domenica 8 agosto 2010

In mare con Ulisse

Il discorso su Ulisse è un discorso sulla poesia. Solo i poeti hanno saputo raccontare davvero l’eroe greco che persino i bambini conoscono. Un eroe lontano e tragico, come lontana e tragica è sempre la poesia. Innanzitutto perché la poesia è «memoria tenace di sé e del mondo», guarda indietro, molto oltre il nostro pensiero, il nostro primo ricordo. Non è rassicurante la poesia, «alita sulla soglia, è il ponte esile sospeso tra le due sponde, è un pericolo estremo» (p. 27), è il lato oscuro della conoscenza, quello che può togliere ogni barlume di senso al nostro vivere: niente di più tragico. Essa per prima, alla fine, ci conduce da colui che dimora nel mito, e il mito è il tutto, ‘figura’ della Vita che si adempie in esso, purificandosi (p. 158).
Una cultura intensamente metabolizzata sa tessere delle trame inattese: lega il capo del filo ad un verso di Omero e lo tende senza sforzo fino ai poemi di Tennyson; fa poi scendere lo stesso filo nel Purgatorio dantesco affinché avvolga in un mazzo i Fiori di Baudelaire. Dà soddisfazione scoprire come la letteratura si richiami continuamente, come gli autori si cerchino, come le poesie si evochino l’una con l’altra. Inseguire tale scoperta è la maestria di Piero Boitani  e delle sue pagine in L’ombra di Ulisse. Certo, modello migliore non si poteva scegliere. Quale altro personaggio è così longevo e multiforme? Chi non vorrebbe raccontare di Ulisse, l’eroe vagabondo, l’eroe dalle molte ombre? Lettori d’ogni epoca hanno amato il suo non essere perfetto, le sue mancanze e debolezze, i suoi scatti d’orgoglio, di ira; nessuno è umano quanto Nessuno, se vogliamo giocare ricordando la rivincita su Polifemo. Ulisse osa quello che noi non possiamo, agisce in modi che condanniamo e ammiriamo nel contempo.
Perché amiamo tanto Ulisse? Perché non c’è eroe mitico, non c’è personaggio letterario che possa eguagliarlo nel numero di versi dedicati, nelle rivisitazioni in prosa, nei racconti che indagano le sue gesta? Io credo perché Ulisse è tutto ciò che noi vorremmo essere, senza riuscire ad ammetterlo. Di più: egli lo è al di là dei limiti e della morale, e nonostante questo accade che ogni suo eccesso gli sia perdonato. Ulisse è empio, eppure gli dei lo amano; Ulisse è infedele, ma le sue donne lo aspettano; Ulisse è infido, e i re lo rispettano ugualmente; Ulisse è egoista, tuttavia i suoi compagni lo vogliono al comando. Non c’è difetto che non sia un pregio, parlando del figlio di Laerte. Ed è per questo che lo amiamo.
La letteratura conosce infiniti Ulisse, ma i capostipiti sono in sostanza due: quello omerico, colui che ritorna; e quello dantesco, colui che cerca, che è in costante esplorazione, spesso oltre il limite che chiunque di noi porrebbe come inviolabile. Dai due modelli ne discendono molti altri, ciascuno con il proprio profilo, evocati dalla penna di Borges, di Eliot, di Kafka... Levata l’ancora, c’è da superare lo scoglio di un’articolata struttura concettuale, ma con il nocchiero Boitani si intraprende una navigazione appassionante alla scoperta dei tanti Ulisse, muovendosi sul gran mare aperto della letteratura.

Piero Boitani, L'ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, il Mulino, 1992.


Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al collega in partenza per la crociera in Grecia.

mercoledì 28 luglio 2010

Desolation row


Grazie alla penna di Salvatore Sansone, iniziamo a raccontare di pezzi di vita sparsi, incastrati male con gli altri. Di percorsi d’asfalto incandescente, che sono terra bruciata, sole, oppure nebbia. Spesso solitari. La musica? Quella assordante del silenzio o dello sparo.

Certe vite quasi normali
Avere un padre dal nome famoso spesso non aiuta, soprattutto se padre e figlio sono scrittori. Se poi quel padre è John Fante, lo stesso Fante che - a stare al racconto di Bukowski - fu in grado, con il proprio funerale e dunque ‘ordinando’ anche da morto, di fargli indossare la cravatta, allora le cose si fanno abbastanza serie. Un padre e un figlio. Il loro rapporto, spesso difficile. L’amore che viene fuori soltanto quando uno dei due non c’è più. Dan Fante percorre a gran velocità le strade di Los Angeles, le stesse che portarono papà da Bunker Hill a Hollywood. Ma la testa pulsa e batte. Nulla sistema le cose. Nulla addolcisce l’animo, nemmeno il vino dolce. Tom Waits, in Fumblin’ with the blues, canta che è difficile vincere quando si è sempre perso. Ci si può solo fermare e provare a ricominciare. A quel punto si realizza, si pensa, si scrive. La baia del Pacifico a Natale è deserta. L’amore diventa libro, opera letteraria e l’uomo amato si sovrappone del tutto alla sua opera, quasi una sorta di uomo-libro. È quel cognome stampato a rialzo sulla Visa scaduta che lega il figlio al padre, in una libreria deserta nell’acquisto di Chiedi al vento,  chiara allusione a Ask the dust. «Era mio padre» sono le tre parole che marchiano a fuoco il patto di sangue.
In compagnia di Rocco, il bull terrier, stremato e moribondo, Angeli a pezzi è un libro che dà vita, nonostante il suo essere dramma. Come la fenice rinasce dalle sue ceneri. È solo quando si tocca il fondo che arriva la redenzione. Dan riesce a convivere con la grandezza del genitore. E non è poco. Lo fa con la sfida, colpendo forte al cuore. Botta dopo botta, gancio dopo gancio. Mena pugni e ne riceve. Certe vite, alla fine, ci sembrano, nonostante tutto, quasi normali.
(post di Salvatore Sansone)

Dan Fante, Angeli a pezzi, Milano, Marcos y Marcos, 2010.

Chiocciole: @@@

Da regalare: a chi è sempre a terra.

domenica 25 luglio 2010

Il libro, una rarità

Il ridimensionamento del ruolo del libro cartaceo sarà inevitabile di fronte all’avanzata del digitale ma – come si sostiene da varie parti – la “morte del libro” è un’evenienza perlomeno molto lontana. Di certo si perderà un po’ della familiarità con questo oggetto, finora così presente nella storia dell’uomo, per cui ci si chiede fra quanti anni diventerà addirittura raro, solo un pezzo da museo. Evitando di azzardare profezie, posso però rilevare che già ora in realtà la conoscenza del libro di carta, inteso nella sua materialità di supporto fisico, principia a difettare. Faccio solo due esempi.
Fino a non molto tempo fa, alcune case editrici più ricercate immettevano sul mercato i propri libri lasciandoli intonsi, ovvero non facendoli tagliare (rifilare) sui tre lati. Per generazioni di lettori precedenti le attuali, era del tutto normale doversi via via “aprire” le pagine facendo scorrere il tagliacarte lungo i bordi. Era un gesto antico che racchiudeva in sé il senso di scoperta che ogni pagina offre. Permetteva fra l'altro di farsi poi rilegare i libri a proprio piacimento e inoltre garantiva che il libro fosse davvero nuovo. La pratica, a quanto ne so, è caduta in disuso, però libri intonsi ancora  girano nei mercatini e nei magazzini di vecchi editori. Il lettore d’oggi ormai non sa più riconoscere tali “chicche”, e la reazione è suppergiù sempre la stessa: «scusa, ma questo è difettato!».
Amazon annuncia il sorpasso nelle vendite di e-book rispetto agli hardcover, e i nostri giornali riportano la notizia con gran squillo di trombe e la solita imprecisione condita di sensazionalismo: «Gli ebook superano i libri di carta». Il tiro viene parzialmente corretto nel prosieguo dell’articolo, ma il messaggio ormai è passato. L’imprecisione è segnalata dal Post: «all’ultimo giro Amazon ha venduto più libri elettronici che libri rilegati, escludendo quindi dal conteggio i tascabili e le altre edizioni non rilegate (hardcover)». La traduzione corretta – questo è il punto che mi interessa – non è rilegati, dato che tutti i libri sono rilegati; in caso contrario sarebbero fascicoli sciolti. Gli hardcover sono i libri con copertina rigida. Tutti gli altri, come ad esempio i tascabili, sono libri in brossura, termine spesso utilizzato con il significato opposto di legatura di pregio.
Insomma, a ben vedere, nell'uso improprio dei termini che lo caratterizzano, già ci sono i segni del declino del libro fisico; ma tra un po’, a quanto dice Amazon, queste saranno solo oziose distinzioni per storici e antiquari.

Foto © Gwyndon

domenica 18 luglio 2010

Scrittori e palloni

Il lustro è un’unità di misura desueta. A scandire il nostro tempo vengono altri numeri, primo fra tutti il quattro. È dal 1930 che il calcio offre dei paletti mnemonici oramai divenuti riferimenti comuni e condivisi. C’è chi, su due piedi, non ricorda la data del proprio matrimonio, eppure scandisce preciso gli anni in cui l’Italia vinse, nemmeno la sequenza corrispondesse al codice del bancomat. La ricorrenza del mondiale è un fenomeno planetario dal quale, anche volendo, non ci si può più astrarre; la viviamo tutti, in un modo o nell’altro, magari solo di riflesso. Cosa ricorderemo allora dei mondiali 2010 in Sudafrica? L’indecorosa débâcle della compagine italiana? Il titolo finalmente conquistato dalle ‘furie rosse’? Il rigore sbagliato dal Ghana al 120’? Il palleggio di collo di Cristiano Ronaldo? In realtà ognuno di noi filtrerà nel tempo le tante vicende ed emozioni susseguitesi in meno di un mese, e farà distillare piccoli attimi personalissimi, ricordi minimi, il ‘nostro’ mondiale, ulteriore tappa nello scorrere, di quattro in quattro, dei nostri anni.
Di storie, reali o inventate, legate ai mondiali, ne ha raccolte diciannove il libro Era l’anno dei mondiali (uscito in allegato al «Corriere della Sera»), facendole raccontare dai componenti della Nazionale Italiana Scrittori, «un gruppo di amici uniti dalla passione per il calcio e per il narrare». La sfida per ciascuno era la seguente: scegliere un’edizione dell’evento e cavarne fuori un pezzo di letteratura, così da ripercorrere in maniera inedita gli ottant’anni che ci separano dal luglio del 1930 in Uruguay. A quel punto – per chi ha accettato la sfida – il dilemma era palese: concentrarsi sui grandi campioni, le partite, il ‘macro-scenario’, oppure scegliere una prospettiva minore, divergente, un ‘micro-scenario’ che raccogliesse i riflessi di quanto avveniva sui campi erbosi? Optare per una linea comune sarebbe stato limitante, ogni scrittore ha così seguito la sua strada, ha fatto la propria scelta, offrendo alla fine una galleria dei modi possibili di raccontare un grande evento sportivo.
Scegliendo il palcoscenico maggiore, è facile lasciarsi guidare dal tabellone, seguire le vittorie, tratteggiare le gesta di giocatori entrati nel mito - come Manoel Francisco Dos Santos detto Garrincha, di cui racconta Luigi Sardiello in L’allegria della gente – e di altri che ne ebbero l’occasione ma la mancarono – come Stéphane Guivarc’h, campione senza merito con la Francia nel ’98 (vedi Monsieur Apostrophe di Giampaolo Simi). L’esempio migliore lo si deve allo scrittore che come nessun altro ha saputo portare il calcio nei libri e alla cui memoria la nostra Nazionale è intitolata: Osvaldo Soriano – special guest della raccolta – che racchiude tutto il mondiale del 1950 nella figura di Obdulio Varela, il centrocampista in grado di battere il grande Brasile semplicemente raccogliendo una palla dalla rete. Ma a non essere Soriano, si corre il rischio di diventare didascalici nell’affidarsi a gironi e marcatori, meglio allora accendere i riflettori su angoli più nascosti del palcoscenico, facendo parlare un arbitro (Fabio Geda, Le fatiche dell’arbitro Langenus) o due famosi giornalisti in attesa sulla navetta per lo stadio (Carlo D’Amicis, Gute Raise, Italien).
Guardando agli autori che hanno scelto di concentrarsi su vicende minori, su gente comune al ‘tempo dei mondiali’, o addirittura sui propri ricordi d’infanzia, gli esiti spesso non convincono. Il problema è che tutto è epico, per noi, nella nostra memoria; figuriamoci quando torniamo ai polverosi campetti sui quali abbiamo lasciato tanti sogni di gloria calcistica. Rendere quell’afflato epico non è impresa scontata. Dal punto di vista letterario funzionano di più i racconti che dal mondiale prendono lo spunto, ma poi seguono una propria trama indipendente e compiuta, come nel caso di Il mio primo mondiale da tifoso di Francesco Trento (con un divertente e pseudo-conflittuale rapporto padre e figlio) oppure della roulette russa dietro le sbarre di Cella di rigore di Marco Mathieu, che fa davvero rivivere, ma al contrario, l’ansia di Brasile-Italia a Usa ’94, una delle poche finali decise ai rigori.
«Il mondiale di calcio è un luogo, anche se viene giocato ai quattro angoli del mondo» dice Valerio Aiolli (p. 121), ed è un luogo in cui fa sempre piacere tornare, ricordando le belle emozioni e nonostante le delusioni sofferte.

Osvaldo Soriano Football Club, Era l'anno dei Mondiali, a cura di Paolo Verri, Milano, Corriere della Sera, 2010.


Le mie chiocciole: @@

Da regalare: alla fidanzata che ripete "perché, perché la domenica mi lasci sempre sola...".