domenica 5 giugno 2022

La molteplicità negata

Sarei curioso di vedere quanto convergiamo oggi sulla necessità del sacro e della sua complementarietà con la ragione, intendo se statisticamente siano più le persone che pensano – nel profondo – di poter vivere benissimo senza un legame con il divino, o se invece siano più quelle che pensano che di Dio non si possa fare a meno. La riflessione mi viene dopo la lettura de La ragione degli dei, un viaggio attraverso i secoli, seguendo le più differenti correnti di pensiero, che mette a confronto Occidente e Oriente. E da cui emerge l’India come terra salvifica.

L’adozione dell’alfabeto come sistema astratto di comunicazione ha aperto la strada della filosofia. Come dice McLuhan, «il mezzo è il messaggio», nel senso che inevitabilmente esso interviene a modificare il messaggio. E l’alfabeto scompone, impedisce di vedere il tutto. In questo modo, un po’ alla volta, l’Occidente si è emancipato da religione e mito. In principio i Greci non avevano una fede, erano immersi nel divino, solo in seguito i Romani ne fecero una religione. La società cristiana ha messo l’uomo al centro, desacralizzando la natura e dato il via all’individualismo, al materialismo, col risultato alla fine di far scomparire la religione.

Uno degli strumenti più efficaci di cui dispone il monoteismo cristiano e islamico è il concetto di una vita nell’aldilà. Queste due religioni sono molto vicine se viste da una prospettiva appena un po’ più ampia, ed entrambe hanno contribuito a creare le cattive pratiche che contraddistinguono l’epoca contemporanea. Entrambe hanno al vertice un Dio dittatore che non accetta altri da sé, producendo i primi esempi di “totalitarismo” moderno da cui derivano quelli politici. Un mio dubbio: il cristianesimo, anziché una causa, non potrebbe essere un effetto? Il controllo sulla comunità induce a creare dei sistemi che hanno radici simili, che sfruttano meccanismi affini, trasformare una cronologia in una genealogia potrebbe non avere senso. E in effetti anche in Egitto e in Iran si diffondono tendenze monoteistiche (p. 32).

Proselitismo e dogmatismo sono i principali ‘difetti’ di Cristianesimo e Islam, due eresie dell’Ebraismo. I martiri pagani non si ricordano, è la lontananza che non giustifica, è l’appartenenza alla schiera che non reca il vessillo in cui tutti dovremmo riconoscerci; se volete, sono un po’ come i martiri delle foibe. Quello che è utile ricordare, è che intolleranza e fondamentalismo sono elementi comuni in società diverse, nel luogo e nel tempo, e quella Occidentale non ne è immune. Dovremmo invece aver imparato ad agire con maggiore intelligenza, sfruttando quanto la filosofia e la storia ci insegnano. «L’intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo» scrive Schopenauer, citato a pag. 33, e l’espansione delle religioni aggressive ci ha fatto scordare la naturale tendenza alla tolleranza e all’apertura.

Dalle religioni come oppio dei popoli, si arriva paradossalmente oggi ai popoli senza spiritualità che abusano dell’oppio. Il progresso fine a se stesso non migliora la qualità della vita dell’uomo. Per questo il modello liberal-democratico è il più consono da applicare all’Occidente; morale e spiritualità servono a sorreggere l’essere umano nel tentativo di deviare dall’individualismo. Secondo Diego Infante, è Cartesio che ha formalizzato la separazione fra pensiero e materia, cancellando una visione olistica che oggi sopravvive forse solo in India. Europa e Usa garantiscono più diritti che imporre doveri, mentre in Oriente la collettività ha maggiore valore in un tutto che raccoglie il mondo. Non c’è dualismo: uomini, dei e natura sono un tutt’uno, sacro e profano si annullano.

In Occidente la materia è «elevata a paradigma unico del senso di vivere» (p. 37) ed è davvero difficile cancellare duemila anni di pensiero, o recuperare il valore sacrale del cosmo che avevano greci e romani. In India è fondamentale l’unità dell’espressione vitale, eppure esistono le caste. La nostra invece è un’uguaglianza in senso materialistico. L’essere è nella relazione, ma nel mondo occidentale la coesione sociale è a livelli molto bassi e molte dipendenze del mondo contemporaneo, come la ludopatia, sono esiti di un consumismo narcisistico.

Gli Usa si basano su un falso mito, il diritto alla felicità. È un principio socialmente disgregante ed ecologicamente insostenibile. Ne deriva un paese senza equilibrio che si sente investito del ruolo di missionario della civiltà, quando in realtà basa la sua storia sul genocidio dei nativi e sulla tratta degli schiavi. L’applicazione dell’etica puritana, fortemente antropocentrica, basata sul profitto, si oppone alla natura sentita come selvaggia. Un orizzonte sociale e culturale molto stretto e angusto che ha prodotto e produce le molte storture che conosciamo: le contraddizioni degli Stati Uniti fra ricchezza e povertà, libertà e discriminazione, il culto delle tecno-scienze, la spiritualità perduta. La legge è l’unica salvezza, almeno del nord del paese, mentre il sud, in una quasi anarchia, è il «prodotto dell’abominio coloniale» (p. 54).

L’opera di Infante è disseminata di spunti interessanti, alcuni stressati forse oltre un giusto limite, ma senza dubbio di stimolo alla discussione. Si arriva infine ad uno snodo chiave molto concreto, «il modello del benessere che non soddisfa solo i bisogni essenziali ma che ne crea di nuovi del tutto inutili, è palesemente insostenibile nel lungo periodo» (p. 120); c’è da chiedersi quando l’Occidente – ovvero noi tutti – vorremo accettare questa verità. Significherà allora invertire la rotta per quanto possibile e «conservare l’alterità ove questa sia sopravvissuta agli attacchi violenti degli universalismi» (p. 122). La profondità e la saggezza dell’India saranno perciò la nostra ancora di salvezza, dice Infante. Mi chiedo tuttavia se, nel momento in cui andremo a cercarle, le troveremo intatte. 


Diego Infante, La ragione degli dei. La bellezza del molteplice e la dittatura dell’unico, Ancona, Italic, 2015.


lunedì 23 maggio 2022

Nella valle del Belbo: Beppe Fenoglio e il racconto delle Langhe

In una splendida giornata al confine fra novembre e dicembre di qualche anno fa, colui che poi sarebbe divenuto un amico mi svelò, durante un sostanzioso pranzo albese, le ragioni della mia difficoltà. Gli stavo infatti raccontando della mia impossibilità a scrivere qualcosa su Alba e sulle colline: «Ogni volta che salgo da queste parti provo grandi emozioni, mi ribollono dentro pensieri, vorrei metterli sulla carta, ma quando mi siedo a scrivere non ci riesco, diventa tutto banale…»

Il mio amico sorrise, ingollò una forchettata, sorrise ancora e, con tutta la naturalezza del mondo, mi disse: «È proprio l’emozione che ti impedisce di scrivere»; «… ma io di solito scrivo perché sono emozionata…», obiettai. Il mio amico sorrise ancora, con un leggero sbuffare dal naso, e ribadì con impeccabile cortesia piemontese: «È l’emozione ti dico. Tu lasciala fluire, lasciala depositare e vedrai che, al momento giusto, le parole arriveranno».


Può essere che questo ora sia un momento giusto.


Quello stesso giorno salimmo in Alta Langa e per me era la prima volta. Paolo aveva deciso di condurmi nel cuore dei racconti di Fenoglio. Quelli dove la miseria, la meraviglia, la violenza, lo stupore, le fanfaronate, la dolcezza, gli adulti e i bambini, gli uomini e le donne, i piccoli sprazzi di speranza subito spenti si impastano sulla pagina insieme alle marne calcaree e sabbiose delle colline, qui ricoperte di noccioleti e perlopiù di pioppi, di ontani, di arbusti di varia specie perché l’Alta Langa è un luogo selvaggio, a centinaia di metri sul livello del mare, e la vite quassù non può dimorare.

Mentre ci lasciavamo alle spalle le terre dolci del Barolo, salivamo per curve sempre più ripide; io ero in silenzio con gli occhi giganti a catturare con lo sguardo paesaggi ancora sconosciuti. «Ah-ah! Guarda là!», voltai la testa nella direzione indicata dalla voce di Paolo: «Quello è il Monviso». Così vidi all’orizzonte le Alpi già innevate con il Monviso troneggiante e inconfondibile nella sua geometrica regolarità; come quinte impazzite di un teatro, le vette scomparivano e ricomparivano insieme al girare dei tornanti. In quel preciso istante ho capito che la visione improvvisa delle montagne per me è un’emozione prossima all’assoluto; ne avevo già avuto il sospetto quando dal molo Audace di Trieste mi è capitato di scorgerle a chiudere l’orizzonte marino, proprio dirimpetto alla città. Il sospetto si è trasformato in certezza matematica sui tornanti verso l’Alta Langa.


Un’ultima curva, infine, e proprio lì la Natura ha escogitato uno stratagemma da scenografa: il fitto della boscaglia si dirada e San Benedetto Belbo, con i suoi due campanili quasi l’un l’altro giustapposti, si mostra in tutta la sua aggregata compattezza, mollemente disteso a occupare l’intera cresta della collina. La distanza che separava i miei occhi dal paese si riempì della vertigine della valle del Belbo, il fiume che scorre appena sotto e che ha ridisegnato l’intero paesaggio scavando gole e mulinando in gorghi.


Molto dell’immaginario struggentemente concreto di Fenoglio è qui, addensato in qualche centinaio di metri, trasferito tal quale tra le sue pagine: il gorgo del fiume appunto, il cimitero del paese, la via principale con le due chiese, la casa della maestra, la casa del suo amico fraterno Ugo Cerrato – nella quale Fenoglio ha scritto molti dei suoi racconti durante le estati trascorse a prendere l’aria buona di quassù –, i due ippocastani – anch’essi numi tutelari del ticchettio dell’Olivetti Studio 44, quando Beppe sedeva a lavorare sotto la loro maestosa ombra –, le piccole corti – dove si improvvisavano partite di pantalera perché qui i tetti sono adatti a far rimbalzare il balon –, la censa di Placido Canonica.


Ecco, la censa di Placido è una magia nella magia: in un minuscolo paese che ha moltissimi cuori disseminati qua e là, la censa di Placido è forse fra essi il più grande. 

Definirla un sali e tabacchi (perciò censa, da licenza, concessa dai monopoli di Stato), un’osteria, una drogheria, non le rende ragione. La censa di Placido pompava vita nell’intero apparato circolatorio di San Benedetto e perciò da essa sono fluiti e ancora ricircolano i racconti di Fenoglio. Tutto il quotidiano e lo straordinario del paese distillava da quei muri di pietra male intonacati, dalla porta rialzata a doppio battente di legno, dall’insegna dipinta a caratteri cubitali, “Trattoria | commestibili”, come se si potesse fare confusione sulla natura del posto. Ecco, quando quel giorno al confine fra novembre e dicembre, con Paolo siamo giunti davanti alla censa di Placido, ecco, io ho ripensato al momento preciso e indimenticabile nel quale, leggendo Il partigiano Johnny, ho avuto il desiderio urgente, fisico e insopprimibile di partire e di arrivare nei posti raccontati da Fenoglio, per poterli vedere davvero con i miei occhi e non solo immaginare. E mentre ripensavo a quell’istante, ho dovuto, con fatica, ricacciare indietro due lacrimoni, ché non mi pareva bello mettermi a piangere come un vitello lì davanti alla censa, sotto gli ippocastani di Beppe e sotto gli occhi di Paolo.


Muri sbrecciati, intonaci corrosi, lampioncini monchi, finestre aperte sul vuoto, vetri in frantumi, una triste tenda rossa che si agitava in un vento leggero: la censa quel giorno era l’incarnazione dello scorrere del tempo impietoso. E mentre riflettevo su questa inesorabile assenza di pietas, il clangore di una saracinesca e la voce di Paolo mi richiamarono: «Entriamo… attenzione… c’è un bel po’ di confusione qua dentro, però mi fa piacere mostrarti anche l’interno…»


All’esterno il tempo aveva trasformato la censa in un rudere, ma quasi nessun potere aveva invece avuto sull’interno, a parte un uniforme deposito di polvere e una coltre di ragnatele lanuginose. Il bancone di Placido era ancora lì, massiccio e splendido nel suo inaspettato color verde Tiffany, insieme a fiaschi in vetro e paglia, piccole damigiane, bicchieri da vino, tavoli di legno e perfette sedie da osteria con le sedute in paglia intrecciata. Allora di fronte a quella visione, oltre a commuovermi di nuovo di nascosto, pensai che Fenoglio è realmente esistito e insieme a lui Placido e tutti i Paco, Pietro, Gemma, Catinina, Maggiorino, Juccia, Giulia, Davide, Superino, Menemio, e pensai che tutti questi uomini e queste donne erano passati tutti da quel bancone che in quel momento io osservavo ricoperto di polvere e di ragnatele.

E la censa era così viva e così concreta che ebbi l’impulso di prendere un bicchiere, di rimettere in piedi una sedia, di accomodarmici sopra e di attendere Placido. Mi dissuase solo lo scricchiolio del pavimento sotto i miei passi cauti.


Quindi uscimmo dalla censa, la saracinesca fu richiusa. Fui grata a Paolo per quella giornata. Fui grata a tutta la mia comunità albese che aveva reso possibile quella giornata.


Il 14 maggio scorso, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, la censa di Placido è stata aperta al pubblico, recuperata e trasformata in un luogo dedicato alla memoria letteraria dello scrittore albese. E io, ora, sono impaziente.


(post e foto di Eva Ponzi)

domenica 21 marzo 2021

Ed era come un mal di Bosnia #5

Quinta parte

                                                                         (qui trovi la prima parte, la seconda, la terza e la quarta)

Sarajevo ci aspetta, noi invece non sappiamo cosa aspettarci da lei. Siamo in terra di Bosnia da meno di ventiquattr’ore e il senso di straniamento che abbiamo provato subito al confine, con l’attraversamento della Sava, non si attenua. Si fa al contrario più intenso e non ne riconosciamo le ragioni. Appena ieri eravamo a Zagabria, che solo per un caso della vita ci è divenuta familiare, e ieri l’altro eravamo a Trieste, familiare per lo stesso casuale motivo; ora invece siamo in un’automobile a percorrere la rete stradale bosniaca. Lo stupore nella dimensione del viaggio è una sorta di tormentone della nostra famiglia – leggendaria è rimasta quell’ennesima gita a Parigi nella quale io, a ogni angolo già ben noto, non facevo altro che esclamare: «Che meraviglia! Che meraviglia!» –; questa volta però la sorpresa dell’essere altrove è particolarmente intensa, forse proprio perché non ne individuiamo la radice, è sorpresa pura. L’indeterminatezza di questo viaggio estemporaneo, nato senza preparazione e senza progetto, ci emoziona.

Tea è quieta sul plaid che abbiamo steso sul sedile posteriore – al noleggio croato sono stati categorici, l’auto deve tornare nelle stesse esatte condizioni di consegna, ogni leggerezza sarà severamente punita in solido –, è tranquilla come non mai, sembra una piccola sfinge nera e riccia che di tanto in tanto si umetta il naso con la lunga lingua rosa. Seguire l’esempio di Tea: accomodarci anche noi in carrozza e abbandonarci alla strada.

La macchina rulla sull’asfalto impeccabile, la radio suona nemmeno a dirlo musica balcanica, la cagnetta sonnecchia; dopo il viaggio in notturna della sera precedente, noi possiamo finalmente osservare il paesaggio illuminato dal giorno. E, come avevamo potuto intuire tra la bruma, il buio e i nostri fari accesi, attorno a noi, con la luce, si materializzano scenari suggestivi. L’autunno rosso e giallo è nel pieno del suo rigoglio, la Vrbas scorre, ci affianca e continua a indicarci la via, tra gole scavate dall’acqua, colline spruzzate di colore, paesaggi non popolati da esseri viventi. 

Una natura solitaria, dove l’umano prende la forma di moschee rurali con l’immancabile cimitero di lapidi bianche tutte identiche tra loro, o di piccole fattorie sempre circondate da orti variamente estesi, con i monumentali covoni di fieno che montano la guardia ai campi coltivati. Oltre ad alcuni curiosi e minuscoli ponti tibetani, fra le tracce indirette dell’umano più di tutte mi incuriosiscono i binari ferroviari: da dove arrivano e dove vanno queste rotaie ravvicinate su traversine corte, segmenti di percorsi frammentati, privi di un inizio e di una fine, che scorgo al di là del finestrino? Sembrano tante graffette di spillatrice che ancorano la terra a sé stessa. Mi chiedo se siano ancora in uso o se si tratti di retaggi metallici del vecchio mondo jugoslavo. Poi, in un momento ormai imprecisato del nostro andare bosniaco, compare lui, come in una visione onirica e felliniana: un convoglio sottile e lunghissimo che, miniaturizzato nell’estensione del paesaggio aperto, sembra un trenino elettrico di quelli belli del modellismo d’antan.

A intervalli quasi costanti, il ciglio della strada si popola dei frutti delle attività agresti: bancarelle espongono, racchiusi in grandi reti rosse a maglie fini, cavoli cappucci bianchi, di quella speciale qualità piatta che prima di quel momento avevo visto solo al Dolac, il principale mercato di Zagabria; piccoli peperoni albini sistemati in forma di piramide, anch’essi noti per le vie zagabresi (nella foto); pile di vasi di miele di tutte le sfumature dell’ambra – al ritorno in Italia leggerò sul sito di Slowfood che il miele dell’Erzegovina è il più rinomato dei Balcani e, in effetti, ricordo di aver visto anche molte arnie. Il profilo pastorale del paese si manifesta, ugualmente sul ciglio della strada, nelle indicazioni fotografiche, sempre molto eloquenti e invitanti, dei ristoranti che servono ogni tipo di carne alla brace; in un caso, una schiera di dorati agnelli allo spiedo sfrigola in bella mostra poco oltre la striscia laterale della carreggiata. «Tra le specialità bosniache riconosciute a livello internazionale si distinguono le carni alla griglia», avevo letto nella guida. Mai ci fu tanta corrispondenza tra una guida e un viaggio. Per un momento siamo tentate di fermarci al volo per una seconda e inconsueta colazione, ma poi il richiamo di Sarajevo vince sull’acquolina.

«Tra i formaggi, la Bosnia Erzegovina ne offre tra i più nobili e saporiti di tutti i Balcani […] Sempre fresco è il travnički sir, originario della cittadina di Travnik nella Bosnia centrale». Mentre seguo il nostro percorso sulla mappa cartacea, mi accorgo che, anche in questo caso, la guida non sbaglia: i banchetti di cavoli e di peperoni hanno improvvisamente lasciato il posto a una analoga miriade di espositori, ma di ‘formaggio di Travnik’, appunto. Una sequenza quasi senza fine di piccole forme bianchissime che diventa per noi, estimatrici di latticini, oltre che motivo di meraviglia anche un incontrovertibile segno che siamo sulla strada giusta. Sappiamo infatti di dover oltrepassare la città per proseguire nel nostro corretto andare verso sud-est.

Travnik. I più colti, o anche solo appassionati di una certa narrativa, lo avrebbero pensato subito: Travnik, Ivo Andrić. Io l’ho scoperto attraversando la Bosnia in automobile. Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura nel 1961, era nato nel 1892 appunto nella città che ci apprestiamo ad attraversare, quando quelle terre erano ancora territorio dell’Impero austro-ungarico e ancora prima – poco prima, in realtà, 1878 – dell’Impero Ottomano. Ora, mentre scrivo, sfoglio la mia copia de Il ponte sulla Drina, tra i suoi più celebri romanzi: l’ho pescata dallo scaffale dell’usato della mia libreria di fiducia; la stavo attendendo da mesi e alla fine si è materializzata in piena estate: esempio del fatalismo che talora mi piglia in fatto di approvvigionamento di libri, di tanto in tanto acquisiti non per ordinazione, ma per via epifanica.

La mia Drina è una edizione del 1963, ben tenuta, appartenuta a ‘S. Maria’ che la acquistò in quello stesso anno e che ha voluto fissare l’evento con un inchiostro grigio dal tratto sottile, sul primo foglio dopo la copertina. La narrazione ha lo stesso andamento del fiume del quale racconta: si incunea, scava, si gonfia nella piena per tornare a un placido corso, e poi daccapo. «Ma nell’anima loro erano seriamente preoccupati, e ciascuno, sotto quelle celie e quelle risate controvoglia, come sotto una maschera, rimuginava nella propria mente pensieri affannosi, e tendeva incessantemente l’orecchio per sentire lo strepitio dell’acqua e del vento proveniente dalla parte bassa della cittadina, dove erano rimasti tutti i suoi averi».

Siamo in macchina, a metà del nostro tragitto, e ancora non possiamo sapere che Sarajevo ci avrebbe insegnato a non fidarci della spensieratezza, dell’allegria, della normalità che pure avremmo visto; che, al contrario, ci avrebbe costrette a guardare oltre quelle maschere. È a Travnik però che giunge il primo e potente invito a modificare il nostro sguardo. Siamo ferme a un semaforo in periferia, ma sulla direttrice principale e, nell’ordine: inveiamo contro un traffico che ci sembra fuori controllo; ci diciamo che abbiamo fatto bene a dormire a Jajce perché Travnik sarebbe stata troppo caotica; ci assicuriamo del benessere di Tea; saltiamo da una stazione radio all’altra; sgranocchiamo gli ultimi taralli del giorno prima. Facciamo insomma cose normali dentro l’abitacolo dell’auto. Infine, un’ulteriore azione normale: rivolgo lo sguardo fuori dal finestrino.

Raggelo all’istante. D’improvviso non è più normale alcunché. Spero che il semaforo continui a essere rosso quel tanto che mi permetta di poter sciogliere la lingua, riprendere la respirazione, rimettere in moto i muscoli facciali ed espirare il fiato necessario a richiamare l’attenzione di Junior e di Seniorsenior su ciò che sto fissando con gli occhi ormai dilatati su tutto il mio viso. Tra i palazzoni grigi dalle inconfondibili forme dell’edilizia sovietica, ne spicca uno dalla medesima discutibile estetica e perfettamente intatto come gli altri, tranne che per un dettaglio: nell’intonaco tra l’ultimo piano e il lastrico solare si apre una estesa screpolatura a forma di stella molto irregolare. I segni del mortaio.

Come davanti ai monumenti ai caduti di Jajce, il cortocircuito si innesca di nuovo nel tempo di uno sguardo: attraverso il battito delle mie ciglia, la dimensione agreste-pastorale, i colori dell’autunno, le suggestioni letterarie, il nostro stesso essere in viaggio in un fine settimana lungo di novembre entrano in collisione con quella traccia sull’intonaco di un palazzo qualsiasi sulla strada principale di Travnik. Silenzio nell’abitacolo. Poi sento il suono della mia voce: «Ma quello è il segno di un mortaio vero». Venticinque anni dalla fine della guerra e quel segno è ancora lì, mentre l’intorno è permeato di quotidianità e di vita che scorre. E quel segno è lì. Senza il filtro della testimonianza, del racconto, del libro di storia.

Il verde infine scatta, Junior ingrana la prima e poi la seconda, Tea – che si era alzata sulle quattro zampe come a voler anch’ella prendere parte a quel momento – si accuccia di nuovo accanto a Seniorsenior che tace e la accarezza sulla testa; io do distrattamente un’occhiata alla mappa stradale.

(Post e foto di Eva Ponzi)

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto

mercoledì 13 gennaio 2021

Ed era come un mal di Bosnia #4

Quarta parte


Nel grigio brumoso del risveglio a Jajce, la varietà cromatica dei crisantemi colpisce il mio occhio. Accostate le une alle altre, turgide e rigogliose piante dal portamento cespuglioso creano una distesa di cupolette fiorite, meta di un viavai di persone, perlopiù uomini, incaricati di acquistare per i propri morti uno di quegli omaggi brillanti. E l’impressione è che qui i morti siano ben più dei vivi. Ma non è solo un fatto di numeri, piuttosto di peso: appena oltrepassato il confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina, i cimiteri divengono parte integrante del paesaggio nell’autunno in fiamme. Agglomerati bianchi di steli sobrie – così come impone la tradizione dell’Islam –, erette nel terreno a declivio sulle alture oppure tra un campo coltivato e una piccola moschea di campagna. A dire il vero, mi chiedo chi siano i veri destinatari di tutti quei vasi: da quello che so, l’austerità islamica in fatto di addobbi tombali prevede l’assenza di chincaglierie, di esibizioni di dubbio gusto, di fiori appunto. Il cimitero monumentale di Sarajevo, sulla collina di Alifakovac, mi dimostrerà una volta di più che anche il dogma può essere sfumato. Lì arbusti di rose e cespugli variamente fioriti condividono la terra con i trapassati, concime per le piante: tra loro e le radici nessuna barriera di legno e di zinco a impedire lo scambio di vita – l’inumazione avviene infatti senza feretro. In questo viaggio, i morti visibili e invisibili ci ricorderanno di continuo, e nei momenti più impensati, della loro presenza.

Il nostro nuovo ingresso in città è epica e cinematografo – peccato non ci fosse nessuno a riprendere la scena –: appena varcata la porta Banja Luka (quella a nord), un nutritissimo branco di cani randagi di ogni razza, taglia, colore ci viene incontro per fare gli onori di casa (e ora capisco decisamente meglio il problema segnalato dalla guida). Si muovono tutti insieme verso di noi, incedono lenti e compassati, non si curano degli autoctoni, siamo noi che sentono di dover accogliere, procedono come un’unica nuvola pelosa, un corpo patchwork con tante zampe, silenzioso, coordinato nei movimenti con precisione marziale. Poi la nuvola si apre e, sempre lenta ma sicura, ci ingloba completamente; benché bipedi (la nostra barboncina saggiamente lasciata nell’appartamento), iniziamo anche noi a ondeggiare allo stesso passo di quei dieci-quindici cani, che io tanti cani così in vita mia non li ho mai visti e meno male che nel frattempo nella nostra vita è entrata Tea ché altrimenti a Jajce con tutti quei cani randagi intorno un attacco di panico non ce lo avrebbe tolto nessuno. La falange canina sa che il nostro corpo ha bisogno di energia, ci scorta perciò fino a un ottimo bar-pasticceria per la colazione.

Appena entriamo, il branco si dilegua così come era apparso, mentre sul nostro tavolo si materializzano triangoli di baklava preparato a regola d’arte, un miracolo di sciroppo di zucchero, frutta secca, sfoglie croccanti e dorate. È un prodigio della fisica il baklava, umido ma non ammollato, morbido ma sodo sotto i denti, familiare ma esotico. Molti lo trovano troppo dolce e stucchevole, io non smetterei mai di mangiarne proprio per gli stessi motivi. È l’equilibrio nell’eccesso. Gustato poi insieme al caffè turco, servito con il servizio di rame come usa da queste parti, il baklava spalanca le porte della percezione.

«Da ieri mattina la città di Jajce, a metà strada tra Banja Luka e Sarajevo, è controllata dalle forze serbe. I difensori croati e musulmani e la popolazione civile si sono ritirati verso Travnik. Si conclude così la battaglia per quello che fonti serbe definiscono il ''confine meridionale della Krajna'', con capoluogo Banja Luka» e poi «Resta incerta intanto la situazione a Jajce e Travnik sottoposti ieri a intensi bombardamenti. Da Jajce verso Travnik e verso Bogaj si riversano decine di migliaia di profughi per cui gli attacchi delle artiglierie vengono visti in funzione di questo esodo, cioè come una manovra per costringere gli sfollati, anche a costo di uccisioni di massa, ad allontanarsi quanto più possibile dalla zona che evidentemente le truppe serbe intendono ''epurare'' etnicamente in via definitiva». Trovo on line nell’archivio dell’Adnkronos queste brevissime notizie, datate fine ottobre-primi novembre 1992, quando cerco di capire perché nel bel mezzo del centro storico della città vi siano due monumenti ai caduti, l’uno di fronte all’altro, uno con la bandiera blu/gialla a stelle bianche della Bosnia, l’altra rossa/bianca/blu con lo scudo a scacchi rossi/bianchi della Croazia. Eccoli i morti, arrivano così, tra una passeggiata con i cani randagi e una dolcissima colazione. Solamente tornata in Italia leggerò Maschere per un massacro di Paolo Rumiz, lucido, illuminante, dolorosissimo, denso volume che racconta vita morte e nessun miracolo dell’incredibile guerra al di là dell’Adriatico tra il 1991 e il 1996. Difficile capire fino in fondo anche quando a spiegare è uno come Rumiz, che quelle cose le ha viste, sentite e persino annusate, perciò su questo argomento non dirò null’altro se non delle emozioni raccolte sui luoghi.

Mi guardo intorno, il cielo è plumbeo, gli abitanti di Jajce sembrano sereni, fanno cose normali, gli uomini parlano tra loro in piccoli capannelli, le donne con il capo cinto da fazzoletti portano buste della spesa oppure vendono agli angoli delle strade i prodotti del loro orto, alcune hanno persino allestito bancarelle di fortuna sulle soglie dei negozi ancora chiusi; passano due poliziotti a piedi a pattugliare la via principale; a una a una aprono le piccole botteghe turistiche con souvenir molto artigianali, come i magneti da frigorifero ottenuti dalla sovrapposizione tra calamita, tassello di formica, foto delle cascate nella bella stagione o ghiacciate dal freddo invernale (naturalmente ne prendo una per la mia collezione).

Il cartello marrone indica come punti di interesse storico il convento francescano e la moschea Esme Sultanije, il sottofondo sonoro è lo scroscio dell’acqua che appena fuori dalle mura fa un salto di 20 metri. Osservare e ascoltare questa vita, poi girarsi verso i monumenti ai caduti crea un cortocircuito difficile da raccontare: la memoria della guerra occupa uno spazio visivo maggiore di quello della moschea, ma è contemporaneamente compresso tra una specie di pub e una panetteria; è una presenza difficile da ignorare, ci devi per forza passare in mezzo, ma è un attraversamento che ti porta all’attrazione principale della città o alla pizzeria riadattata alla bosniaca. La vita e la morte qui si confondono, si compenetrano, non hanno confini definiti, sei continuamente costretto a passaggi di stato tra le due condizioni, non puoi considerare l’una senza imbatterti nell’altra, e viceversa. Realizzo che la maggior parte delle persone che incontriamo per la strada era qui – o chissà dove, a dir la verità – durante il conflitto; non sparuti testimoni di un passato da tramandare (questo normalmente è il nostro orizzonte, per questioni cronologiche), ma protagonisti vivi e attivi (da quale parte stavano?) di drammatiche vicende che ancora oggi serpeggiano in questa società.

«In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: “Est”. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude. “Quando mi presento come europeo d’Oriente”, mi raccontò un giorno Aydin Uğur, professore di comunicazione all’Università di Istanbul, “mi godo lo smarrimento nei miei interlocutori dell’Ovest. Pensano che l’Oriente stia solo in Asia”». Rileggo queste parole ancora in Paolo Rumiz, È Oriente: la sensazione di essere in un luogo distante eppure familiare aumenta.
Ci rimettiamo in macchina, attraversiamo porta Travnik, aperta verso il Meridione.
Sarajevo calling.

(Post e foto di Eva Ponzi)

Zagabria – Jajce – Sarajevo (e ritorno) in automobile, viaggio per tre donne e un cane (Tea)
Senza l’insistenza e l’entusiasmo di Junior chissà quando lo avremmo fatto