mercoledì 19 febbraio 2014

La fine del cavallo


Ho un metodo infallibile per stupire il mio interlocutore. Dirgli, senza mentire, che non possiedo un’automobile. Ho trovato il modo di farne a meno, mi muovo con altri mezzi, improvviso, sta di fatto che, nel bel mezzo di qualunque conversazione con persone recentemente conosciute, cerco sempre di infilarci questa informazione che fa davvero effetto, ed è pure un po’ snob, lo ammetto, ma abbiamo tutti le nostre debolezze. Il punto è però un altro: pensare ad una vita senza automobile è per molti davvero straniante. Facciamo fatica ad immaginarci privi di quella appendice meccanica perché le automobili sono divenute elemento costante e consueto del quotidiano, e ci stupiscono solo quando non ci sono (il fascino di Venezia è anche il fascino di una città senza automobili).
Gli attori di teatro conservano un’espressione che è eredità di un mondo antico. Prima dello spettacolo, per augurarsi il successo, si dicono a vicenda: “merda, merda, merda!”. Lo dicono ancora oggi, benché non abbia più molto senso, dato che l’escremento in questione era quello prodotto dai cavalli che conducevano le carrozze dei signori a teatro, e tanta merda voleva dire tanti cavalli, tante carrozze, tanti spettatori. Poco più di cent’anni fa le strade erano ancora territorio dei cavalli, e l’inquinamento era la puzza del loro sterco, fastidioso ma più sano, e i parcheggi brulicavano di mosche. Poi le cose cambiarono, il mezzo meccanico arrivò ad affascinare tutti e fece piazza pulita, anche fuor di metafora. Dopo la Grande Guerra – che oltre ad essere la prima guerra mondiale, fu la prima guerra di automezzi – il destino del cavallo quale mezzo usuale di trasporto apparve segnato. Ma la storia era iniziata ben prima, già alla fine dell’800.
Con l’accordo siglato a Vero Beach in Florida poco prima di capodanno, grazie al quale ha acquisito il controllo di Chrysler, la Fiat si è guadagnata una visibilità internazionale mai avuta prima. L’azienda, che nel 2004 era sull’orlo della bancarotta, oggi è la settima casa automobilistica nel mondo. Siamo al coronamento di una vicenda industriale longeva e gloriosa, l’ultima conquista di un marchio che è fra gli ambasciatori del made in Italy e dovrebbe rappresentarne il lato migliore. Ma a incombere sulla sua origine, c’è un mistero tragico che si dipanò proprio nel momento in cui avveniva il passaggio del testimone: quando l’automobile uccise la cavalleria.
È curioso che la vicenda romanzata da Giorgio Caponetti abbia come perno principale un personaggio che incarnò in sé entrambi i mondi. Emanuele Cacherano di Bricherasio è un nobile piemontese, ufficiale di cavalleria, amico fraterno di Federigo Caprilli forse l’ultimo campione di equitazione ad essere accolto in società come una star. Bricherasio nasce dunque aristocraticamente issato a cavallo, eppure ha idee progressiste, è affascinato dai progetti di sviluppo industriale e coltiva il sogno di fondare una casa automobilistica. Ci riesce nel 1899: nel suo palazzo torinese nasce la Fiat. Ma sulle strade attorno alla città sabauda un altro ex ufficiale di cavalleria si dimostra preda del fascino della velocità, è Giovanni Agnelli che gongola per i premi conquistati in gara. Torino in quel periodo è un gran fermento, e il romanzo è anche uno spassionato atto d’amore verso la città; le sue tradizioni e le sue atmosfere sono messe in scena con meticolosa devozione.
Bricherasio e Agnelli sono destinati ad incrociarsi, e alla fine a scontrarsi: troppo lontane le concezioni industriali, troppo diversi l’estrazione sociale e il retroterra culturale. Bricherasio ha la nobiltà del gesto, un gusto romantico dell’impresa; Agnelli è pragmatico, ansioso di raggiungere gli obiettivi, assolutamente privo di cavalleria (volendo giocare con le parole). Le due storie sono raccontate in parallelo, partendo da molto lontano e intrecciandole con altre, così Caponetti gestisce e dispiega una gran mole di informazioni, frutto di attente ricerche, con il rischio tuttavia di rallentare il ritmo, di eccedere nel didascalismo. Meglio correre avanti veloci, come cavalli lanciati al galoppo o auto in gara sulla pista, ansiosi di bruciare le tappe di una sfida a distanza dalla quale nascerà un marchio destinato a fare storia, nonostante gli eventi tragici e mai del tutto chiariti che accompagnarono i suoi primi anni.

Giorgio Caponetti, Quando l'automobile uccise la cavalleria, Milano, Marcos y Marcos, 2011.

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