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giovedì 9 settembre 2010

Nassiriya, Mantova, Pordenone e l'Unità d'Italia

Se guardate il manifesto fate fatica a riconoscerlo: due giovani distesi fra lenzuola rosse, una finta finestra sul deserto, e il titolo, 20 sigarette. Eppure il film che poche ore fa, a sorpresa, ha vinto la sezione "Controcampo" al Festival del Cinema di Venezia, è tratto proprio dal romanzo di Francesco Trento e Aureliano Amadei (colpevolmente non ricordato nel suddetto manifesto) che vi segnalammo nel 2008 fra le nostre migliori letture. Nonostante siano state ridotte la dose di tagliente sarcasmo e le parti di denuncia che davano spessore al libro, il film si difende bene puntando tutto sulle tragiche e umanissime vicende dei personaggi, su tanti piccoli cerchi da richiudere. Denunce e strumentalizzazioni rimangono sullo sfondo, ma probabilmente non poteva essere altrimenti; si può ad ogni modo tornare a leggere il romanzo e provare a stanare chi ancora seguita a cercare degli 'eroi'.
E' in corso a Mantova il Festival della Letteratura e all'interno del programma, sempre molto denso, ci sembra giusto segnalare la retrospettiva dedicata ad Amos Oz, sia perché l'autore israeliano è stato da noi spesso chiamato in causa, sia perché è da poco uscito in italiano il suo nuovo libro, Scene dalla vita di un villaggio. Consiglio poi di spostarsi verso est, per non perdere la simpatica pecora di Pordenonelegge, che come ogni anno si propone di "coniugare la leggerezza sui temi chiacchierati con la profondità nei discorsi seri, la provocazione con l’accademia".
Una segnalazione infine per chi, oltre a leggere, si cimenta pure con la scrittura. 66thand2nd ha bandito il concorso letterario In attesa dell'Unità d'Italia che curiosamente combina storia, politica e sport, offrendo al vincitore la pubblicazione nella collana 'Attese' di questo giovane e interessante editore. Qui trovate il bando completo.

mercoledì 12 maggio 2010

In cerca d'eroi

Trovo sia davvero un cattivo segnale quando la comunicazione – specialmente a “grande diffusione”, come quella televisiva – si realizza in maniera sciatta e chi se ne fa portavoce dimostra scarsa attenzione verso le parole. Sono le cose di poco valore che si usano con leggerezza, senza riguardo, come cose appunto di cui non far conto; ma non c’è più grave errore, per chi ha il compito professionale di comunicare, di scordare le conseguenze inattese e pericolose che possono derivare da un uso impreciso delle parole. C’è un caso, fra i tanti, su cui mi ero soffermato in passato, lasciando poi perdere per rispetto del dolore. Ora, per altre vie, la parola è tornata a galla e ricorre nei titoli dei giornali, imprecisa com’era sette anni fa, e mi induce a riprendere il discorso.
Se cercate notizie su quanto accadde a Nassiriya, scoprirete come sia inevitabile incappare nell’aggettivo ‘eroi’. Gli italiani che disgraziatamente si trovavano nei pressi della base “Maestrale” il 12 novembre 2003 e morirono a causa dell’attentato suicida, sono spesso definiti eroi. L’attribuzione è divenuta spontanea al punto che molte delle lapidi commemorative sparse per la penisola riportano espressamente il termine. Ma cos’è che ha trasformato in eroi quegli uomini? Perché nel sentire comune si è diffusa la convinzione che è in tal modo che essi debbono essere ricordati?
Domenica scorsa, nella diretta delle 19 del suo tg, Emilio Fede ha esternato un’insofferenza verso l’attenzione, a suo dire eccessiva, che media e pubblico tributano a Roberto Saviano. «Non se ne può più di sentire che lui è l’eroe» ha tuonato Fede. Per un attimo ho avuto un mancamento: ero d’accordo con Emilio Fede. Perché mi sembrava di nuovo d’avere a che fare con un uso impreciso della parola.
È stato allora che ho ripensato a Nassiriya, e sono arrivato ad interrogarmi su chi sia veramente un eroe. Se parto dal dizionario (Sabatini-Coletti), mi trovo di fronte la seguente definizione: «chi dà prova di grande coraggio militare o civile; fare l’eroe: accettare sacrifici o andare incontro a pericoli senza necessità». La prima impressione è che l’aggettivo non si adatti perfettamente a nessuno dei due casi. Senza necessità, questa è la specificazione fondamentale, qui sta la chiave del discorso. Non sarebbe però bello dilungarsi in disquisizioni lessicali quando in gioco è la pelle degli altri; discutere dove sta il limite fra un lavoro pericoloso e l’eroismo; valutare se certe scelte di vita automaticamente sollevino più in alto una persona rispetto alla gente comune; eccetera. Rimango sulla parola, per capire se è possibile usarla meglio.
Il senso profondo, a mio avviso, dell'eroe sta nell’atto di chi volontariamente si sacrifica; di chi ha coscienza sia del sacrificio (“sto compiendo un atto che potrebbe costarmi caro”) sia del motivo del suo sacrificio (“lo faccio comunque per salvare qualcuno o qualcosa”). Nessuno pianifica di diventare un eroe; si possono invece fare delle scelte coraggiose che a volte portano ad un bivio decisivo: ed è lì che si prende la decisione se proseguire fino all’estremo. A Nassiriya non c’è stato tempo per prendere decisioni, quel camion cisterna è piombato sulla base come un bus che inforca una fermata, come una svolta improvvisa del destino. La mafia costringe il nostro paese a continue scelte, piccole e grandi, ma sono sicuro che Roberto Saviano, in virtù delle sue di scelte, non ha mai chiesto d’essere considerato un eroe. E davvero gli auguro di non diventarlo mai. Né per lui, né per noi, perché è sventurata la terra che ha bisogno di eroi, o almeno così diceva Brecht.


lunedì 6 ottobre 2008

Il manichino disarticolato

Giudico leggermente sleali i film o i libri che sfoggiano la fatidica frase, tratto da una storia vera. Mi suona molto come giustificazione preventiva, quasi che lo sceneggiatore o lo scrittore si premurassero di far sapere che lungaggini e incongruenze dovranno essere attribuite non a loro, ma alla storia, perché, ahinoi, è proprio così che andò. Non sono caduti in questa comprensibile debolezza i nostri Trento e Amadei, nonostante che ne avrebbero avuto ben donde, soprattutto il secondo, capitato quasi per caso a Nassiriya nel giorno peggiore in cui esserci. La sorpresa è proprio quella, di raccontare una tragedia vera come se fosse puro frutto di fantasia, di mettere sulla carta il dolore consolandosi con un amaro sorriso. La storia è dunque vera nella sua sostanza, ma è stata lasciata libera di svilupparsi romanzescamente. Senz’altro molto del merito va a Francesco Trento che, nel ruolo di novello Rustichello da Pisa, ha fatto sue le memorie di Aureliano Amadei, dando ad esse una forma nuova e inconsueta. D’altro canto, mi viene da pensare, un’esperienza così si fa fatica a raccontarla da soli.
È un libro che non ti aspetti, che scuote per quelle frasi che sono già schegge di granata, collegamenti neuronali rapidi e frammentari persino quando descrivono la casetta di legno della nonna in campagna. Nel gioco dei flashback la storia va avanti e indietro, con un montaggio incalzante che lascia poco fiato, giusto quanto serve per un’inattesa risata. C’è infatti ironia, distillata nelle pagine, assieme all’innocenza inesperta di Aureliano, manichino disarticolato fra le sabbie dell’Iraq. Eppure, anche mentre si ride, un nodo stringe lo stomaco ed è un nodo «che non scioglierebbe neppure Houdini».
La prima parte del libro, il vagare del corpo martoriato da una barella improvvisata all’altra, si scola in un solo sorso. Poi la scena cambia, dal deserto si giunge all’ospedale militare del Celio, all’Italia, alla vita civile. E lì, mentre la storia si acquieta e si fa riflessiva, scopriamo che in Italia di civile c’è ben poco. Con quante fesserie ci hanno imbonito? Quante balle ci hanno propinato? Gli occhi di Aureliano lacrimano, ma non è rossore, non è sofferenza, è rabbia; rabbia perché quegli occhi erano laggiù e hanno visto e – vacilli chi mente sapendo di mentire – sono tornati indietro per raccontare quanto hanno visto.
Naturalmente le parole di un aiuto regista non contano nulla, in rapporto a quelle di un alto graduato invitato al salotto di Vespa; poco importa che quest’ultimo fosse sprofondato in poltrona mentre il primo roteava nell’aria sollevato dallo spostamento d’aria dell’esplosione. A noi rimane la consolazione di un libro dove rintracciarle, nella speranza (vana?) di abitare un giorno in un paese più vero e civile.

Francesco Trento – Aureliano Amadei, Venti sigarette a Nassirya, Torino, Einaudi, 2005.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a chi andrebbe in mimetica anche a messa.