lunedì 29 ottobre 2012

Del voltare pagina

Sarebbe un gran paradosso, dopo aver optato per un certo nome, non saper fare quel nel nome è sotteso, quando il momento lo richiede. Perché è ovvio che nel lontano giorno in cui il primo post apparve sotto la testata marina, l’idea primigenia era quella di richiamare l’atto semplice ed essenziale del lettore che, trascinato dalla trama o avvinto dallo stile, lascia libera la mano di ripetere il gesto dello sfogliare per una, dieci, mille volte, finché fine non ci separi. Insomma, di quello si trattava, di leggere i libri con occhio critico, di commentare le storie, di esplorare scaffali, di interrogare scrittori. Ma il senso metaforico stava lì, già allora, acquattato, a sogghignare fra sé, un po’ come fa – così me lo immagino – il gatto di Alice; ed era logico sarebbe prima o poi venuto a chiedere il conto, a far sentire la sua voce, a dire: “be’, vogliamo voltare pagina?”.
Il cambiamento è vita, impone di riflettere e valutare, ci impedisce di languire, assopirci, fossilizzarci. Ad un certo punto, in qualche modo, il cambiamento appunto chiama, ed eccoci qui a rispondere, o almeno a provarci. L’alternativa altrimenti sarebbe abbassare la saracinesca, ma schiavi di un naturale ottimismo, optiamo per rilanciare piuttosto che per rinunciare. Si comincia con qualche variazione nella grafica, che non è sostanza però è un segnale, anzi stimola, perché sarebbe triste fingere di cambiare camuffandosi dietro una ritinteggiata, e invece proseguire sui medesimi passi. Mi parrebbe furbetto, poco onesto, anche inutile. Modificati i colori, ampliamo perciò pure gli orizzonti, diamo seguito allo spunto.
Ne converrete, il momento storico lo richiede. Continuare a stare rintanati nel nostro cantuccio è una tentazione a tratti forte, ma oramai decisamente tacciabile di pavidezza, cecità, irresponsabile ritrosia. Ci siamo immersi nei libri per capire il mondo, ora è tempo di osservare il mondo per capire fino a che punto i libri avevano ragione. Ciò non significherà certo abbandonare le buone e care vecchie abitudini, oppure scordare i nostri intelligenti e preziosi collaboratori, andremo piuttosto ad amplificare la portata e in più direzioni. Si scriverà sempre di libri, ma non solo, diventando lettori esigenti della realtà oltre che delle pagine stampate. Aspettatevi nuove voci e considerazioni più ampie, speriamo spesso argute e mai pedanti. C’è di più. A voi che siete lettori esigenti, capiterà di certo di agguantare un’idea, di incappare in una riflessione che è un peccato non condividere. Questo potrebbe diventare il luogo adatto per farlo. Sottoponeteci allora i vostri appunti, le vostre parole in libertà, se vi pare che possano essere utili a leggere meglio il mondo. Così ci sarà modo, davvero, di voltare pagina.

sabato 4 agosto 2012

Vagabonde nel vento


Noi, in quanto esseri umani, siamo una specie imbarazzante. I nostri piccoli ci mettono mesi ad imparare quel minimo che serve per sopravvivere; qualunque banale virus ci costringe a letto per giorni; la minima variazione climatica ci fa soffrire e sbuffare come locomotive in salita. Se ci mettessimo in competizione con la gran parte degli altri animali, in una sorta di decathlon della natura, il nostro piazzamento sarebbe sicuramente più che modesto. Subiremmo invece una totale dèbacle nel caso ci venisse la malaugurata idea di sfidare il mondo vegetale; perché le piante, sì signori miei, le piante ci battono cento a zero.
Di questi concorrenti neppure ci accorgiamo, insensibili li calpestiamo, spezziamo, potiamo, spesso senza tributare loro nemmeno uno sguardo. L’invisibilità, il silenzio, sono altre doti misconosciute delle piante, altre caratteristiche che la gran parte di noi ignora, e che la gran parte di noi non si preoccupa minimamente di conoscere. Ed è un tragico peccato perché da ciò deriva il rischio di cancellare per sempre specie e varietà, in un sterminio di cui alla lunga potremmo tutti pagare le conseguenze. Fondamentale allora conoscere, in quanto «ad attentare alla biodiversità concorrono l’opera congiunta della distruzione per negligenza e della spoliazione per interesse, solo la conoscenza può opporsi a tale devastante combinato di ignoranza e mercificazione» (p. 5).
Gilles Clément ha scelto un modo intrigante per entrare in confidenza con il mondo vegetale, sa infatti raccontare una pianta come fosse una persona, ne fa un ritratto particolareggiato, collocandolo in un quadro più vasto e sempre più affascinante di quanto ci si aspetti; dove noi potremmo vedere solo qualche foglia, una corteccia, un fiore colorato, Clément scopre particolarissimi indizi da cui far discendere a cascata considerazioni e aneddoti. Penso alla panace di Mantegazzi, un ombrello enorme, che può arrivare a sette metri d’altezza, una pianta tanto curiosa quanto pericolosa. è tossica, provoca una fastidiosa dermatite che le è costata il bando da tanti giardini; nonostante ciò i Genesis le hanno dedicato una canzone, The Return of The Giant Hogweed, nell’album Nursery Cryme del 1971. Clément fa ancora di più, ha un reale atteggiamento di ammirazione per la panace, si inchina alla sua imponenza e alla sua forza infestante, masochisticamente invita a sottoporsi alla linfa urticante.
La sua passione sono le ‘vagabonde’. Ne è affascinato e riesce a trasmettere questa fascinazione, legata alla scoperta che «le piante viaggiano. Soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Niente è possibile contro il vento. Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess, le polvere fertili. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili» (p. 17). Dunque le piante si muovono, non come singolo esemplare ma come insieme di individui, ed è un insieme tenace e temerario, una carovana di pionieri in grado di affrontare qualsiasi avversità. Clément pensa al nostro pianeta come a un grande giardino, teatro di milioni di quotidiani incontri, di una vita frenetica e incontrollabile mai bloccata da confini definiti. Contro i ‘radicali dell’ecologia’, egli «vede nella molteplicità degli incontri e nella diversità degli esseri altrettante ricchezze apportate al territorio» (p. 18). In sostanza si tratta di accettare il fatto che lo spostamento e la conquista di nuovi spazi sono dinamiche naturali che implicano la vittoria di alcune specie e il soccombere di altre. Di certo ci può disorientare il parallelo con le migrazioni umane: «il mondo preoccupato grida all’invasione degli esseri venuti da luoghi lontani. Stranieri, piante, animali, come osate impadronirvi delle nostre terre?» (p. 101). Un bello spunto su cui riflettere. È pur vero che un’anima ecologica potrebbe vacillare, se posta di fronte all’amletica questione: il ginestrone recato dai colonizzatori britannici ha preso possesso della Nuova Zelanda, dovrà allora essere oggi sterminato, oppure sarà da considerare come uno dei tanti inevitabili cambiamenti all’interno del giardino terrestre? In fondo l’uomo è elemento che agisce sullo scenario così come fanno la pioggia e il vento; ne è parte integrante e determina con la sua presenza la maniera in cui il giardino cambia forma. Almeno, va da sé, finché un vero giardino ancora esisterà. La garanzia ce la può dare ancora una volta la conoscenza, perché dal conoscere viene il rispetto, anche per le piante.

Gilles Clément, Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, prefazione di Andrea Di Salvo, Roma, DeriveApprodi, 2010.

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: per consolare chi riesce a sterminare anche le piante grasse


mercoledì 13 giugno 2012

La vera schiavitù della donna


Una malsana tendenza al sacrificio segna la donna dei nostri tempi. In maniera più o meno conscia ella vive il proprio ruolo di moglie, madre, figlia o sorella, come fosse una sorta di necessario martirio. La prima conseguenza è che qualcosa nel suo intimo – un’idea, un’aspirazione, un desiderio – finisce sempre per essere immolato sull’altare della quotidianità coatta. È una schiavitù subdola, difficile da mettere a fuoco. In questi giorni di sensibilizzazione verso il problema della violenza sulla donna, ho trovato istruttivo leggere quanto raccontano due scrittrici italiane, molto diverse fra loro, che da prospettive in parte opposte si sono focalizzate su figure di donne che fanno un passo indietro rispetto alla vita, senza realizzare che quel passo, ripetuto giorno dopo giorno, le avvicina sempre più al ciglio di un abisso.
Le donne di cui racconta Rossella Milone in La memoria dei vivi emergono dalle pagine quali casi emblematici di un modus vivendi amaro, melanconico. Sono donne che la vita si diverte a sconfiggere, come se il loro martirio fosse una debolezza, una vigliaccheria tale da meritare una costante punizione. Lena, nel racconto Leucosia, acconsente ad affrontare faccia a faccia amici e colleghi di un tempo, segni vivi della sua rinuncia, giustificata anche – ma forse non solo – dalla dedizione verso Matteo, marito ora malato e non più autosufficiente. E proprio in quella prova decisiva Lena sente il peso della possibile sconfitta, dell’abbandono, quasi che il mondo disprezzasse la scelta nella quale ella ha segregato se stessa, credendo di fare la cosa più giusta. Grande il rischio di costruirsi una vita squilibrata, instabile, sempre sul punto di crollare. Niente di più inevitabile nel momento in cui rinuncia a sé e allunga le radici alla ricerca di un terreno saldo troppo distante da lei. In Le gioie dei morti, Silvana paga colpe non sue, giusto perché si fa abbindolare dalla sorella, perché non sa opporvisi, e allora crolla, balbetta, non è più lei, la sua anima svapora e la lascia muta, ad aspettare che accada quel che accade. Le atmosfere di tristezza, ­a tratti leggere e quasi dolci, sono la cosa migliore che Rossella Milone porta fuori dalla sua penna: letta l’ultima riga ci si guarda intorno, lievemente anestetizzati, tormentati dal dubbio che questo ‘male’, spesso taciuto, sia anche qui, vicino a noi.
Il piano su cui si muove Giuseppina Pieragostini è tutt’altro. L’ambiente domestico della Vendetta della Sepolta Viva è un luogo grottesco e surreale, o forse normalissimo in sé, ma sfigurato dal passaggio attraverso un filtro mentale che sa di follia. Nulla a che vedere con il pacato realismo di cui sopra, qui tutto è trasfigurato in una quotidianità che di normale ha solo i maniacali e ipnotici gesti della perpetuità casalinga. I personaggi sono ipercaratterizzati, estremi, e nel caso del marito così pessimi da risultare poco credibili. A portare avanti la trama una donna, Mariagiulia, che è l’esatta personificazione della frustrazione femminile: colei che poteva essere tutto e non arriva ad essere nulla, anzi finisce annullata dalla vita anonima in cui si lascia seppellire. Si sprecano allora le metafore funebri e il focolare finisce per assomigliare ad una cella. C’è un astio paradossale che serpeggia fra le righe e che vorrebbe fungere da exemplum della troppo frequente condizione femminile. Mariagiulia porta dentro di sé un’altra donna, il suo io potenziale, proiezione di quello che vorrebbe essere ma non sarà mai, il desiderio perennemente frustrato di realizzazione che porta tante donne a stare immobili persino quando non riescono a pensare ad altro che a fuggire.
Il pensiero che rimane, dopo le letture, è che paradossalmente la violenza peggiore sulle donne sia quella che le donne infliggono a se stesse. Che significa denunciare e marciare per fermare la violenza sulle donne? Si rischia di passare per lapalissiani, si rischia di sollevare un cartello alla vista del quale tutti applaudono ma nessuno davvero si muove. Un reale movimento sociale e culturale che possa scardinare questo deprecabile stato di cose si potrà realizzare non solo se verranno dati alle donne gli strumenti della loro emancipazione, ma soprattutto se le donne si convinceranno a farne uso, per il bene loro e di tutta la società. Uno dei modi migliori per far sì che ciò effettivamente accada, è spingere le donne a non rinunciare alle proprie aspirazioni, è educare alla realizzazione di sé piuttosto che alla soddisfazione di un paradigma patriarcale, evitando appunto di fare come Lena, Silvana o Mariagiulia, descritte nell’atto di compiere l’ennesimo passo indietro.

Rossella Milone, La memoria dei vivi, Torino, Einaudi, 2008.

Peccato per: l’uso insistito della locuzione affianco, inesistente in italiano.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: all'amica incerta fra famiglia e carriera


Giuseppina Pieragostini, La vendetta della Sepolta Viva di Rosaspina di Belvedere, Roma, Il caso e il vento, 2011.

Peccato per: il titolo che gioca a sfavore del romanzo.

Le mie chiocciole: @@

Da regalare: a chi prende l'economia domestica come una vocazione religiosa



mercoledì 23 maggio 2012

Ultime parole


Gli scrittori non sempre hanno i modi o l’aspetto degli artisti. Alcuni assomigliano a dei ragionieri: sono molto metodici, dediti alla scrittura come fosse una qualunque attività lavorativa; altri sembrano dei vacanzieri, che scrivono per hobby, nei ritagli di tempo o dell’anno; altri ancora dei psicoanalisti, che scaricano tutto sulla carta, per poi vivere liberi e non pensarci più. Chissà quante categorie diverse troveremmo, mettendoci con un po’ di impegno. Si tratta di categorie tutte rispettabilissime, va detto, perché non c’è nessuna legge che imponga ad uno scrittore di attenersi ad un preciso cliché comportamentale. Ogni scrittore è libero di vivere come crede; diciamo che quello che conta sono i suoi libri, non come li scrive. Però ci sono i lettori, e i lettori, si sa, non possono che fantasticare. Fanno quell’operazione truffaldina di trasferire sull’autore le caratteristiche delle sue opere, dei suoi personaggi; oppure di credere che il disporre con maestria le parole sulla pagina sia un dono concesso obbligatoriamente ad un’anima eletta. Il risultato è la mitizzazione: si immaginano i propri scrittori preferiti come degli artisti, degli uomini pervasi dalla loro arte, la cui vita è posseduta e dipende in tutto e per tutto dall’arte. Qualsiasi loro gesto, qualsiasi parola dovrà allora presentarsi come frutto del sacro furore creativo. Persino la lista della spesa, scritta da loro, sarà un memorabile autografo, figuriamoci documenti di maggiore importanza, come, ad esempio, il testamento, il capitolo letterario estremo di una vita. Quale migliore occasione per apprezzare i veri scrittori, verrebbe da pensare.
In coda alle tante manifestazioni in ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia, fra febbraio e aprile del 2012 si è tenuta una mostra, presso l’Archivio Storico Capitolino a Roma, dedicata ai testamenti di alcuni “grandi italiani”, fra i quali ovviamente non mancavano gli scrittori. Mi sono quindi dilettato nella pratica feticistica di leggere le loro ultime parole, sperando in un’adeguata soddisfazione letteraria. Era una pretesa tutta mia, me ne rendo conto, ma i lettori sono fatti così. Manzoni, com’era attento alle faccende economiche riguardanti le sue opere – è notorio quanto soffrisse delle edizioni clandestine dei Promessi sposi –, così scelse di redigere un testamento che pare uscito fresco fresco da uno studio di notaio, pieno di postille e subordinate, articolato e rigoroso, insomma una delusione. Le cose non migliorano di molto con Giuseppe Gioachino Belli né con Giovanni Verga, Giovanni Pascoli o Antonio Fogazzaro, anche se per quest’ultimo vale la pena rilevare l’incipit, commovente, nel quale perdona chi gli «disse ingiuria» a causa delle sue idee religiose da cattolico progressista (i suoi libri finirono all’Indice). Hic manebimus optime: il buon D’Annunzio, solenne e latinista, si riconosce anche nel testamento, cita il «fratello d’Armi e compagno mio fedele Benito Mussolini» e si preoccupa della gestione delle sue opere (non so come interpretare il fatto che ad un certo punto esse siano giunte nelle mani di Silvio Berlusconi tramite la Mondadori: una seconda beffa della Storia?). Neppure Grazia Deledda ci diletta più che tanto, nonostante il suo Nobel, e a quel punto la frustrazione ha quasi avuto la meglio. Sennonché arriva una penna da Girgenti che racconta la sua morte in punti, un elenco che poteva essere freddo e desolato, e invece risuona come una poesia. Ecco, mi sono detto, dopo tanto cercare, ho finalmente trovato. Il mio capriccio di lettore si è acquietato. Non so come andò davvero, però sarebbe bello che così fosse stato il suo addio:
Mie ultime volontà da rispettare
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera di non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.
Luigi Pirandello

Foto: Agrigento © Stefano Liboni