martedì 24 gennaio 2012

Assi del fantasy


I libri nati da giochi di ruolo rischiano di essere scontati: quando, tuttavia, i giocatori si chiamano Robert Zelazny, Melinda Snodgrass, George Martin (per non citarne che alcuni), si può confidare nel risultato. La serie delle Wild Cards si basa su un principio ucronico molto semplice: cosa accade quando, nel 1946, un virus alieno sparso su New York provoca mutazioni casuali, diverse in ogni individuo? Risposta: la maggior parte della popolazione contaminata muore, e buona parte dei sopravvissuti pesca un “Joker”, ritrovandosi a dover fare i conti con deformazioni, talora disgustose, talora solo stravaganti. Alcuni, però, sono fortunati abbastanza da pescare un asso, e ottengono così superpoteri, ovviamente distinti secondo le caratteristiche di ognuno. Vi ricorda qualcosa? Gli X-Men, magari? Sarebbe strano se non lo facesse... tuttavia, lo stile è molto diverso. Prova ne sia che il dottor Tachyon, equivalente del professor Xavier, è descritto da uno sbalordito militare con queste parole: «quel tizio si vestiva come un parrucchiere gay, ma dal modo in cui impartiva gli ordini avresti detto che portava almeno tre stellette».
Il primo libro della serie, più che un vero romanzo, è costituito da un insieme di racconti, quasi al livello di quadri, che presentano alcuni dei “nostri eroi” alle prese con i nuovi poteri. Tuttavia, i personaggi restano molto umani... non privi di difetti, paure, e perfino disturbi mentali o attività criminali. La vita è dura, anche per gli Assi. Dopotutto, il mondo si sta abituando alla nuova situazione e il dopoguerra non è il momento adatto per certi bruschi cambiamenti. E proprio come nella realtà – e negli X-Men – c'è sempre qualche politico che alimenta paura e ignoranza a suo vantaggio. Forse proprio quest'aria di “realtà” contribuisce a farci appassionare al destino dei personaggi. Per alcuni si tiferà, alcuni ci faranno piangere (fazzoletti a portata di mano, mi raccomando) e alcuni ci renderanno donchisciotteschi, non nell'accezione corrente, ma secondo la seguente descrizione di Cervantes dell'atteggiamento del Mancese: «quanto a quel traditore di Gano di Maganza, pur di poterlo pigliare a calci, avrebbe dato la governante, con l'aggiunta della nipote».
Inevitabilmente ci si troverà anche a giocare insieme agli autori, creandosi un personaggio ad hoc o chiedendosi quale, fra quelli presenti nei libri, più rispecchi la propria personalità – o possieda i poteri preferiti. Terminato il primo volume, per così dire introduttivo all'universo Wildcards, non si riuscirà a fermarsi. Purtroppo, al momento è stato pubblicato in Italia solo un altro romanzo della serie che in America conta numerosi volumi – e se leggete l'inglese potreste volerli considerare. In caso contrario, dovrete limitarvi a seguire l'Invasione, come promette il titolo del secondo libro. Questo è un vero romanzo: nonostante prosegua la pluralità di autori, l'incastro è tale da evitare il senso di scollamento che portava a considerare il primo un libro di racconti.
Alcuni personaggi del primo volume tornano ­– non tutti, ma a mio avviso i migliori –, mostrandoci nuovi e talvolta inattesi aspetti del loro carattere. Il vero punto di forza del libro è la capacità di offrirci una panoramica dell'universo Wild Cards. Se il precedente volume si limitava ad impostare le linee guida dell'ucronia, questo ci presenta altri alieni (oltre l'indimenticabile Dr. Tachyon) e le loro rispettive culture. Inoltre, ha una parte maggiore l'aspetto tecnologico-fantascientifico, terrestre e non, ivi compreso «un sistema di attacco difensivo problematico e che si vergogna» che ispira nel lettore un sorprendente grado di empatia. Affascinante anche, come in tutte le migliori ucronie, la capacità di allusione alla storia con la S maiuscola. Menzione speciale al personaggio Mark Meadows, creato da Melinda Snodgrass, rappresentante perfetto – nonostante gli effetti del virus Wild Cards – della gioventù degli anni '70.
Si percepisce a tratti l'atmosfera ludica in cui è nato il romanzo, dal momento che il prodotto finale, per quanto ben scritto, indulge in volute citazioni di alcuni topoi fantastici e fantascientifici, che a tratti lo fanno assomigliare vagamente ad una puntata di Voyager (programma su cui ammetto di condividere il giudizio di Maurizio Crozza). Rintracciare le citazioni – da fumetti principalmente, ma anche da testi di tutti i generi – potrebbe, anzi, diventare una sfida o un gioco per il lettore, dal momento che esse abbondano in entrambi i libri.
L'unica cosa che si fa desiderare è qualche particolare in più sui numerosi Assi coinvolti nella lotta all'invasione eponima e assenti nel primo volume. Probabilmente però, un serio appassionato di supereroi Marvel, quale non mi posso vantare di essere, riconoscerebbe immediatamente il modello di ciascuno. Dunque se non avete dimenticato il piacere di leggere un certo tipo di storie, ci sono due ottimi volumi che vi aspettano.
P.S. Se avete la pay-tv e avete deciso di guardare Il Trono di Spade, tratto dal primo di una serie di romanzi di George Martin, due consigli da amica: preparatevi a guardare tutte le stagioni successive, perché se vale la metà dei libri vi darà dipendenza; e soprattutto, anche se sarà impossibile... Non. Affezionatevi. A. Nessuno. Per il bene del vostro apparato cardiovascolare.
(post di Elena Piatti)

George R. R. Martin, Wild Cards. L'origine, Milano, Rizzoli, 2010
George R. R. Martin, Wild Cards. Invasione, Milano, Rizzoli, 2010

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: all'amico cresciuto a pane e fumetti Marvel

mercoledì 18 gennaio 2012

Per provare a capirci qualcosa

«...tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari...». Due anni fa litigavo al telefono con un amico riguardo le effettive possibilità d’incidere positivamente (di ‘incisioni’ negative quante se ne vuole) nella vita dei ragazzi per un(’)insegnante decente che, per definizione, è portatore di un sistema di valori minoritario in seno alla società e in confronto ai grandi media (pubblicità incluse). Valori che – non tutti, diciamolo – sono proprio necessari alla formazione di un cittadino consapevole. Io mi battevo per il , lui ostinatamente per il no e, a sostegno della sua tesi, mi invitò a leggere questo libro.
Leggendolo sono rimasta della mia idea e l’ho rafforzata. Ma andiamo con ordine: di cosa si parla in I barbari? Nientepopodimenoché della mutazione culturale in atto nel mondo occidentale a partire, grossomodo, dal dopoguerra. Ora, Baricco può anche non piacere: è antipatico e i suoi romanzi, in alcuni, ispirano il lancio sul muro non oltre la decima riga, ma questo volume – una raccolta di articoli usciti su «Repubblica» fra maggio e ottobre 2006 – non si può non trovarlo molto interessante – anche non condividendone tesi e impostazione.
È norma parlare di questa mutazione culturale occupandosi di singoli aspetti, di evenienze isolate: grandi librerie, fast-food, reality show, politica in televisione, ragazzini che non leggono, ecc. Baricco invece propone un’analisi organica e approfondita, con lo scopo dichiarato di scuotere chi di dovere – politici, artisti, insegnanti, custodi della cultura, divulgatori, ma anche semplici cittadini – dalla superificialità delle chiacchiere da bar, dalla paralisi, dall’isolamento, dalla tentazione di erigere muraglie che a nulla servono e sono mai servite (se non a dare l’illusione a chi le erige di salvaguardare la propria identità), per cercare di «decidere cosa del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo (...) I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo sentire ancora pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione...».
Baricco ha un’opinione precisa sia di quali siano i tratti distintivi della mutazione sia delle sue cause, e sceglie un  metodo di presentazione delle sue tesi che sembra seguire i passi classici del metodo scientifico: osservazione, stesura di una tesi provvisoria, verifica sperimentale (mediante esperimenti mentali: vale!) e – a seguito della conferma sperimentale – sistemazione della tesi stessa e suo utilizzo per interpretare altri fenomeni. Il saggio è suddiviso in: Inizio; Epigrafi; Saccheggi (effetti ‘visibili’ della mutazione e modus operandi dei barbari. In particolare riguardo: vini, calcio e libri. Se e come è mutato il concetto di qualità, in particolare in relazione alla commercializzazione); Respirare con le branchie di Google (Google come summa del sistema valoriale dei barbari; ritratto dei mutanti e delle loro caratteristiche principali; come sono mutati i concetti di idea e di esperienza); Perdere l’anima (genesi storico sociale della mutazione; nascita e morte dei ‘valori’ borghesi); Ritratti (i barbari a confronto con: spettacolarità, nostalgia, passato, democrazia, autenticità, educazione); Epilogo.
Alcuni degli aspetti della mutazione che non possono essere liquidati con uno storcer di bocca: smettere di considerare la fatica un valore in sé, piuttosto che un mero effetto collaterale dell’impegno, del perseguire un obiettivo che ci sta a cuore; riconsiderare il rapporto piacere-fatica; smettere di avvertire l’esigenza di concetti quali l’anima o la spiritualità [magari...]; prestare maggiore attenzione al processo che al prodotto; spostare l’attenzione dall’artista – in senso lato – al fruitore (molto interessante considerare questo spostamento in seno alla didattica: sono 40 anni che se ne parla ma alcuni insegnanti ancora non se ne sono accorti!); cercare correlazioni fra cose e concetti piuttosto che ambire a specializzarsi in un unico ambito; «...insegu[ir]e il senso là dov’è vivo...».
«È il paradosso che denunciano gli sguardi smarriti dei ragazzi a scuola: hanno bisogno di senso, di semplice senso della vita, e sono disposti anche ad ammettere che Dante, per dire, glielo fornirebbe: ma se il cammino da fare è così lungo, e così faticoso, e così poco congeniale alle loro abilità, chi gli assicura che non moriranno per strada, senza arrivare mai alla meta...?». Chi trova una risposta facile alla domanda precedente, non si rende conto della portata dell’intera faccenda...
La scuola è infatti uno degli attori della battaglia culturale in atto e non può e non deve tirarsi indietro rispetto al proprio compito. Compito che consiste, come per gli altri attori, nel determinare quali fra le istanze del ‘nemico’ accogliere, su quali cercare una mediazione, quali rifiutare sdegnosamente. Esponenti di rilievo della ricerca in didattica (della matematica, almeno) non fanno che confrontarsi su queste questioni. E alcuni senza neanche averlo letto, il saggio di Baricco.
(post di Alessandra Angelucci)

Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano, Feltrinelli, 2008

Le mie chiocciole: @@@@

Da regalare: a tutti coloro che non si chiamano fuori

venerdì 6 gennaio 2012

Il vincitore che non ti aspetti

Einstein ha ispirato tutti, nella recensione doppia in collaborazione con il Piccolo Festival della Letteratura, nume tutelare persino del biliardo.

Dice già molto, sull'uso del biliardo come metafora per la vita, la citazione di Albert Einstein che apre il romanzo di Di Grazia e Villari: il panno verde è la scenografia di uno sport, più ancora che di un gioco, in cui ne va della nostra postura corporea, logica, estetica; «arte suprema dell'anticipazione», il biliardo richiede una buona condizione fisica, una capacità di ragionamento degna di uno scacchista e un tocco simile a quello del pianista da concerto.
Poker e Bico sperano, credono, cercano e a tratti fanno finta di essere amici: entrambi senza prospettiva, senza lavoro, senza amore, si incontrano di fronte all'ennesimo rifiuto da ingoiare – quello di un piccolo editore romano. Aspiranti scrittori, vivono di espedienti – più o meno leciti. Se diventeranno veramente amici, lo deciderà l'avventura in cui decidono di imbarcarsi: la ricerca di Paolo Saturno, lo sconosciuto venuto dalla Calabria, che nel 1976 vinse il Mondiale di biliardo a Tangeri, sconfiggendo il pluridecorato campione argentino Mosquera. Dopo quella vittoria, ottenuta grazie ad un colpo mai più ripetuto, l'«ottavina» che dà il titolo al romanzo, l'uomo scompare e non viene più rintracciato. Dato per morto per più di trent'anni, potrebbe invece essere vivo: pare che qualcuno abbia ripetuto quel colpo inimitabile sul panno verde di un locale di Almerìa, in Spagna. Poker e Bico decidono che, se una possibilità di riscatto c'è, non può che passare per questa labile traccia: ritrovare quell'uomo e raccontarne la storia sarà la loro salvezza – o la loro sconfitta definitiva.
L'ottavina di Dio è un rincorrersi di colpi di scena, un florilegio di citazioni pop in cui trovano ospitalità Guccini, De Andrè, Sergio Leone e Tex Willer. Il linguaggio è piegato al ritmo, dettato a sua volta da una serie incalzante di battute e giochi di parole che ricordano gli «spaghetti western» di Bud Spencer e Terence Hill, più che i densi, lunghi silenzi di Lee Van Cleef e Clint Eastwood. Un'ironia che strappa qualche sorriso, anche se a tratti risulta sovrabbondante e toglie leggerezza alla costruzione del racconto. Ingombrante assenza, Paolo Saturno, motore immobile della vicenda, tiene il lettore incollato alle pagine, fino all'ultima, per capire se sia vivo. E – eventualmente – perché abbia vissuto nell'ombra per trent'anni.
Il «fumetto western» di Villari e Di Grazia sa raccontarci, tra le righe di un'avventura rocambolesca, le difficoltà della vita postmoderna, tra crisi del lavoro, arte dell'espediente e assenza di un ideale che faccia da stella polare. Ecco che allora il biliardo diventa la metafora della nostra capacità – e necessità – di saper immaginare colpi inediti, mosse impensate per trasformare un mistero da appassionati nell'idea di un riscatto possibile, per tutti. E fare i conti con se stessi, il proprio passato e il proprio futuro.

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Bico e Poker, due giovani pseudo-creativi e un po’ spiantati, sono i soggetti ideali per lasciarsi irretire da una caccia all’uomo che evoca allettanti prospettive. Si tratta di mettersi sulle tracce di un misterioso giocatore di biliardo, un campione per una notte – arrivato dal nulla eppure in grado di stendere il pluripremiato detentore del titolo – poi scomparso, almeno in apparenza, dalla faccia della terra. La ricerca si presenta fin da subito non semplice e inevitabilmente assume i contorni di una sfida: bisogna diventare uomini per muoversi da un paese all’altro senza farsi truffare di continuo; per affrontare vis-à-vis i poco raccomandabili personaggi che abitano le sale da biliardo; per imparare che la vittoria sul panno verde non si conquista solo grazie a precise geometrie imposte alle biglie; per mantenersi in equilibrio a fronte delle lusinghe di affascinanti donne tutte lustrini e doppi giochi. Un viaggio di formazione dunque per i due protagonisti che si alternano nel ruolo di voce guida del racconto, per la verità con toni e stili che avremmo voluto maggiormente distinti e caratterizzanti, ovviando in parte al fatto che le passioni che muovono i loro cuori emergono di rado, risultano spesso latitanti nell’incalzarsi degli eventi, mentre è quanto sarebbe più servito per dare spessore alla narrazione.
C’è parecchia poesia invece negli aforismi del “Francese”, nonno di Bico, che scandiscono i cambi di capitolo e spiegano quale battaglia psicologica si nasconda dietro all’incrocio delle stecche e degli sguardi, quando le biglie corrono. L’avversario va tenuto sotto tiro in ogni istante, persino spaventato se non deriso: «tutti hanno qualcosa di moscio» dice il Francese «io ho la erre, e tu?» (p. 217). I momenti più avvincenti non è un caso pertengano alle partite giocate o evocate lungo la storia, è lì che meglio si apprezza quanto diceva, pensate un po’, Albert Einstein: «Il biliardo costituisce l'arte suprema dell'anticipazione. Non si tratta affatto di un gioco, ma di uno sport artistico completo che necessita, oltre che di buona condizione fisica, del ragionamento logico del giocatore di scacchi e del tocco del pianista da concerto». Come non sentirsi partecipi della gioia di accarezzare la vittoria, di sentirla cedere sotto al nostro tocco, di accorgersi come pian piano essa si conceda al nostro possesso? E ha di nuovo ragione il Francese: «Chi non ha mai eseguito un cinque sponde di calcio sul rosso non conosce la sensazione inebriante di essere Dio per un momento» (p. 231).
Una storia che avrebbe meritato uno stile meno scarno, qualche picco narrativo in più, tralasciando magari certi dialoghi da banco di bar, come le digressioni musicali sui Genesis dopo Peter Gabriel o su Shine on your crazy diamond. L’ottavina di Dio è un colpo leggendario, da maestri, otto sponde che danno la vittoria ma condannano all’esilio il misterioso Paolo Saturno. Di certi inattesi coup de théâtre, nel romanzo, si sente un po’ la mancanza.
(post del VoltaPagine)

Marco Di Grazia – Francesco Villari, L’ottavina di Dio, Reggio Calabria, Città del Sole, 2009

Le mie chiocciole: @

Da regalare: a chi vi deve una rivincita