venerdì 31 dicembre 2010

Chiocciola bianca 2010

Affidandosi alla sua proverbiale lentezza, arriva puntuale in chiusura d'anno la chiocciola bianca, per assegnare il nostro premio annuale, attesissimo benché frutto di un divertissement senza impegno, motivato solamente dal gusto di risfogliare alcune delle pagine lette nel corso degli ultimi dodici mesi. Prima però di dare i titoli dei cinque libri che più ci sono piaciuti quest'anno, approfittiamo per qualche anticipazione su cosa vi aspetta dietro l'angolo (tranquilli, niente di astrologico).
Il gruppo dei collaboratori andrà a infoltirsi con due nuovi amici: Gabriele Maiolo - che inaugurerà la rubrica Bookends, dedicata ai libri che girano attorno alla musica - e Tommaso Codignola, pronto a discettare di quesiti ultimi e raffinata filosofia nella rubrica Va' pensiero. E' in via di definizione, ma pare cosa fatta, l'avvio di una presenza radiofonica del VoltaPagine: si tratterà di un appuntamento fisso di chiacchiere sui libri e sulla lettura, una sorta di appendice sonora ai nostri post, ospitata in una radio ascoltabile sulle classiche onde medie e anche via internet.
Veniamo allora ai titoli selezionati per il 2010, lasciando per ultimo il vincitore, così da non perdere la suspence:
- al 5° posto Il grande vecchio di Gianni Barbacetto, un vademecum indispensabile per tentare di sbrogliare, almeno nella nostra memoria, le matasse più oscure della recente storia italiana;
- al 4° posto Litania di un arbitro di Thomas Brussig che dimostra come si possa scrivere di calcio da una prospettiva inattesa, nascondendo fra le righe una piccola tragedia umana;
- al 3° posto Soffocare di Chuck Palahniuk, perché dovremmo sempre ringraziare i personaggi dei libri che sconvolgono la nostra idea di vita 'normale';
- al 2° posto Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz, l'affresco negli occhi di un bambino che è già scrittore, e vede tutto e sente tutto con un'intensità fuori dal comune;
- e infine la chiocciola bianca per il 2010 va alla trilogia marsigliese di Jean-Claud Izzo, un'immersione nei bassifondi della vita, correndo sempre sull'orlo del baratro con la musica di strada a farci compagnia.
Buone letture a tutti!

Foto: La chiocciola e la lavanda © Paolo Bertinetto

domenica 26 dicembre 2010

Milano Due: all'alba di un mondo nuovo

Questa raccolta di Massimo Fini si apre con un articolo che, da solo, vale il prezzo del libro. Siamo all’alba degli anni Ottanta e Fini, a quel tempo inviato del «Giorno», firma un reportage su Milano Due, diecimila residenti, il nuovo quartiere satellite edificato, a partire dal 1970, da un imprenditore rampante, tale Silvio Berlusconi. I dépliant lo decantano come un borgo modello, a misura d’uomo, pieno di verde, dove i bambini possono giocare in strada senza il timore di brutti incontri. In realtà, è soltanto un quartiere dormitorio, atomizzato e privo di vita sociale. Chi vi abita esce al mattino presto, per andare a lavorare a Milano, e vi ritorna quando è già buio. Un luogo (un «non luogo», diremmo oggi) tristissimo.
Tutto, a Milano Due, è talmente perfetto e razionalizzato da sembrare finto, come in quei plastici realizzati dai costruttori edili per smerciare meglio il loro prodotto virtuale. Le boutique di lusso, i parrucchieri e i bar, sempre deserti, i pini e le betulle, gli ampi manti erbosi, i campi da tennis e quelli da calcio, il laghetto con i cigni, le aiuole fiorite e i vialetti coperti di ghiaia. Non esistono edicole o librerie, ma soltanto due cartolibrerie, che vendono qualche quotidiano, mentre i pochi libri ingialliscono in un angolo dove nessuno posa gli occhi. Le case sono attrezzate con biblioteche minuscole, se raffrontate allo status economico dei proprietari, ove primeggiano soprattutto le enciclopedie e quei volumi soprammobile «molto ben rilegati, ma dal contenuto inesistente». Nessuno organizza attività culturali (teatro, musica, incontri), a Milano Due, e nessuno, ovviamente, parla mai di politica. I suoi residenti sembrano nutrire un solo interesse, il denaro, proprio e altrui: «Ho sentito parlare più di denaro qui che a Gratosoglio dove non ce n’è. Lo status symbol e l’emulazione sono eletti a regola di vita».
I giovani, racconta un professore, sono arroganti e presuntuosi: «Credono di essere chi sa che, di poter sempre pretendere e che tutti debbano essere sempre al loro servizio». Del resto, sono nati e vissuti soltanto in questo quartiere chiuso, serviti e riveriti dai genitori, e il mondo esterno lo conoscono esclusivamente attraverso la televisione. «Per loro tutto è dovuto», aggiunge un barista, «e tutto si compra col denaro. E se qualcuno strappa una piantina e gli fa un’osservazione, risponde: paga papà».
E la spiritualità? C’è una chiesa a Milano 2. All’inizio era una piccola cappella. Vista da fuori, con la sua porta a vetri, sembrava un negozio. All’interno, l’impiantito era occupato da una trentina di sedie trasparenti in plexiglas, allineate davanti ad un tavolino. Nel corridoio fra le sedie spiccava un carrello a tre piani, simile a quello che utilizzano i camerieri per servire i liquori: «Non so da che cosa mi resi conto, forse da un crocifisso, che quella era una chiesa». Qualche anno più tardi, quella cappella è stata sostituita da un imponente monoblocco di cemento, algido, avveniristico, aggressivo: «Premo un pulsante. La porta si apre su un’ampia stanza arredata con mobili tipo ufficio. Un perfetto esemplare di manager mi viene incontro. È un uomo alto e magro, in un completo grigio molto elegante, i capelli bianchi pettinati con cura all’indietro, i gesti misurati e precisi, l’atteggiamento freddo, gelido direi. È don Ruggero, parrocco di Milano Due».
Neppure la morte ha mai violato la ‘tranquillità’ di questo ghetto dorato. Nessuno, nella storia di Milano Due, ha assistito ad un funerale. Spiega il direttore dello Sporting (un costosissimo club sportivo privato), cui è morto di recente il suocero: «Si porta la salma in chiesa in fretta e di nascosto. Il prete fa la sua funzione, con tutti i crismi. Poi si va direttamente al cimitero di Segrate, senza corteo. Qui non ci sono le strutture, la bara deve uscire da certe porticine laterali perché la chiesa non ha un’entrata centrale. Un funerale sarebbe imbarazzante».
Avesse vergato in vita sua soltanto quest’articolo dolente ed escatologico, Massimo Fini meriterebbe lo stesso d’entrare nel pantheon del giornalismo italiano del Novecento.
(post di Raffaele Liucci)

Massimo Fini, Senz'anima. Italia 1980-2010, Milano, Chiarelettere, 2010.

Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al pensionato che lancia la mollica ai cigni.

domenica 19 dicembre 2010

Le rivoluzioni del libro

Siamo alle soglie di una rivoluzione. Benché il nostro modo di leggere sia andato progressivamente cambiando nel corso dell'ultimo decennio - in conseguenza dell'aumento esponenziale del tempo dedicato alla lettura on-line - vedo in questo scampolo di 2010 il momento chiave della trasformazione del libro. In fondo il precedente snodo di questa millenaria storia si può anch'esso individuare con precisione: l'anno in cui Johann Gutenberg perfezionò la stampa a caratteri mobili. Quel 1455 segna un passaggio affine a quello cui ora stiamo assistendo. Quanta resistenza, quanto disprezzo si registrò verso il libro a stampa, creato in tante copie, stampato su carta, impresso da un torchio e quindi privo del fascino dato dal tocco artigiano della mano umana. Non si osava neppure porlo a confronto con il manoscritto in pergamena, rubricato con i pié di mosca, abbellito di iniziali calligrafiche, con miniature che erano piccoli quadri... figuriamoci! Le voci, oggi, potrebbero essere le stesse; e la cosa fa pensare.
Il prossimo Natale sarà un banco di prova per l'e-book, anche se non come oggetto in sé. Le vere rivoluzioni infatti, almeno in ambito tecnologico, non sono tali finché non abbracciano un aspetto economico. Già dodici anni fa erano apparsi i primi apparecchi di lettura elettronica (in particolare il Rocket ebook della Sony), ma fu un'effimera bolla. Il tempo non era maturo, e soprattutto non vi si intravide il business (la differenza sta tutta lì). Ora lo scenario prospetta grandi guadagni, col risultato che si assiste alle prime battaglie commerciali. Tab Galaxy, Nook, Kindle, iPad, aggeggi concorrenti spuntano come funghi, alcuni sono puri lettori di e-book, altri sono strumenti più versatili. Con Kindle (il lettore di Amazon) si è divertito a giocare Hans Magnus Enzensberger, trovandoci qualche difetto, ma non potendo esimersi dal riconoscere in esso una notevole forza, appunto rivoluzionaria.
L'e-book è un libro, non dimentichiamolo; pur senza essere scritto a mano, sebbene non esca da una tipografia, è un libro. Il mercato si adegua, si trasforma, lo studia per coglierne le potenzialità nuove; nascono così le librerie dedicate (Edigita, Book Republic, Simplicissimus) molto simili alle normali librerie on-line, e si apre la caccia alle soluzioni innovative. Un caso peculiare può essere quello della versione digitale di Alice nel paese delle meraviglie realizzata da Atomic Antelope, dove il lato ludico diviene quasi preponderante. Ma cosa dovrebbe essere la lettura se non divertimento? Editoria e mondo dei videogiochi si toccano sempre più spesso, come ha di recente rilevato Marcus du Sautoy. Ma il pericolo maggiore è quello: giochicchiare. L'e-book possiede i mezzi per distrarci dalla lettura, mentre la lettura dovrebbe essere pura astrazione dal mondo. Siamo di fronte a un paradosso: lo strumento ostacola il raggiungimento del fine per cui è stato prodotto.
A favore del libro cartaceo ho sostenuto il valore della sua multimedialità interiore, la sua capacità di svanire fra le mani, di diventare immateriale mentre ci conduce in altri mondi, siamo sempre lì, affossati in quella vecchia poltrona, eppure siamo lontanissimi, più lontani di quanto ci possa spingere una radio o un televisore. Credo sia anche per questo che Umberto Eco non abbia avuto tentennamenti nell'affermare che non riusciremo a liberarci dai libri. Tuttavia mi rimane il dubbio se ciò basterà a frenare il nuovo che avanza. Ho l'impressione che persino i lettori, esseri fisicamente impigriti per mandato naturale, potrebbero presto abbandonare la loro vecchia poltrona. Sarebbe una gran rivoluzione.

domenica 12 dicembre 2010

Perdersi attraversando la strada

A suo tempo avevo fatto scudo alla diffidenza che si andava armando contro internet, sostenendo che una strada non ha colpe. Internet è in effetti un dedalo di strade, fitte e aggrovigliate, che possono condurre a infinite destinazioni, alcune delle quali oggettivamente poco raccomandabili. Addossare però alla strada la colpa della destinazione era un evidente errore di misura sul bersaglio. La strada, di per sé, è un mezzo per raggiungere qualcosa che esiste o esisterà, come si può pensare ne sia la causa generante? Questo pensavo, finché le cose sono cambiate.
Circa un anno fa c’è stato un momento di forte opposizione a internet, con esternazioni approssimative e guastate da evidente incompetenza, sia sui giornali sia in televisione (se ne dava un critico resoconto ad esempio qui). Si tendeva, come spesso accade, a far confluire tutto in un pentolone di materia indistinta e maleodorante, operazione che non risulta mai sensata né soddisfacente. Tuttavia ciò permise di far emergere una considerazione nuova, non più evitabile: internet è una via di comunicazione così vasta e invasiva da modificare definitivamente il paesaggio che le sta attorno, ha la capacità non solo di permettere di accedere ad un luogo, ma persino di cambiarne la fisionomia. Fuor di metafora, è evidente come la Rete sia uno strumento che nelle possibilità che offre produce rivoluzioni con le quali bisogna fare i conti, prima che esse siano definitivamente libere dal nostro controllo. 
Sweet sixteen è l'esempio di una possibile interpretazione letteraria del fenomeno, benché abbia l'aspetto dell'inchiesta più che del romanzo, in quanto ricostruisce una vicenda immaginaria che si fonda sul potere della Rete, sulla forza di penetrazione di un mezzo che, proprio in virtù di essa, riesce a trasformarsi in un fine esistenziale, una sorta di clicco ergo sum. I giovani, vale a dire i 'rivoluzionari' per antonomasia, nel XXI secolo dispongono di una strada che non è più semplicemente una via di fuga, ma è un luogo in cui stare, per sempre, senza doversi muovere di un millimetro. Sennonché ad un certo punto questa evasione virtuale, per un qualche inspiegabile meccanismo – reale o metaforico, chissà –, smette d'essere solo virtuale e, raggiunto il fatidico limite, l’età simbolica dei sedici anni, gli adolescenti lasciano il mondo degli adulti.
Un racconto a tema per Birgit Vanderbeke, che sceglie uno stile da cronaca giornalistica, lontano dal cuore dei personaggi, forse volutamente accentuando l'idea di un meccanismo tecnologico inarrestabile come è quello che governa la Rete nelle sue nuove forme, dal già dimenticato Second Life agli attuali differenti social network. Purtroppo la fedeltà al tema nuoce al suo lato narrativo, rendendolo poco pregnante, di lettura rapida a tratti insensibile, puntando con fretta ad una fine che non ci sarà, affogata in un enorme punto di domanda. Da esso emerge concreto il dubbio se davvero il potere dei giovani d'oggi stia non nel farsi sentire, ma nel rendersi silenziosi fino a scomparire.

Birgit Vanderbeke, Sweet Sixteen, Cosenza - Bracciano, Del Vecchio, 2008.

Le mie chiocciole: @

Da regalare: a chi sospettate abbia una seconda vita virtuale