lunedì 6 ottobre 2008

Il manichino disarticolato

Giudico leggermente sleali i film o i libri che sfoggiano la fatidica frase, tratto da una storia vera. Mi suona molto come giustificazione preventiva, quasi che lo sceneggiatore o lo scrittore si premurassero di far sapere che lungaggini e incongruenze dovranno essere attribuite non a loro, ma alla storia, perché, ahinoi, è proprio così che andò. Non sono caduti in questa comprensibile debolezza i nostri Trento e Amadei, nonostante che ne avrebbero avuto ben donde, soprattutto il secondo, capitato quasi per caso a Nassiriya nel giorno peggiore in cui esserci. La sorpresa è proprio quella, di raccontare una tragedia vera come se fosse puro frutto di fantasia, di mettere sulla carta il dolore consolandosi con un amaro sorriso. La storia è dunque vera nella sua sostanza, ma è stata lasciata libera di svilupparsi romanzescamente. Senz’altro molto del merito va a Francesco Trento che, nel ruolo di novello Rustichello da Pisa, ha fatto sue le memorie di Aureliano Amadei, dando ad esse una forma nuova e inconsueta. D’altro canto, mi viene da pensare, un’esperienza così si fa fatica a raccontarla da soli.
È un libro che non ti aspetti, che scuote per quelle frasi che sono già schegge di granata, collegamenti neuronali rapidi e frammentari persino quando descrivono la casetta di legno della nonna in campagna. Nel gioco dei flashback la storia va avanti e indietro, con un montaggio incalzante che lascia poco fiato, giusto quanto serve per un’inattesa risata. C’è infatti ironia, distillata nelle pagine, assieme all’innocenza inesperta di Aureliano, manichino disarticolato fra le sabbie dell’Iraq. Eppure, anche mentre si ride, un nodo stringe lo stomaco ed è un nodo «che non scioglierebbe neppure Houdini».
La prima parte del libro, il vagare del corpo martoriato da una barella improvvisata all’altra, si scola in un solo sorso. Poi la scena cambia, dal deserto si giunge all’ospedale militare del Celio, all’Italia, alla vita civile. E lì, mentre la storia si acquieta e si fa riflessiva, scopriamo che in Italia di civile c’è ben poco. Con quante fesserie ci hanno imbonito? Quante balle ci hanno propinato? Gli occhi di Aureliano lacrimano, ma non è rossore, non è sofferenza, è rabbia; rabbia perché quegli occhi erano laggiù e hanno visto e – vacilli chi mente sapendo di mentire – sono tornati indietro per raccontare quanto hanno visto.
Naturalmente le parole di un aiuto regista non contano nulla, in rapporto a quelle di un alto graduato invitato al salotto di Vespa; poco importa che quest’ultimo fosse sprofondato in poltrona mentre il primo roteava nell’aria sollevato dallo spostamento d’aria dell’esplosione. A noi rimane la consolazione di un libro dove rintracciarle, nella speranza (vana?) di abitare un giorno in un paese più vero e civile.

Francesco Trento – Aureliano Amadei, Venti sigarette a Nassirya, Torino, Einaudi, 2005.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a chi andrebbe in mimetica anche a messa.



1 commento:

Anonimo ha detto...

la guerra che non si vede, conflitto insabbiato che si traveste da "pacificazione", torna a squassare la coscienza grazie alla leggerezza e l'ironia di una scrittura che restituisce l'angoscia senza mistificarla in epica

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