 13 novembre 2008

Saccenteria italica

Ecco i tre protagonisti del nostro gioco: 1. la signora Merli che ingoia per errore un’aspirina effervescente con l’effetto di concorrere al ruolo di controfigura di Linda Blair ne L’esorcista; 2. il ragioniere Belloni che, dopo essersi montato da solo un armadio, fissa attonito l’asta, le tre viti, le cinque manopole e l’anta inutilizzate nella scatola di montaggio; 3. nonna Ada che prepara la torta dosando gli ingredienti a memoria e così estrae dal forno una sorta di mattone refrattario a stento commestibile. Ora riflettete per bene sulle tre descrizioni e cercate di rispondere alle seguenti domande: cosa accomuna i tre personaggi? Quale è la caratteristica che permette di considerarli simili? C’è un’affinità fra i loro contrattempi?
Siccome lo scherzo è bello se dura poco, non vi tengo sulle spine e vengo subito al dunque. I tre sono accomunati dall’essere non-lettori, vittime della saccenteria italica che porta a pensare spesso e volentieri che è inutile comprare un manuale o leggere le istruzioni. Ci si affida all’improvvisazione, al “decidere mentre si fa”, al tentativo estroso non di rado disastroso. Se la signora Merli avesse letto il bugiardino, se il ragioniere Belloni avesse sfogliato le indicazioni per il montaggio, se nonna Ada si decidesse ad aprire quel benedetto ricettario... Cattiva educazione, genetica ribelle? Difficile stabilire l’origine, ma se vi guardate attorno un dato è certo: la saccenteria italica dilaga e il leggere per imparare non è proprio considerato. Sarà forse per questo che siamo spesso così approssimativi?

martedì 4 novembre 2008

Unire i puntini

Un bel po’ d’anni fa Giuseppe Prezzolini disse: «L’Italia è un paese fragile». Passato il tempo, guardandosi attorno, il pensiero oggi potrebbe essere: «L’Italia è un paese irrimediabilmente fragile», visto che vari lustri non hanno cambiato le cose (o le hanno addirittura peggiorate). La prima sensazione che balza addosso leggendo Il paziente italiano è proprio quella di un’esiziale fragilità di istituzioni e persone.
Scorrono nomi di persone che sanno guardare solo alla propria tasca e alla propria seggiola, che mancano di etica, responsabilità, lungimiranza, rispetto per i loro figli. Qual è la morale? Siamo un popolo che non può fare a meno di barare? A cui la vittoria basta, al di là di come la si raggiunge? Un popolo da un lato di furbi e dall’altro di illusi che perseverano nel farsi prendere per i fondelli dai furbi? L’emblematica Calciopoli pare rappresentare e raccontare esattamente ciò.
Ho sentito dire a Oliviero Beha che si è spesso salvato dalle querele passando per un giornalista satirico. Buon per lui, ma certo la dose di pessimismo che esala dalle pagine mi rende dubbioso: tanta amarezza si fa fatica a pensarla satirica. Eppure non saprei come dargli torto. Da giornalista (vero) sa raccogliere e combinare le notizie, e farci capire che basterebbe unire i puntini, sennonché l’informazione odierna, colpevolmente, i puntini non li fa vedere. Hai voglia a cercare di unirli...
Il libro è una raccolta di articoli sparsi (2006-2008), direi anche troppo ricca; una maggior selezione a monte avrebbe evitato certe inutili ridondanze. Inoltre verrà presto a mancare la cornice in cui collocare i commenti: la memoria è labile e già ora certi riferimenti cadono nel vuoto. D’altronde Beha affastella densamente le sue ipotesi, domande, allusioni; la ricchezza di un pensiero attento e rapido può far perdere il nord ad un lettore appena distratto, ancor più se non dotato di una memoria ferrea. I giornali sono una cosa, i libri un’altra, e pescando dai primi si dovrebbe valutare bene come travasare nei secondi. Più che una lettura estesa, può funzionare un cogliere di fiore in fiore (meritoria in tal senso la decisione di aggiungere un indice dei nomi). Così da apprezzare l’arguzia di Beha, troppo pungente e sincera per trovare oggi posto nei maggiori mezzi di comunicazione.


Oliviero Beha, Il paziente italiano. Da Berlusconi al berlusconismo passando per noi, Roma, Avagliano, 2008, pp. 336.

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Da regalare: a chi andava (va?) allo stadio credendo di vedere delle partite vere

domenica 26 ottobre 2008

Penne nere

Se vi va di andare all’inferno, questa è una delle strade, e Alcide, il nostro Virgilio, lo dichiara apertamente, chiamando in causa fin dall’epigrafe il sempiterno Dante (ma dal Purgatorio: c’è ancora una speranza?). Va da sé che dovete contare su uno stomaco ben corazzato, pronto a digerire una discreta galleria di abiezioni umane, raccontate con un distacco snob che le rende se possibile ancora più abiette. La penna è buona senz’altro, elegante, ricercata quando serve, diretta ma non banale. L’atmosfera ambigua nei temi e nella trama ha poi un suo indiscusso fascino e prende e trascina anche oltre il ribrezzo o il puro schifo che Pierantozzi vuole stuzzicare (e un po’ ci gode). Ma fin qui tutto bene, almeno fino a metà romanzo, quando il castello crolla, letterariamente e, lasciatemelo dire, moralmente. Dal punto di vista letterario penso alla lunga noiosa parentesi pseudo-filosofica sotto forma di dialogo, in cui viene riversato un po’ di tutto senza gran giovamento per la storia: il terribile tranello di chi studia filosofia e prima o poi finisce per scriverne. Dal punto di vista della morale: il mondo è pieno di storie nere più del buco del culo di Satana, ma ciò non autorizza a portarle dentro un libro presentandole come un fatto naturale, una normale concatenazione di gesti e parole, senza il filtro di un senso (sbagliato, paradossale, orribile, ma pur sempre un senso). Uccidere e far soffrire, passandoci sopra come se nulla fosse, è un gioco pericoloso anche per la letteratura; crea un cortocircuito fra logico e illogico che un bravo scrittore dovrebbe imparare ad evitare. Probabilmente questo era semplicemente il romanzo che Pierantozzi doveva scrivere (ed è un problema suo), e che qualcuno forse avrebbe dovuto leggere con più attenzione prima di darlo in pasto ai lettori (ed è un problema nostro). E poi dicono che gli editori non servono più...

Alcide Pierantozzi, Uno in diviso, Matelica, Hacca, 2006, pp. 176.


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Da regalare: a chi è così fuori fase da apprezzare il male insensato.

venerdì 24 ottobre 2008

Fagioli sotto vuoto

Se mi presentassi ad un convegno di Finmeccanica, ci penserei due volte prima di suggerire agli astanti un modo migliore per ingrassare i bulloni. Di diverso avviso dev’essere Giorgia Meloni (ministro della gioventù) che, agli ultimi Stati Generali dell’Editoria, è intervenuta dando illuminanti consigli. Ne ho raccolto in particolare uno, che sarebbe davvero triste fosse sprecato. Il disquisire verteva sulle modalità con cui aumentare la diffusione della lettura fra i giovani. Bene, diceva la Meloni, perché gli editori non recuperano le opere fuori diritti e fanno delle edizioni economiche che sicuramente a quel punto i giovani si fionderanno a comprare a valanga? Già, perché? In platea – le ho viste io stesso – diverse mascelle hanno toccato terra. Lasciamo stare che molti editori già lo fanno (si invita la Meloni a fare un giro in una qualsiasi edicola); ma siamo sicuri che per avvicinare alla lettura chi mediamente legge poco o nulla, la soluzione migliore sia propinare libri scritti all’incirca cent’anni fa? Ve le immaginate le torme di adolescenti correre ad accaparrarsi il libro Cuore di De Amicis, finalmente disponibile a soli 4 euro?
Quel che io penso, è che si impara a leggere come si impara a mangiare: iniziando dai piatti più semplici e vicini. In seguito forse il palato chiederà e saprà apprezzare qualcosa di diverso e più sofisticato. L'idea di rimpinguare le casse degli editori e far salire il numero dei lettori fra i giovani servendosi di libri lontani dal loro mondo, benché spesso in sé splendidi, mi suona peregrina. Volendo stare nella metafora, la proposta di Giorgia Meloni equivale a pretendere di combinare un affare proponendo ai neonati un omogeneizzato di fagioli con le cotiche.

mercoledì 15 ottobre 2008

Essiccazione

Alcune persone con abitudini considerate socialmente disdicevoli – come possono essere l’arrivare sempre in ritardo o ritrovarsi ogni sera ubriachi persi – assumono spesso un atteggiamento di sufficienza verso il resto del mondo, quello “bravo” che non beve e rispetta gli appuntamenti al minuto. Si fanno una bandiera della loro diversità, sotto sotto se ne vantano e deridono gli altri che vogliono per forza farli sentire sbagliati. Così fa Augusten, assediato da una sbronza quasi perenne nonostante il ben pagato lavoro in una grossa agenzia pubblicitaria newyorchese. Finché i superiori non lo mettono alle strette e lo costringono a scegliere: o si sbarazza della bottiglia e dell’aria di superiorità, o saranno costretti a sbatterlo fuori. A quel punto Augusten deve affrontare la realtà della sua subdola dipendenza ed entrare in un istituto per disintossicarsi.
È un piacere ritrovare la prosa ironica e godibile di Burroughs, dopo il bel successo di Correndo con le forbici in mano. Si passa da una pagina all’altra fermandosi solo un momento su frasi del tipo: «Pensa alla tua testa come a un quartiere poco sicuro; non ti ci avventurare mai da solo» (p. 169). Si ride a trovarlo in piena notte, ovviamente in preda all’alcool, poche ore prima di un importante appuntamento, mentre fissa l’orologio che fa le 4.15 e si chiede perché sia regolato sull’ora dell’Europa anziché su quella di Manhattan.
Alla fine però questo Dry si classifica qualche gradino sotto rispetto al romanzo precedente. Se non altro perché non ha un vero sviluppo: è la storia di un uomo che – passando attraverso vari rapporti amorosi o semplicemente (omo)sessuali – decide di smettere di bere e, più o meno, ci riesce. A tratti assume il tono di quei manuali esistenziali che dovrebbero farti diventare un’aquila o farti crescere il pollice verde; o di un vademecum per alcolisti anonimi. Insomma una vicenda un po’ leggera, nonostante alcuni eventi umanamente forti, per reggere quasi trecento pagine.
D’altronde l’autobiografia è sempre un rischio: a parlare troppo di sé si rimane da soli ad ascoltarsi. Ed è un peccato perché la penna è ottima, ma se la storia dell’infanzia era una pazzesca e disastrosa sarabanda (appunto Correndo con le forbici in mano), altrettanto non si può dire della vicenda di Dry, reale quanto si vuole, ma poco narrativa e quasi inconclusa. Allora un solo invito: Augusten, raccontaci un’altra storia!

Augusten Burroughs, Dry, Padova, Alet, 2005, pp. 304.

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Da regalare: ad un romantico omosessuale in cerca dell’anima gemella.

lunedì 6 ottobre 2008

Scrittori in passerella

Elisabetta Rasy interviene sul Domenicale del Sole24Ore (20 luglio 2008) lamentandosi della sconclusionata invadenza delle domande che, in qualità di scrittrice, si trova a dover subire alle presentazione dei suoi libri. I lettori, sciocchi impiccioni, chiedono il suo parere su tutto, anche su «questioni che non sono di sua competenza». L’affermazione mi disorienta, perché ingenuamente immagino lo scrittore pronto a lasciarsi coinvolgere in ogni discussione, con una curiosità che non conosce limiti di competenze. Evidentemente mi sbaglio, e tuttavia penso a quei lettori che sono usciti di casa, lasciato i bimbi alla baby-sitter, cercato parcheggio, ecc., giunti finalmente alla presentazione non hanno forse diritto di chiedere alla scrittrice come prepara il ragù? Sta a lei poi trasformare il ragù in letteratura.
Elisabetta Rasy pare avere molti timori, fra i quali quello di diventare la protagonista di un reality show, cioè di essere confusa con uno dei partecipanti al “Grande Fratello”. Per questo mi sento di rassicurarla: le basterà dimostrare di aver qualcosa da dire per ristabilire la differenza. Aggiungo che non credo affatto la letteratura sia l’esatto contrario del reality show, anzi. In entrambi si trovano storie finte costruite, più o meno bene, in modo che al lettore/spettatore sembrino vere. L’unica distinzione sta nel luogo dell’autore: stampato in copertina o nascosto negli uffici di produzione.
Se per gli scrittori le presentazioni librarie sono oggi davvero dei momenti di gran sofferenza, non mi pare comunque carino dare la colpa ai lettori. Mi vedo lo scrittore apostrofare il suo pubblico: “Perché mi fai domande futili e superficiali? Perché non mi chiedi come lavoro? Perché non leggiamo dal mio libro anziché parlare a vanvera?”, e il pubblico risponde: “Che ne so, lo scrittore sei tu, inventa qualcosa!”. Magari è solo il segno che è giunto il tempo di inventare modi nuovi di presentare i libri.

Il manichino disarticolato

Giudico leggermente sleali i film o i libri che sfoggiano la fatidica frase, tratto da una storia vera. Mi suona molto come giustificazione preventiva, quasi che lo sceneggiatore o lo scrittore si premurassero di far sapere che lungaggini e incongruenze dovranno essere attribuite non a loro, ma alla storia, perché, ahinoi, è proprio così che andò. Non sono caduti in questa comprensibile debolezza i nostri Trento e Amadei, nonostante che ne avrebbero avuto ben donde, soprattutto il secondo, capitato quasi per caso a Nassiriya nel giorno peggiore in cui esserci. La sorpresa è proprio quella, di raccontare una tragedia vera come se fosse puro frutto di fantasia, di mettere sulla carta il dolore consolandosi con un amaro sorriso. La storia è dunque vera nella sua sostanza, ma è stata lasciata libera di svilupparsi romanzescamente. Senz’altro molto del merito va a Francesco Trento che, nel ruolo di novello Rustichello da Pisa, ha fatto sue le memorie di Aureliano Amadei, dando ad esse una forma nuova e inconsueta. D’altro canto, mi viene da pensare, un’esperienza così si fa fatica a raccontarla da soli.
È un libro che non ti aspetti, che scuote per quelle frasi che sono già schegge di granata, collegamenti neuronali rapidi e frammentari persino quando descrivono la casetta di legno della nonna in campagna. Nel gioco dei flashback la storia va avanti e indietro, con un montaggio incalzante che lascia poco fiato, giusto quanto serve per un’inattesa risata. C’è infatti ironia, distillata nelle pagine, assieme all’innocenza inesperta di Aureliano, manichino disarticolato fra le sabbie dell’Iraq. Eppure, anche mentre si ride, un nodo stringe lo stomaco ed è un nodo «che non scioglierebbe neppure Houdini».
La prima parte del libro, il vagare del corpo martoriato da una barella improvvisata all’altra, si scola in un solo sorso. Poi la scena cambia, dal deserto si giunge all’ospedale militare del Celio, all’Italia, alla vita civile. E lì, mentre la storia si acquieta e si fa riflessiva, scopriamo che in Italia di civile c’è ben poco. Con quante fesserie ci hanno imbonito? Quante balle ci hanno propinato? Gli occhi di Aureliano lacrimano, ma non è rossore, non è sofferenza, è rabbia; rabbia perché quegli occhi erano laggiù e hanno visto e – vacilli chi mente sapendo di mentire – sono tornati indietro per raccontare quanto hanno visto.
Naturalmente le parole di un aiuto regista non contano nulla, in rapporto a quelle di un alto graduato invitato al salotto di Vespa; poco importa che quest’ultimo fosse sprofondato in poltrona mentre il primo roteava nell’aria sollevato dallo spostamento d’aria dell’esplosione. A noi rimane la consolazione di un libro dove rintracciarle, nella speranza (vana?) di abitare un giorno in un paese più vero e civile.

Francesco Trento – Aureliano Amadei, Venti sigarette a Nassirya, Torino, Einaudi, 2005.

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Da regalare: a chi andrebbe in mimetica anche a messa.



domenica 21 settembre 2008

ilVoltaPagine: una presentazione

Benvenuti al VoltaPagine, il blog per lettori esigenti che apre oggi ufficialmente la sua attività.
Qui troverete recensioni di libri e commenti sul mondo della lettura.
Ecco di seguito il decalogo del VoltaPagine, che vi permetterà di comprendere al meglio la filosofia del blog.

Il decalogo del VoltaPagine

1. crede nella lettura come attività che rende più piacevole l’esistenza.
2. si diverte a commentare quanto legge.
3. parla poco delle trame, non rivela l’assassino, non svela il finale.
4. esprime il proprio parere in piena libertà, non temendo l'elogio né la stroncatura.
5. si affida al gusto personale e allo spirito critico.
6. si dedica principalmente alla narrativa, ma non disdegna i saggi divulgativi.
7. non ha preclusioni in materia di genere, stile o contenuto.
8. accetta proposte dirette di amici, autori o editori.
9. non legge libri autoprodotti né manoscritti inediti.
10. saltuariamente pubblica post dedicati agli scrittori e alla lettura.

Buona lettura a tutti.