sabato 27 agosto 2011

La Berlino di Bowie

«La gente resta esterrefatta quando scopre che fumo, mangio e scorreggio», confida Bowie a un giornalista nei giorni della Ziggy-mania. E in quei giorni il mondo della popular music scopre la fascinazione – o la repulsione, a seconda della tifoseria – per l’uso della maschera. L’archetipo della rockstar sanguigna, energica, idealista e che canta di sé e della sua visione del mondo si accorge all’improvviso di avere un gemello rivale: un attore con i suoi costumi di scena e i suoi mutevoli personaggi, che canta di altri mondi, non necessariamente possibili.
David Bowie giunge al culmine della sua fase glam nel 1973, con l’invidiabile status di fenomeno del momento – secondo nella scuderia della casa discografica soltanto a sua maestà Elvis Presley – ma con il fastidioso effetto collaterale di una psiche devastata da pressione e additivi chimici. La prima mossa dell’esausto David per far fronte all’emergenza è quella di gettare alle ortiche i costumi da glam-rocker per cercare un nuovo modo di porsi davanti al pubblico.
Attraverso qualche disco di transizione (come il commercialmente ben accolto Young Americans), e un inquieto girovagare tra set cinematografici e città, Bowie seleziona un nuovo giro di musicisti, rinsalda il rapporto con il produttore Tony Visconti e il compagno di scorribande Iggy Pop e si tuffa in una avventura che lo porterà a pubblicare a proprio nome tre album di notevole livello nel giro di pochi anni.
Il libro di Seabrook è un ottimo esempio di racconto imperniato sull’atto creativo: una volta liberato il protagonista dai claustrofobici ammennicoli di scena, il tempo-spazio che include la lavorazione di Low, “Heroes” e Lodger, (la cosiddetta trilogia berlinese) descrive un quadro in perenne movimento, contraddistinto dalla liberatoria fluidità del progetto musicale, con le sedute per i dischi che usciranno con il nome di Bowie e quelli da lui prodotti nello stesso periodo per Iggy Pop che formano una sorta di continuum, dai confini in alcuni casi difficilmente tracciabili.
I musicisti impegnati nelle sedute di registrazione rivelano un altro aspetto importante di questo scorcio di carriera dell’eclettico artista inglese, che mette su un workshop dalla composizione mutevole e aperto a contributi filosoficamente intriganti: assolutamente da leggere i passaggi su Brian Eno e i suoi procedimenti aleatori, e ancor più il resoconto sulle modalità di registrazione utilizzate da Robert Fripp e Tony Visconti sull’album “Heroes”. Altrettanto ben strutturate le schede critiche sugli album di Bowie (e Pop), ma con la pecca della rimozione dolosa di quella relativa a Lodger, pur catalogato a ragione e con dovizia di argomentazione come non berlinese dall’autore.
Su tutto aleggia Berlino, come luogo fisico, dove Bowie approda con la tragica sensazione espressa in Be My Wife, «ho vissuto in ogni parte del mondo, e da ogni posto me ne sono andato», e la sua storia drammatica e unica, senza dimenticare il fascino della kosmische musik tedesca di quegli anni che fornisce molto di più che una mera base d’appoggio estetica per i nuovi lavori del musicista britannico.
In fundo, da non perdere la campana rivelatrice del business, con la casa discografica che – mentre il suo artista (ormai numero uno, dopo la morte del re del rock’n’roll), snocciola una serie di paesaggi sonori che influenzeranno intere correnti musicali negli anni a venire – attende inconsolabile uno Young Americans No. 2. C’est la vie.
(post di Gabriele Maiolo)


Thomas Jerome Seabrook, Bowie. La trilogia berlinese, Roma, Arcana, 2009.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: a chi pensa che il Duca bianco sia un personaggio delle fiabe

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