giovedì 22 ottobre 2009

Perduti nell'indefinito

Il ristorante cinese è un luogo ambiguo. Si teme sempre di finire per ingoiare qualcosa di disgustoso o di esiziale per lo stomaco, però nel contempo il mistero agrodolce attrae, il sapore diverso non può che intrigare ed è quasi divertente pensare si tratti di una prova di coraggio sedersi su quel rosso laccato e aspettare di mangiare qualsiasi cosa improvvisamente navighi nel piatto. A leggere Dolce miele, decomposta, si scopre che il legame con quel luogo può diventare ossessione al punto di non distinguere più l’intossicazione dall’amore, e viceversa. L’unica via è lasciarsi sopraffare. Come accadrà al poliziotto all’altro capo del libro, impantanato in una situazione scomoda, combattuto fra dovere e piacere, immobile di fronte ad una finestra aperta sulla palude nella quale anche lui, prima o poi, affonderà.
Due piccoli gialli – in tutto “20 minuti” di lettura – dallo stile inquieto: scene montate con rapidi fotogrammi e con frasi smozzicate, una trama che si compone per progressivo affastellamento, con evidenti sbirciate al grande schermo. Storie lampo che vanno in dissolvenza verso un ricordo lontano e verso il mondo degli spiriti, a stemperare le crudezze di efferati assassini. Due uomini finiranno vittime degli incantamenti, perché incapaci di cogliere il confine fra reale e irreale. Due donne li condurranno oltre, in virtù della naturale e femminile attitudine per le sfumature. Anche Paola Ducci la possiede e lo si capisce da come lascia sospese le storie, fa sussurrare i finali, perché in fondo poco conta quello che accade, conta piuttosto come accade.

Paola Ducci, Il crudele si vende bene, Roma, Il caso e il vento, 2008.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi trova indigesti gli involtini primavera

giovedì 15 ottobre 2009

La carta buona

Gli alberi sono le vedette silenziose della natura. Considerando il ruolo fondamentale da loro giocato nello smaltimento dell’anidride carbonica, e di conseguenza nell’arginare l’effetto serra, essi rappresentano il monito più efficace contro le ingiurie che seguitiamo a infliggere alla nostra povera Terra. Capita perciò, di tanto in tanto, al lettore esigente, di sentirsi terribilmente in colpa. Perché il lettore esigente è un feticista, un personaggio che con i libri ha un rapporto fisico, ama certe ruvidezze, certe plastificazioni; carezza gli spigoli, fa frusciare le pagine, annusa gli anfratti di colla e di carta. Ecco, la carta soprattutto. Il lettore esigente è ammaliato dal tocco della carta, non saprebbero farne a meno, ne vuole sempre di più. Ma per fare la carta ci vuole un albero, e tanti libri significano tante foreste abbattute.
Oggi, nel giorno che i blogger di tutto il mondo dedicano alla discussione sui cambiamenti climatici (www.blogactionday.org), forse allora dovrei starmene zitto e limitarmi ad un sommesso mea culpa. Fortunatamente gli attuali processi di produzione della cellulosa muovono da premesse nuove, e molte cartiere hanno fatto proprie le esigenze ecologiche e il rispetto dell’ambiente. L’applicazione di procedure "virtuose" nella fabbricazione della carta garantiscono ad esempio l’assenza di cloro e di metalli pesanti, oppure c’è la possibilità di rifornirsi di materia prima presso le cosiddette well managed forest. In queste foreste, non appena un albero viene tagliato ai fini della produzione di legno o carta, si provvede a piantarne un altro, in maniera da assicurare la sopravvivenza dell’eco-sistema nel suo insieme. Al processo di costante rimboschimento partecipano indirettamente anche i clienti, ossia nel nostro caso le cartiere. Anche in Italia i principali produttori si sono allineati a queste direttive, facendo sì che fare un salto in libreria oggi non significhi per forza abbattere un albero.
La buona notizia insomma è questa: il consumatore di libri non è per forza un criminale, e un piccolo contributo è possibile darlo, acquistando carta che presenti certificazioni ufficiali di sostenibilità ambientale e invitando i nostri editori preferiti a fare altrettanto.

Foto: abete 2 © F. Guarnieri

giovedì 1 ottobre 2009

Su Marte o a Battipaglia

La fantascienza implica paradossi nuovi, situazioni ignote alle coor­dinate del nostro vivere quotidiano, e deve aprirsi per forza a prospettive inattese, basate su una sorta di geometria non-euclidea del raccontare. Chi non ne asseconda il naturale impulso, finisce per fare della fantascienza un uso maldestro e poco pregnante. Per scendere nel concreto, il pilota di una navicella spaziale non può assomigliare troppo ad un autista di tir sulla Salerno-Battipaglia, perché a quel punto tanto valeva rimanere sulla terra. Ecco il maggior peccato di questa raccolta di sette racconti: aver portato lontano – nello spazio, nel tempo o in entrambe le direzioni – delle storie pensando che ciò bastasse a dotarle di maggiore senso, di effettiva sostanza. Diceva Orazio che se corriamo al di là del mare, cambiamo cielo, non animo; lo stesso vale per le nostre storie.
Alle sett’albe non avrebbe nessun bisogno di essere ambientato su una stazione orbitante, anzi quella sorta di medico della mutua che è il protagonista sarebbe apparso molto più vero se avesse aperto lo studio in un piccolo paese di provincia. E Qualcuno dovrà è un dialogo fra nonno e nipote senza una reale consistenza, difetto non superabile solo per il fatto che i due vivono su Marte. In Atteone la situazione è abbastanza classica: un luogo poco abitato, sperduto nello spazio, improvvisamente smette di inviare segnali e un poveretto pieno di problemi e mezzo emarginato viene spedito ad indagare, con l'ovvia conclusione di un imprevisto scontro con l'alieno di turno. Alla fine della giostra (p. 48) salta fuori un po' a sorpresa una morale: «Pensava [...] all'enormità del cosmo e alla piccolezza angusta della limitata mente umana. Tutto cambia, tutto si trasforma e nulla rimane uguale a se stesso. Troppe forme di vita, troppe incognite». Ci voleva una chiusa così densa di senso, ma in base a quali ragionamenti si sia arrivati a tale riflessione è un altro mistero, si tratta di una morale tanto solenne quanto ingiustificata dagli eventi, da lasciar perplesso anche il buon Eraclito.
Insomma affondare radici in terre narrativamente friabili conduce a passi falsi: anacronismi (il navigatore spaziale che usa mappe cartacee e traccia le rotte a penna), innesti forzati (vedi le parti fantasy in Involontaria consegna), imprecisioni terminologiche (alle pp. 57-58 si legge che «l’Apollo numero 11 fu la prima astronave in grado di atterrare su un pianeta diverso dalla Terra», peccato che la luna non sia un pianeta). Lo spazio offre grandi silenzi, bisognerebbe approfittarne di più.

Fabio Centamore, Alle sett'albe, Roma, Ducas, 2009.

Le mie chiocciole: @

Da regalare: al patito di b-movies post-atomici