sabato 26 giugno 2010

Cosa pensa Gadda della Padania

I classici sono tali perché non ci parlano del passato, ma del tempo in cui viviamo. Per esempio, La cognizione del dolore di Gadda (uscito per la prima volta in volume nel 1963, dopo una lunghissima gestazione iniziata almeno un quarto di secolo prima) è uno straordinario prontuario dell’ideologia brianzola che amministra da tre lustri il nostro paese. Il lettore odierno non potrebbe infatti restare indifferente di fronte al clima di gioioso e brulicante sfacelo che permea ogni sua pagina. Gadda, come è noto, ambientò questo romanzo in un’immaginaria landa del Sud America, fra il ’25 e il ’33, che in realtà ricordava sin troppo bene Milano e la sua provincia, «terra vestita di lavoro», ma sprofondata in «una sera spaventosa, eterna».
Anche allora c’erano gli affaristi e gli energumeni del cemento, responsabili del nuovo kitsch dilagante: «di ville! Di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, “digradano dolcemente”».
Anche allora i clandestini premevano alle porte del benessere: «Tempestoso mare addosso le zattere sbatacchiate delle genti sperse, slavate, con sargassi di cinesi o di bracci di negri fuor dal ribollire delle onde: armeni, russi, bianchi e rossi, arabi che s’eran conquistati una scialuppa col coltello alla mano, levantini veri con un carico, sulla spalla, di tappeti finti, di Monza».
E anche allora c’erano i difensori delle tradizioni padane: «Son buona gente, no?... Un po’ rozzi, forse, un po’ gutturali nell’esprimersi: questo è certo una via di mezzo tra la palafitta e la caverna… ma buona gente».
Un paese immobile.
(post di Raffaele Liucci)

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Milano, Garzanti, 2008.

Chiocciole: @@@@@

Da regalare: al consigliere comunale verde di rabbia.

domenica 13 giugno 2010

Vivere in apnea

Se l’ipotesi che i vostri giorni stiano galleggiando sulla superficie di una quotidianità anestetizzata non vi turba nemmeno di striscio, di Palahniuk non saprete che farvene. In caso contrario vi divertirete davvero, e senza per forza piombare in una profonda crisi esistenziale, anzi con tutta probabilità sfogliando in pace le pagine seduti nella veranda della vostra villetta. L’assunto di partenza si fonda in effetti sulla convinzione che la quotidianità sia a priori una rinuncia, e che la vita vera sia solamente quella in cui tutto viene sovvertito. E in ciò Palahniuk rivela un lieve atteggiamento di superiorità (perdonato) di chi ama farsi gioco di ogni ideale o autorità, di chi non crede forse neppure alle uova sode e liquida con un’alzata di spalle tanto il credente praticante, quanto il cittadino ligio al senso civico o l’amante fedele.
Nulla è scontato e tutto si può provare, l’ortodossia è un concetto lontano anni luce, ma, ripeto, se non siete inclini all’indignazione o alla pruderie, il godimento è assicurato. Basta accettare di farsi guidare in un mondo a testa in giù, pazzoide, eppure con una sua logica, una sua sensatezza (ecco cosa mancava in Unoindiviso), arricchito da un beffardo disincanto mai strillato, né sbattuto in faccia, ma fatto piuttosto filtrare tra le righe. Cosicché – anche voi dediti esclusivamente alla posizione del missionario – arriverete senza accorgervene a sorridere di come Victor Mancini offre i suoi orifizi alla sessualità più sperimentale.
Nel caravanserraglio di Palahniuk i personaggi sono in grado di trasformare il soffocamento in un’attività redditizia; dimostrano che studiare medicina trasforma ogni sguardo in anamnesi; come si può sopravvivere fingendo di vivere nel ‘700; che il collezionare pietre può essere un’alternativa alla masturbazione compulsiva. Il confine fra sanità e pazzia si frantuma, le prospettive impreviste rendono la storia intrigante sino alla fine. Ed è in questo gioco continuo fra i due estremi che la trama trova il suo svolgersi e i suoi migliori colpi di scena. Il gusto di essere disadattati, di infilarsi tra le pieghe della società come farebbe un parassita, alla fine – ebbene sì – ha un suo perché.

Chuck Palahniuk, Soffocare, Milano, Mondadori, 2002.


Le mie chiocciole: @@@

Da regalare: al vostro medico di base, per un po' di clinico svago tra una ricetta e l'altra

sabato 5 giugno 2010

Tre misteri dietro a un libro

In principio i misteri sono tre: una persona, una voce, un testo. La persona si alza, si offre al pubblico, necessariamente emozionata; di lei nulla si sa e nulla si saprà, neppure alla fine, perché si fa subito da parte e lascia la scena alla voce. La voce non è mai come te l'aspetti, non la sai immaginare, ascolti: cattura l'attenzione, come una mano tesa che invita ad una passeggiata in un bosco. Dopo poche parole anche il terzo mistero si svela, è il testo. Lo puoi conoscere oppure udire per la prima volta, ma il risultato non cambia.
Incontrare le persone-libro è un'esperienza curiosa, carica di emozione. Non è come ascoltare un attore, un professionista, dal quale ci si aspetta una performance. Sul palcoscenico, spesso minimo, spesso improvvisato, c'è un lettore quale potrebbe esserlo ciascuno di noi. Sono lettori che decidono di condividere un libro che amano e ne fanno dono agli altri, in una sorta di propaganda sana e genuina, come è il proselitismo delle religioni 'migliori'. Non sono attori, eppure per altri versi lo sembrano, poiché c'è della verità nelle loro voci, la verità di una scelta del cuore che pochi, pochissimi attori sono in grado di estrarre da un copione.
Nell’appena conclusasi edizione del Salone del Libro di Torino, il tema era quello della memoria. Qui si parla appunto di memoria, ma in uno dei suoi significati più atavici, quello di strumento per i cantastorie. Non ha esattamente (e per fortuna!) il valore che ha nel romanzo di Ray Bradbury, da cui prende il nome il progetto originario Fahrenheit 451 - Las personas libro, nato in Spagna da un’idea di Antonio Rodríguez Menéndez. Il testimone italiano è stato preso da Sandra Giuliani che lo ha agganciato alle iniziative delle Donne di carta; non è un caso: le persone-libro che ho incontrato sono tutte donne, forse a conferma della superiorità femminile nel vivere il sentimento, nel lasciarsi immergere in esso mettendo in gioco ogni briciola di sé.
«Io sono...». Così iniziano le persone-libro, per qualche attimo non hanno altra personalità che quella del libro. E di che libri si tratta? Ovviamente la scelta è e deve essere libera, il libro va scelto, non imposto. Allo stesso modo si sceglie il brano da andare a memoria, puntando all'ideale intero assorbimento del testo. In genere si tratta di prosa, ma che ammicca alla poesia; quadri immobili quasi privi di trama che lasciano la curiosità di scoprire come sarà il racconto intero. Si scende in scena per dare al libro una vita eterna non più muta, anzi intensamente parlata, e di questo sarebbe felice Amos Oz (Una storia d'amore e di tenebra, p. 31): «quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca» o appunto nella memoria e nella voce di una persona-libro.

Foto: L'oratore di Segesta © Stefano Buldrini