venerdì 3 luglio 2009

Il buco al centro del mondo

Anche se insidiata dalle metropoli d’Oriente, New York rimane nel nostro immaginario il centro del mondo, e la Grand Central Station è uno dei suoi luoghi simbolo, una sorta di centro del centro. Milioni di persone transitano attraverso di essa, tra una partenza e un ritorno, nell'attesa di un amico o di un amore, tutti disposti ad abitarla, ma solamente per lo stretto necessario. Nell’avversa fortuna lo stretto necessario a volte si allunga indefinitamente, ed è così che senzatetto e barboni finiscono per eleggere la Grand Central Station come dimora stabile: nella sua grande pancia sotterranea svernano gli esclusi, e fra loro c’è pure Lee Stringer. Vagando tra i cunicoli ha scovato un buco e l’ha fatto suo, un anfratto disumano dove può solo leggere o dormire, perché se vi porta del cibo finisce per soccombere ai ratti.
In tutta sincerità lo ignoravo, ma una matita può avere almeno due usi principali e, per uno come Stringer, scrivere è solo il secondo. Una matita è lo strumento ideale per fare pressione sui filtri prima di farsi di crack; inoltre ha il grosso vantaggio di risultare del tutto innocua quando la polizia te la trova addosso. Questa è la sola ragione per cui Lee Stringer, stagione dopo stagione, si porta dietro la sua matita, almeno finché arriva la rivelazione: una matita può anche scrivere.
Se ci fate caso, molti autori americani contemporanei paiono arrivare alla scrittura attraverso un progressivo processo di sottrazione, e non solo in senso stilistico, ma anzi soprattutto in senso esistenziale. Mentre alle nostre longitudini lo scrittore è uno che si ingozza di impegni, letture, storie, oltre oceano lo scrittore realizza d’essere tale quando perde tutto, quando nessuno lo chiama più, quando il futuro è azzerato, quando sembra davvero che sul fondo del barile non vi sia oramai nulla da raschiare. Penso a Carver che spende il suo ultimo cent in una lavanderia a gettoni e fissa l’oblò chiedendosi cosa fare; penso a Augusten Burroughs mentre guarda inebetito il pavimento del suo salotto completamente occupato da bottiglie vuote; penso a Lee Stringer che vive in un buco al centro del mondo. Uomini all’apparenza condannati al definitivo fallimento o ad una devastante ed esiziale dipendenza.
Il meccanismo salvifico della scrittura trasforma le loro tragiche esperienze personali in bacini preziosi di idee, sublima l’abiezione in arte e, appunto, li salva. D’altronde si sa che ai margini della società, nei luoghi dei reietti, si trovano spesso i migliori personaggi, racconti di vite costellate da situazioni paradossali. Chi scende fino a lì e poi riesce a risalire, porta con sé un bagaglio necessariamente ricco. Ora però – ed è questa la maggior pecca nell’Inverno alla Grand Central – non tutto quello che abbiamo sentito e vissuto può divenire de plano materia di romanzo. C’è una sorta di presunzione narrativa nella costruzione di questo libro: l’idea che bastino frammenti di storia per assemblare una trama, che basti raccontare di gente vera, di fatti reali, per toccare un lettore. La medesima presunzione colpisce l’autore/protagonista Stringer e lo rende, se non antipatico, perlomeno lontano. Qual è il viaggio dell’eroe? Egli è sempre uguale a sé stesso, non soffre, si bea d’essere a suo modo arrivato: ero un barbone, ora sono uno scrittore. Che bravo!
È curioso che Kurt Vonnegut, nella benevola ma smilza introduzione, citi Jack London. Perché il primo mio pensiero, nel leggere, è andato proprio ad un’opera di Jack London, a quella sorta di docu-fiction che è Il popolo degli abissi: l’esperienza di travestirsi da marinaio per affrontare nel 1902 i sobborghi di Londra, per vivere miserabile tra i miserabili e ricavarne alla fine un racconto frastornante e a tratti attualissimo. Ho visto delle affinità, ma la penna (non la matita) è un’altra.
Stringer ha a volte uno sguardo cinico sul mondo di cui scrive, distaccato al limite del disprezzo, come se lo studiasse ma avesse scordato d’averne fatto parte. La sua è una cronaca fredda, con uno stile adatto a Street News – il giornale di strada che divenne la sua “casa” dopo essere uscito dal buco –ma che tende ad appiattire tutto sullo stesso piano. Diverso era lo spirito di Jack London. Quando lo ammonivano: «Dicono che ci sono luoghi nei quali la vita di un uomo non vale un soldo», lui rispondeva: «Sono proprio i posti che voglio vedere».

Lee Stringer, Inverno alla Grand Central, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 272.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: alla zia maniaca dell'ordine e della pulizia


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