domenica 26 ottobre 2008

Penne nere

Se vi va di andare all’inferno, questa è una delle strade, e Alcide, il nostro Virgilio, lo dichiara apertamente, chiamando in causa fin dall’epigrafe il sempiterno Dante (ma dal Purgatorio: c’è ancora una speranza?). Va da sé che dovete contare su uno stomaco ben corazzato, pronto a digerire una discreta galleria di abiezioni umane, raccontate con un distacco snob che le rende se possibile ancora più abiette. La penna è buona senz’altro, elegante, ricercata quando serve, diretta ma non banale. L’atmosfera ambigua nei temi e nella trama ha poi un suo indiscusso fascino e prende e trascina anche oltre il ribrezzo o il puro schifo che Pierantozzi vuole stuzzicare (e un po’ ci gode). Ma fin qui tutto bene, almeno fino a metà romanzo, quando il castello crolla, letterariamente e, lasciatemelo dire, moralmente. Dal punto di vista letterario penso alla lunga noiosa parentesi pseudo-filosofica sotto forma di dialogo, in cui viene riversato un po’ di tutto senza gran giovamento per la storia: il terribile tranello di chi studia filosofia e prima o poi finisce per scriverne. Dal punto di vista della morale: il mondo è pieno di storie nere più del buco del culo di Satana, ma ciò non autorizza a portarle dentro un libro presentandole come un fatto naturale, una normale concatenazione di gesti e parole, senza il filtro di un senso (sbagliato, paradossale, orribile, ma pur sempre un senso). Uccidere e far soffrire, passandoci sopra come se nulla fosse, è un gioco pericoloso anche per la letteratura; crea un cortocircuito fra logico e illogico che un bravo scrittore dovrebbe imparare ad evitare. Probabilmente questo era semplicemente il romanzo che Pierantozzi doveva scrivere (ed è un problema suo), e che qualcuno forse avrebbe dovuto leggere con più attenzione prima di darlo in pasto ai lettori (ed è un problema nostro). E poi dicono che gli editori non servono più...

Alcide Pierantozzi, Uno in diviso, Matelica, Hacca, 2006, pp. 176.


Le mie chiocciole: @

Da regalare: a chi è così fuori fase da apprezzare il male insensato.

venerdì 24 ottobre 2008

Fagioli sotto vuoto

Se mi presentassi ad un convegno di Finmeccanica, ci penserei due volte prima di suggerire agli astanti un modo migliore per ingrassare i bulloni. Di diverso avviso dev’essere Giorgia Meloni (ministro della gioventù) che, agli ultimi Stati Generali dell’Editoria, è intervenuta dando illuminanti consigli. Ne ho raccolto in particolare uno, che sarebbe davvero triste fosse sprecato. Il disquisire verteva sulle modalità con cui aumentare la diffusione della lettura fra i giovani. Bene, diceva la Meloni, perché gli editori non recuperano le opere fuori diritti e fanno delle edizioni economiche che sicuramente a quel punto i giovani si fionderanno a comprare a valanga? Già, perché? In platea – le ho viste io stesso – diverse mascelle hanno toccato terra. Lasciamo stare che molti editori già lo fanno (si invita la Meloni a fare un giro in una qualsiasi edicola); ma siamo sicuri che per avvicinare alla lettura chi mediamente legge poco o nulla, la soluzione migliore sia propinare libri scritti all’incirca cent’anni fa? Ve le immaginate le torme di adolescenti correre ad accaparrarsi il libro Cuore di De Amicis, finalmente disponibile a soli 4 euro?
Quel che io penso, è che si impara a leggere come si impara a mangiare: iniziando dai piatti più semplici e vicini. In seguito forse il palato chiederà e saprà apprezzare qualcosa di diverso e più sofisticato. L'idea di rimpinguare le casse degli editori e far salire il numero dei lettori fra i giovani servendosi di libri lontani dal loro mondo, benché spesso in sé splendidi, mi suona peregrina. Volendo stare nella metafora, la proposta di Giorgia Meloni equivale a pretendere di combinare un affare proponendo ai neonati un omogeneizzato di fagioli con le cotiche.

mercoledì 15 ottobre 2008

Essiccazione

Alcune persone con abitudini considerate socialmente disdicevoli – come possono essere l’arrivare sempre in ritardo o ritrovarsi ogni sera ubriachi persi – assumono spesso un atteggiamento di sufficienza verso il resto del mondo, quello “bravo” che non beve e rispetta gli appuntamenti al minuto. Si fanno una bandiera della loro diversità, sotto sotto se ne vantano e deridono gli altri che vogliono per forza farli sentire sbagliati. Così fa Augusten, assediato da una sbronza quasi perenne nonostante il ben pagato lavoro in una grossa agenzia pubblicitaria newyorchese. Finché i superiori non lo mettono alle strette e lo costringono a scegliere: o si sbarazza della bottiglia e dell’aria di superiorità, o saranno costretti a sbatterlo fuori. A quel punto Augusten deve affrontare la realtà della sua subdola dipendenza ed entrare in un istituto per disintossicarsi.
È un piacere ritrovare la prosa ironica e godibile di Burroughs, dopo il bel successo di Correndo con le forbici in mano. Si passa da una pagina all’altra fermandosi solo un momento su frasi del tipo: «Pensa alla tua testa come a un quartiere poco sicuro; non ti ci avventurare mai da solo» (p. 169). Si ride a trovarlo in piena notte, ovviamente in preda all’alcool, poche ore prima di un importante appuntamento, mentre fissa l’orologio che fa le 4.15 e si chiede perché sia regolato sull’ora dell’Europa anziché su quella di Manhattan.
Alla fine però questo Dry si classifica qualche gradino sotto rispetto al romanzo precedente. Se non altro perché non ha un vero sviluppo: è la storia di un uomo che – passando attraverso vari rapporti amorosi o semplicemente (omo)sessuali – decide di smettere di bere e, più o meno, ci riesce. A tratti assume il tono di quei manuali esistenziali che dovrebbero farti diventare un’aquila o farti crescere il pollice verde; o di un vademecum per alcolisti anonimi. Insomma una vicenda un po’ leggera, nonostante alcuni eventi umanamente forti, per reggere quasi trecento pagine.
D’altronde l’autobiografia è sempre un rischio: a parlare troppo di sé si rimane da soli ad ascoltarsi. Ed è un peccato perché la penna è ottima, ma se la storia dell’infanzia era una pazzesca e disastrosa sarabanda (appunto Correndo con le forbici in mano), altrettanto non si può dire della vicenda di Dry, reale quanto si vuole, ma poco narrativa e quasi inconclusa. Allora un solo invito: Augusten, raccontaci un’altra storia!

Augusten Burroughs, Dry, Padova, Alet, 2005, pp. 304.

Le mie chiocciole: @@@
Da regalare: ad un romantico omosessuale in cerca dell’anima gemella.

lunedì 6 ottobre 2008

Scrittori in passerella

Elisabetta Rasy interviene sul Domenicale del Sole24Ore (20 luglio 2008) lamentandosi della sconclusionata invadenza delle domande che, in qualità di scrittrice, si trova a dover subire alle presentazione dei suoi libri. I lettori, sciocchi impiccioni, chiedono il suo parere su tutto, anche su «questioni che non sono di sua competenza». L’affermazione mi disorienta, perché ingenuamente immagino lo scrittore pronto a lasciarsi coinvolgere in ogni discussione, con una curiosità che non conosce limiti di competenze. Evidentemente mi sbaglio, e tuttavia penso a quei lettori che sono usciti di casa, lasciato i bimbi alla baby-sitter, cercato parcheggio, ecc., giunti finalmente alla presentazione non hanno forse diritto di chiedere alla scrittrice come prepara il ragù? Sta a lei poi trasformare il ragù in letteratura.
Elisabetta Rasy pare avere molti timori, fra i quali quello di diventare la protagonista di un reality show, cioè di essere confusa con uno dei partecipanti al “Grande Fratello”. Per questo mi sento di rassicurarla: le basterà dimostrare di aver qualcosa da dire per ristabilire la differenza. Aggiungo che non credo affatto la letteratura sia l’esatto contrario del reality show, anzi. In entrambi si trovano storie finte costruite, più o meno bene, in modo che al lettore/spettatore sembrino vere. L’unica distinzione sta nel luogo dell’autore: stampato in copertina o nascosto negli uffici di produzione.
Se per gli scrittori le presentazioni librarie sono oggi davvero dei momenti di gran sofferenza, non mi pare comunque carino dare la colpa ai lettori. Mi vedo lo scrittore apostrofare il suo pubblico: “Perché mi fai domande futili e superficiali? Perché non mi chiedi come lavoro? Perché non leggiamo dal mio libro anziché parlare a vanvera?”, e il pubblico risponde: “Che ne so, lo scrittore sei tu, inventa qualcosa!”. Magari è solo il segno che è giunto il tempo di inventare modi nuovi di presentare i libri.

Il manichino disarticolato

Giudico leggermente sleali i film o i libri che sfoggiano la fatidica frase, tratto da una storia vera. Mi suona molto come giustificazione preventiva, quasi che lo sceneggiatore o lo scrittore si premurassero di far sapere che lungaggini e incongruenze dovranno essere attribuite non a loro, ma alla storia, perché, ahinoi, è proprio così che andò. Non sono caduti in questa comprensibile debolezza i nostri Trento e Amadei, nonostante che ne avrebbero avuto ben donde, soprattutto il secondo, capitato quasi per caso a Nassiriya nel giorno peggiore in cui esserci. La sorpresa è proprio quella, di raccontare una tragedia vera come se fosse puro frutto di fantasia, di mettere sulla carta il dolore consolandosi con un amaro sorriso. La storia è dunque vera nella sua sostanza, ma è stata lasciata libera di svilupparsi romanzescamente. Senz’altro molto del merito va a Francesco Trento che, nel ruolo di novello Rustichello da Pisa, ha fatto sue le memorie di Aureliano Amadei, dando ad esse una forma nuova e inconsueta. D’altro canto, mi viene da pensare, un’esperienza così si fa fatica a raccontarla da soli.
È un libro che non ti aspetti, che scuote per quelle frasi che sono già schegge di granata, collegamenti neuronali rapidi e frammentari persino quando descrivono la casetta di legno della nonna in campagna. Nel gioco dei flashback la storia va avanti e indietro, con un montaggio incalzante che lascia poco fiato, giusto quanto serve per un’inattesa risata. C’è infatti ironia, distillata nelle pagine, assieme all’innocenza inesperta di Aureliano, manichino disarticolato fra le sabbie dell’Iraq. Eppure, anche mentre si ride, un nodo stringe lo stomaco ed è un nodo «che non scioglierebbe neppure Houdini».
La prima parte del libro, il vagare del corpo martoriato da una barella improvvisata all’altra, si scola in un solo sorso. Poi la scena cambia, dal deserto si giunge all’ospedale militare del Celio, all’Italia, alla vita civile. E lì, mentre la storia si acquieta e si fa riflessiva, scopriamo che in Italia di civile c’è ben poco. Con quante fesserie ci hanno imbonito? Quante balle ci hanno propinato? Gli occhi di Aureliano lacrimano, ma non è rossore, non è sofferenza, è rabbia; rabbia perché quegli occhi erano laggiù e hanno visto e – vacilli chi mente sapendo di mentire – sono tornati indietro per raccontare quanto hanno visto.
Naturalmente le parole di un aiuto regista non contano nulla, in rapporto a quelle di un alto graduato invitato al salotto di Vespa; poco importa che quest’ultimo fosse sprofondato in poltrona mentre il primo roteava nell’aria sollevato dallo spostamento d’aria dell’esplosione. A noi rimane la consolazione di un libro dove rintracciarle, nella speranza (vana?) di abitare un giorno in un paese più vero e civile.

Francesco Trento – Aureliano Amadei, Venti sigarette a Nassirya, Torino, Einaudi, 2005.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a chi andrebbe in mimetica anche a messa.