mercoledì 26 maggio 2010

I ricordi di Oz (2)

Ci sono il mondo e la Storia, fuori dalla finestra; però la nostra vita è dentro, è dietro il vetro, dove tutto è minuscolo a confronto, e in apparenza chiaro, definito, governabile. Vorremmo che le cose intorno a noi avessero sempre contorni netti e colori ben definiti: sarebbe tutto più facile, e il nostro andare sicuro. Il bambino immagina che sarà così, giorno dopo giorno. Invece no, viviamo di incertezze e di linee curve, di superfici che si sovrappongono e intersecano, ma è proprio là che sta la bellezza delle cose: «così appresi i segreti della sfumatura: la vita è fatta di itinerari diversi. Ogni cosa può accadere così, ma anche altrimenti, secondo partiture diverse e logiche parallele. Ogni logica parallela è di per sé coerente e consequenziale, a suo modo conchiusa, indifferente a tutte le altre» (p. 33).
Un gusto proustiano della minuzia – a tratti baluginante come un gioiello – tratteggia l’infanzia di Amos Oz. L’apparenza di normalità viene di continuo affogata da eventi e pensieri troppo grandi per un bambino, anche se forse il destino dei bambini ebrei è differente da quello degli altri. Non è semplice essere bambini ebrei, perché i bambini ebrei devono comportarsi sempre bene, il minimo biasimo diventa colpa per tutti (p. 238). Basta un gioco maldestro per far tornare a galla tutte la difficoltà della convivenza in una terra occupata da genti lontanissime fra loro, per lingua, cultura, religione. Quella biglia di metallo rotante, sfuggita nella direzione sbagliata e perduta nell’inevitabile traiettoria, ci angoscia come una bomba nucleare sganciata su Gerusalemme (pp. 390-398).
Forse per questo rimane dalla loro una lucida e disillusa saggezza che discetta su ogni cosa. Sull’amore, ovviamente, il grande paradosso, la «mistura dell’egoismo più egoista e della dedizione più completa» (p. 192). Una mistura che ci piove addosso, si insinua in noi come una malattia; non è che lo scegliamo l’amore, è lui che sceglie noi. Sulla tenebra, dato che i veri dilemmi quotidiani sono alla fin fine fondati sulla scelta fra bontà e cattiveria. Perché in quel momento, troppo spesso, preferiamo la cattiveria? La colpa sta all’origine: abbiamo mangiato una mela avvelenata.
Eppure la tragicità profonda di una storia d’amore e di tenebra viene a mancare, perché amore e tenebra sono sempre solo accennati, soffusi appunto di sfumature, smerigliati dagli occhi dell’infanzia, portati nella memoria di uno scrittore, un adulto che molto ha visto, che molto ha vissuto, che sa guardare con distacco ogni gioia e ogni tristezza la vita porta con sé. Così guarda persino alla madre, alla donna assorta che inventa per il figlio strane favole, che pare intrappolata in una vita non sua e vive con un uomo che bacia come fosse un bambino. Il tempo più suo è per i libri; la sua estraneità al mondo, alla famiglia, incombono sul racconto con la grevità di un peccato mortale. La tenebra si intravede nel gioco sonnambulo dei letti che mescola stanchezza e sofferenza, è il vagare di tre anime in pena fra gli angoli di pochi metri quadri (p. 537). Mamma, papà, figlio, insieme, sotto le coltri, eppure soli, ciascuno con il proprio particolare dolore. La vita non è facile.
(Fine parte seconda)
(Leggi la prima parte)

Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: a chi non si è perduto sulla strada di Swann

venerdì 21 maggio 2010

In morte del poeta

Di fronte alla morte le parole sono quasi sempre inadeguate, perciò sarebbe bene lasciare alla morte il suo silenzio. Ma noi, che ancora rimaniamo da questa parte, abbiamo bisogno di raccontarci qualcosa, di rifugiarci nelle parole, soprattutto quando a lasciarci è un poeta. In questi casi funziona guardare indietro, meglio se verso un ricordo non impettito, ancor più se verso una poesia intensa.
Il primo spunta fra due chiacchiere dietro un caffè, ringrazio Lodovico Steidl per avermi concesso le sue riflessioni prese dal vivo: «Ho conosciuto Sanguineti una quindicina d'anni fa. Mi parve già allora decrepito, forse perché i brutti sembrano sempre più vecchi... Era brusco e al tempo stesso gentilissimo, di poche parole eppur disponibile ad ascoltare. Mi ha sempre colpito il suo continuare – fino all'ultimo – a professarsi marxista. Insomma, i tempi erano cambiati, ma lui no. Davanti a questo vomitevole voltagabbanismo, me lo figuravo totem immutabile, piantato sul molo del porto di Genova: tagliato con l'accetta il suo naso, tagliata con l'accetta la sua bazza da sdentato. E alla fine mi ero scordato della sua somiglianza con Marty Feldman».
La seconda, la poesia, da sola giustifica il dispiacere per questa penna definitivamente posata:

LA BALLATA DELLE DONNE

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Edoardo Sanguineti

(da Mikrokosmos. Poesie 1951-2004, Milano, Feltrinelli, 2004)

mercoledì 12 maggio 2010

In cerca d'eroi

Trovo sia davvero un cattivo segnale quando la comunicazione – specialmente a “grande diffusione”, come quella televisiva – si realizza in maniera sciatta e chi se ne fa portavoce dimostra scarsa attenzione verso le parole. Sono le cose di poco valore che si usano con leggerezza, senza riguardo, come cose appunto di cui non far conto; ma non c’è più grave errore, per chi ha il compito professionale di comunicare, di scordare le conseguenze inattese e pericolose che possono derivare da un uso impreciso delle parole. C’è un caso, fra i tanti, su cui mi ero soffermato in passato, lasciando poi perdere per rispetto del dolore. Ora, per altre vie, la parola è tornata a galla e ricorre nei titoli dei giornali, imprecisa com’era sette anni fa, e mi induce a riprendere il discorso.
Se cercate notizie su quanto accadde a Nassiriya, scoprirete come sia inevitabile incappare nell’aggettivo ‘eroi’. Gli italiani che disgraziatamente si trovavano nei pressi della base “Maestrale” il 12 novembre 2003 e morirono a causa dell’attentato suicida, sono spesso definiti eroi. L’attribuzione è divenuta spontanea al punto che molte delle lapidi commemorative sparse per la penisola riportano espressamente il termine. Ma cos’è che ha trasformato in eroi quegli uomini? Perché nel sentire comune si è diffusa la convinzione che è in tal modo che essi debbono essere ricordati?
Domenica scorsa, nella diretta delle 19 del suo tg, Emilio Fede ha esternato un’insofferenza verso l’attenzione, a suo dire eccessiva, che media e pubblico tributano a Roberto Saviano. «Non se ne può più di sentire che lui è l’eroe» ha tuonato Fede. Per un attimo ho avuto un mancamento: ero d’accordo con Emilio Fede. Perché mi sembrava di nuovo d’avere a che fare con un uso impreciso della parola.
È stato allora che ho ripensato a Nassiriya, e sono arrivato ad interrogarmi su chi sia veramente un eroe. Se parto dal dizionario (Sabatini-Coletti), mi trovo di fronte la seguente definizione: «chi dà prova di grande coraggio militare o civile; fare l’eroe: accettare sacrifici o andare incontro a pericoli senza necessità». La prima impressione è che l’aggettivo non si adatti perfettamente a nessuno dei due casi. Senza necessità, questa è la specificazione fondamentale, qui sta la chiave del discorso. Non sarebbe però bello dilungarsi in disquisizioni lessicali quando in gioco è la pelle degli altri; discutere dove sta il limite fra un lavoro pericoloso e l’eroismo; valutare se certe scelte di vita automaticamente sollevino più in alto una persona rispetto alla gente comune; eccetera. Rimango sulla parola, per capire se è possibile usarla meglio.
Il senso profondo, a mio avviso, dell'eroe sta nell’atto di chi volontariamente si sacrifica; di chi ha coscienza sia del sacrificio (“sto compiendo un atto che potrebbe costarmi caro”) sia del motivo del suo sacrificio (“lo faccio comunque per salvare qualcuno o qualcosa”). Nessuno pianifica di diventare un eroe; si possono invece fare delle scelte coraggiose che a volte portano ad un bivio decisivo: ed è lì che si prende la decisione se proseguire fino all’estremo. A Nassiriya non c’è stato tempo per prendere decisioni, quel camion cisterna è piombato sulla base come un bus che inforca una fermata, come una svolta improvvisa del destino. La mafia costringe il nostro paese a continue scelte, piccole e grandi, ma sono sicuro che Roberto Saviano, in virtù delle sue di scelte, non ha mai chiesto d’essere considerato un eroe. E davvero gli auguro di non diventarlo mai. Né per lui, né per noi, perché è sventurata la terra che ha bisogno di eroi, o almeno così diceva Brecht.


domenica 9 maggio 2010

Per l'archivio, suonare due volte

Anche gli archivi postali hanno un’anima. Non sembrerebbe, tanto è vero che la sola parola evoca fotogrammi di un’umanità grigia e dolente, imprigionata in una fittissima rete di scartoffie burocratiche, fra ordini di servizio, circolari e contestazioni del capoufficio. Esistenze piccolo-borghesi anonime e insignificanti, metafora di quell’aurea mediocritas che è la vita sociale degli individui in uno Stato moderno. Eppure, a saperle indagare con acribia e senza pregiudizi, anche le carte più seriali e, all’apparenza, impersonali svelano un cuore pulsante, trasmettono il fiato, il sudore e le lacrime di corpi ancor vivi e carnali. È quel che ha fatto Mario Coglitore, il quale, oltre ad essere il responsabile a Venezia dell’Archivio storico di poste italiane, è anche “figlio d’arte”. Suo padre e i suoi nonni, infatti, erano impiegati delle poste. Mai come nel suo caso, dunque, fare storia ha significato pure addentrarsi nel proprio inconscio autobiografico.
Non tutti gli archivi postali ci sono giunti ben conservati e inventariati. Solo alcuni relativi al personale. È quanto accaduto a quelli di Torino e di Venezia, sede degli scavi certosini di Coglitore. Migliaia di fascicoli, alcuni smilzi, altri più cicciottelli. Ciascuno intestato ad un singolo impiegato. Portalettere, fattorini, telegrafisti, ricevitori, commessi: qualsiasi documento abbia intersecato la loro sfera professionale, è ora racchiuso in quei faldoni ingialliti e impolverati. Quante storie impensabili e inaspettate n’escono!
Il diorama tracciato da Coglitore offre almeno tre chiavi di lettura. C’è, innanzitutto, il piano per così dire “istituzionale”. La storia degli impiegati postali, nella prima metà del secolo, come storia di una branca dell’amministrazione dello Stato. La loro crescita è esponenziale: nel 1900 sono circa 12mila, nel 1950 hanno raggiunto le 35mila unità. Un popolo minuto, minutissimo, e tuttavia privilegiato rispetto alle classi subalterne. Al contrario degli operai di fabbrica, i dipendenti delle poste hanno un lavoro di norma non usurante, in un ambiente più ospitale. E quando tornano al loro desco familiare, possono godere di un alloggio popolare ma dignitoso, soprattutto dagli anni Venti in poi. Per i più fortunati ci sono anche la radio e i servizi igienici in casa. Resta comunque una «non classe», dal profilo ancora sfumato e dai confini mobili: difficile entrarvi, molto più facile uscirvi, risospinti verso i gradini più bassi della scala sociale. Soltanto negli anni Cinquanta diventerà ceto medio, raggiungendo un moderato benessere. Ma già il fascismo aveva tentato, con un certo successo, di plasmarne l’identità, facendo dell’impiegato «una sorta di soldato pronto al sacrificio per il bene della nazione». Il travet, sotto Mussolini, ottenne prestigio e una relativa sicurezza. Il sistema postale, per di più, era «il mezzo principale di trasmissione del linguaggio nazionale in tutto il Paese». Un compito delicatissimo, in un regime autoritario che mirava a controllare non soltanto i corpi e le menti dei suoi sudditi, ma anche le loro parole.
La seconda chiave di lettura è quella più allettante, almeno per il lettore non specialista, e richiama il vissuto di questi “uomini comuni”, che cessano, finalmente, di essere delle mere appendici statistiche. Possiamo anzi quasi immaginarne la fisionomia. Come quella dell’impiegata «cristianamente spirata alle ore 0.20 di domenica 9 luglio 1950, dopo lunghissime sofferenze»: così recita l’avviso funerario. Il fascicolo a lei intestato sembra quasi una cartella clinica, fra certificati medici, penosi interventi chirurgici e lunghe assenze per malattia. Un mondo a parte, quello delle impiegate (il cui numero tende ad aumentare nei periodi di guerra, quando gli uomini sono dirottati al fronte), sempre costrette ad esibire un’immacolata “rispettabilità”, tanto che nei faldoni abbondano indiscrezioni sulla loro vita privata. Nessuna tolleranza, ovviamente, per i rapporti «equivoci» e adulterini. Senza contare che soltanto all’alba del nuovo secolo era stato soppresso il «vincolo di nubilato».
Spesso questi brandelli di vite incrociano la grande storia. Pensiamo, ad esempio, alle peripezie cui vanno incontro i dipendenti della «Forza libera postale revisionata» (istituita a Pola e Fiume), parificati a tutti gli effetti agli impiegati delle Poste del Regno d’Italia. Ma non possiamo neppure dimenticare l’«Africa dei postali», emigrati nelle colonie, al seguito della Posta militare: «una vita disagiata al di là del mare per raddrizzare quella in patria». Qualche traccia l’hanno lasciata anche gli antifascisti, licenziati (o emarginati) e riassunti soltanto dopo il ’45. I loro fascicoli, che ne documentano le biografie di “sovversivi”, quasi riecheggiano quelli del Casellario politico centrale della Pubblica Sicurezza.
Last but not least, studiare la «nazione degli impiegati», un «popolo senza ideologia», significa anche immergersi in quella «continuità dello Stato» così a lungo dibattuta fra gli storici. Quando andarono in pensione nei primi anni Cinquanta, diversi travet avevano alle spalle ben quattro giuramenti di fedeltà: al Regno di Vittorio Emanuele II, al fascismo, alla Rsi e alla Repubblica. Perché, alla fine, fra il bianco e il nero della storia d’Italia, è sempre il grigio – il colore più duttile – a prevalere.
(post di Raffaele Liucci)

Mario Coglitore, Il timbro e la penna. La «nazione» degli impiegati postali nella prima metà del Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2008.

Chiocciole: @@

Da regalare: a quello zelante funzionario che il sabato mattina vi grida nel citofono: "raccomandata!".

domenica 2 maggio 2010

I ricordi di Oz

L'infanzia ci dona uno sguardo speciale sul mondo. Conservare memoria di quello sguardo, e farlo diventare narrazione, è un dono altrettanto grande; soprattutto se quell’infanzia ha avuto la sorte di vivere in anni di grandi sconvolgimenti. Accade allora che la Storia improvvisamente si cristallizzi e riesca a parlare in modo distinto, a svelare almeno in parte il senso del suo svolgersi. La Gerusalemme negli anni della Seconda Guerra Mondiale, il protettorato inglese, il latente conflitto con il mondo arabo… questo è ciò che scorre davanti agli occhi del bambino di nome Amos Oz.
Sulla pagina si susseguono i quadri, ognuno conchiuso in sé stesso, che ci immergono in un'atmosfera di piccole cose quotidiane sulle quali alita appunto la Storia, con angosce sottili. Il bambino, divenuto adulto, racconta, fidandosi di una memoria sorprendente, metodica, geometrica nel procedere; costruisce piccole saghe concentriche, intersecanti fra loro, con l’effetto di una lieve eco narrativa che sa di epica, benché il nonno commerciante di stoffe non sia esattamente l’inclito Achille. D’altronde la loro vita godeva delle piccole fascinazioni del pioniere: questioni minime ma essenziali - come il dilemma se fosse sbagliato acquistare il formaggio arabo (p. 25) - erano lo specchio di una quotidianità anomala. Conosciamo bisnonni che troneggiano nel tempio della memoria familiare, e dunque non è un caso se l’andamento è quello dei racconti antichi, pare di leggere una genealogia biblica contemporanea, colorita e barocca. Eppure certa scrittura riesce a infischiarsene delle leggi fisiche più elementari e sa far levitare una massa enorme di parole.
Amos Oz è topograficamente minuzioso sino alla pedanteria nel descrivere la sua Gerusalemme, con dettagli lontani per chi non è israeliano. Si tratta però di un’immersione personalistica, intima, nulla a che vedere con il senso di missione evocato dalle parole dei ‘vecchi’, dell’erudito zio Yosef: «ora qui nella nostra terra abbiamo bisogno di una letteratura veramente nuova» (p. 80). Sulla necessità della militanza dello scrittore ha detto qualcosa anche Abraham Yehoshua, durante la conferenza tenuta a Roma il 27 marzo scorso. Esiste una prima generazione di scrittori israeliani ai quali era negata la possibilità di deviare dal sentiero dell’impegno a sostegno della causa nazionalistica, forzati a scrivere per la «nostra terra». Da quella posizione gradualmente si allontana la generazione nuova, quella di Oz e Yehoshua appunto, muovendo verso l’individuo, e non la comunità, verso il surreale, e non la complicata realtà.
Forse per questo ci troviamo di fronte quell'avvertimento, cinque pagine che sono in fondo la definizione dell’incontro tra la letteratura e le nostre anime di lettori (pp. 42-46). Il cattivo lettore cerca solo il fatto che “sta dietro”; chiede a quali verità, eventi, persone reali lo scrittore ha attinto; il cattivo lettore gratta la superficie per portare al vivo la concretezza, la realtà delle cose. Il buon lettore invece apre le braccia al fluire della narrazione e sente cosa quelle parole scritte vogliono dire per lui solo. Spesso, dice Oz, quelle parole ci rivelano qualcosa che preferiremmo non sapere. Tuttavia, nello stesso tempo, esse ci fanno sentire, nella nostra particolare e singolare intimità, anche parte di un tutto, di un’umanità condivisa: qualcuno ne è più consapevole, la vive, la percepisce in sé, la governa quasi; altri la subiscono, senza rendersene conto.
(Fine parte prima)
(Leggi la seconda parte)

Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2003.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: all'appassionato di alberi genealogici